Angela riuscì a chiudere la porta dietro di sé. Le imprecazioni di sua madre rimasero fuori: anche questa volta era quasi andata bene. Con la lingua sentì, sul labbro inferiore, il sapore del sangue che le confermò che il ceffone di sua madre le aveva procurato un lieve taglio. Doveva andarsene. Sì, doveva andar via da quella casa. Si avvicinò alla finestra, fuori il cielo era grigio, la sua vita era grigia, tutto era grigio in quel posto: grandi palazzoni di edilizia popolare, in un quartiere che col tempo era degradato, abitato da ladri, puttane, spacciatori e balordi di ogni specie. Sua madre abitava lì, in un appartamento in affitto, suo padre mai conosciuto, forse era uno dei tanti fidanzati di sua madre. Una bella donna che, con il tempo, si era ridotta a fare la prostituta, a vivere sempre semi ubriaca, a girare per casa mezza nuda, convivendo sempre con un balordo di turno, che regolarmente la sfruttava e poi le dava un calcio e via. Dove andarsene! L’ultimo amico di sua madre era un tipo poco raccomandabile, peggiore degli altri che si erano avvicendati prima: un bulletto che si credeva furbo, l’aveva guardata con occhi cattivi.


«Tua figlia sta diventando bella, uno di questi giorni le insegno il mestiere, così vi metto a battere in strada tutte due e guadagno il doppio.»


Quelle parole ad Angela avevano fatto venir la pelle d’oca; ora doveva scappare, se non voleva far quella fine. Era riuscita a sfuggire, due o tre volte, allo stupro, e non voleva che fosse lui a prendere la sua verginità. Andava a scuola dall’altra parte della città, vicino a casa di sua zia Ada.


Lei sì che era una vera donna. Aveva studiato, si era sposata con un ferroviere, possedeva una bella casa, amava stare con lei, specie da quando, un anno fa, era morto suo zio, stroncato da un infarto. Sua zia era sempre felice di averla in casa. Angela sapeva farsi voler bene. Era una ragazza sveglia, sapeva far tutte le faccende domestiche e lo faceva volentieri per sua zia, che non aveva figli, quindi la considerava e le voleva bene, come ad una figlia.


«Questa casa è sempre aperta per te.» Le diceva sempre.


A volte Angela passava da lei per non tornare a casa. Si sentiva bene con lei, ora doveva scappare: a quasi diciotto anni, doveva decidersi. Mise dentro lo zaino i libri, in una sacca i pochi vestiti che aveva. Vestiva sempre in modo da non attirare l’attenzione, in classe passava quasi inosservata, mentre vedeva le sue compagne vestirsi sempre in modo da attirare lo sguardo dei maschi; lei, invece, riusciva a scomparire anche in mezzo alla folla. Uscì piano dalla camera, sua madre era in bagno; chiuse piano la porta, mentre stava per scender le scale, vide il balordo che saliva. In silenzio, salì al piano di sopra, lui entrò in casa: aveva le chiavi. Scese, corse fuori, prese al volo il bus che l’avrebbe portata dall’altra parte della città. Non si girò: forse sua madre si sarebbe accorta della sua scomparsa, solo fra qualche giorno. Ada la vide davanti al portone, le sembrò un uccellino piccolo e indifeso. Le raccontò gli ultimi avvenimenti.


«Vieni, togliti questi abiti bagnati, fatti una doccia che ti riscalda; io intanto ti preparo qualche cosa di caldo.»


La sera Ada disse che, se voleva, poteva decidere se dormire sul divano letto della cameretta o nel letto con lei. Quando si trovò distesa al suo fianco, le sembrò che, finalmente, si poteva rilassare, le mani della donna le massaggiavano le spalle.


«Rilassati, non pensare a nulla: qui sei al sicuro.»


Lei sentiva uno strano languore crescere dentro di sé; era dolce il modo in cui la zia l’accarezzava, lei si lasciò andare. Lentamente si sentiva dentro una sensazione di benessere, la bocca della zia a poca distanza dalla sua, le parole appena sussurrate, le carezze erano dolcissime.


«Che bel seno che hai zia, il mio è molto piccolo: posso toccarlo?» Lei sorrise.


«Non disperare, presto diventerà grande anche il tuo: sì, puoi toccarlo.»


Angela portò lentamente la mano sulla mammella, era soda, il capezzolo grande, duro, Ada ebbe un gemito.


Il contatto la faceva impazzire. Allungò la sua mano sul seno della ragazza, lei si mise a tremare come una foglia. Era uno strano languore quello che provò quando Ada appoggiò le sue labbra alla sua bocca; lei non oppose nessuna resistenza. Lasciò che Ada insinuasse la lingua dentro la sua bocca, rispose con ardore a quel bacio, lunghissimo, che la fece vibrare come una corda di violino, mentre fra le sue cosce sentiva come un fuoco. La mano, dal seno scese giù, fra le cosce, le divaricò istintivamente, le dita della donna le procurarono subito un piacere sconosciuto. Sentiva scorrer dentro un misto di dolore e piacere, inarrestabile. Lei non sapeva reagire, rimase immobile. La zia, temendo di esagerare, non andò oltre, si tenne il suo corpo stretto a sé e si addormentarono così. Durante il resto della settimana, la sera continuarono a toccarsi sempre, senza andare molto più in là. La sera del suo diciottesimo compleanno, mentre stavano cenando, sentirono il telegiornale in tv. Il cronista si mise a leggere una notizia che gelò il sangue a entrambe. In una sparatoria dentro un bar, il fidanzato di sua madre era stato ucciso e quello, nel tentativo di ripararsi, si era fatto scudo con il corpo di sua madre, con il risultato di morire entrambi. I dieci giorni successivi furono tremendi. La Polizia voleva sapere dei legami fra sua madre ed il balordo morto. Il funerale, tutte le altre cose, misero Angela al centro dell’attenzione; era una cosa che lei odiava da morire. Tornò con Ada, nell’appartamento di sua madre; prese le sue ultime cose, vendette tutto il resto, poi si rese conto che non sapeva cosa farsene dei soldi ricavati.


«Ci prendi la patente di guida: io mi devo operare al menisco, aspetterò fino a che tu non abbia conseguito la patente, poi mi opero.»


Angela pensò che fosse una bella idea. Cinquanta giorni dopo, sventolava la patente davanti alla faccia di sua zia che, dalla contentezza l’abbracciò forte e le diede un lungo bacio in bocca. Una settimana dopo, si recarono in uno studio ortopedico di un caro amico di sua zia. Mentre erano in sala d’aspetto, videro entrare una signora con entrambe le gambe ingessate su di una sedia a rotelle, spinta da una badante straniera.


«Ada, che ci fai qui?»


«Flavia, sei proprio tu?»


Le donne si abbracciarono calorosamente, mentre la badante si mise in un angolo a parlare nella sua lingua al cellulare. Si raccontarono le rispettive vicissitudini. Flavia non la vedeva dal funerale di suo zio. Era stata vittima di un incidente in montagna, mentre era a sciare: una deficiente l’aveva investita fratturandole entrambe le caviglie ed ora doveva togliere il gesso: era lì per quello. Poi, girando lo sguardo, chiese ad Ada.


«Chi è questa bellissima cerbiatta, che ti porti dietro?»


Angela arrossi fino alla cima dei capelli. Effettivamente, con quel suo fisico minuto, il viso tondo, gli occhi grandi e scuri, sembrava davvero una cerbiatta.


«E' mia nipote, una ragazza molto in gamba, ma un po' sfortunata.»


Flavia la scrutò intensamente. Sentiva i suoi occhi entrare dentro la sua anima, poi le chiese quale fosse il suo lavoro. Angela riuscì a recuperare un po’ di voce e disse di esser al quinto anno di ragioneria. Ada aggiunse che era anche bravissima.


«Ha la media del nove!»


Flavia sorrise, poi aggiunse.


«Se sei veramente brava, io potrei aver bisogno di te. La mia commercialista, fra poco, andrà in maternità e devo sostituirla. Quando ti sarai diplomata, cercami, anzi, dammi il tuo cellulare!»


Tornando a casa, Ada le raccontò di loro, che erano state amiche di scuola, si erano frequentate moltissimo, poi la vita le aveva divise: si erano riviste al funerale di suo marito.


«È una donna molto potente. Metà della città gli deve dei favori, mentre l’altra metà, sta ai suoi ordini. Potresti fare la tua fortuna: ha una lavanderia industriale, creata da suo padre, lei la dirige e ne ha fatto una vera miniera d’oro.”


Due giorni dopo, Flavia chiamò le due donne.


«La mia badante mi ha lasciato per problemi con il marito; io ho appena tolto il gesso e non riesco quasi a muovermi: avrei bisogno di una mano.»


Andarono a casa sua. Una villa splendida, appena sulla collina davanti alla città. Angela, entrando, si rese conto che quella casa era bellissima: arredata con gusto totalmente femminile, era perfetta in ogni suo dettaglio. Flavia era davvero immobilizzata, si muoveva a mala pena con due stampelle. Mentre Ada metteva in ordine la casa, Angela la portò davanti alla scrivania dello studio. Flavia fece alcune telefonate, poi le chiese:


«Hai la patente, potresti portarmi in azienda?»


Andarono con la vettura di Flavia, una sportiva degna di lei. Angela sentiva tremar i polsi alla potenza di quel veicolo, ma riuscì a dominarlo in maniera perfetta, tanto che, al ritorno, lei le fece i complimenti ed una proposta.


«Comprendo che devi studiare, ma resteresti ancora con me? Sono completamente sola, non riesco quasi a muovermi, devo far la ginnastica riabilitativa, ma ancora mi muovo malissimo ed ho paura di cadere.»


Ad Angela sembrava un sogno, quella splendida donna aveva bisogno di lei. Andò a casa, prese i libri e alcuni indumenti, poi tornò da lei. La sera, dopo aver cenato, aveva cucinato Angela, si misero sedute a parlare. Lentamente riuscì ad aprirsi con lei. Era tranquilla fra donne, questo la faceva sentir bene. Flavia aveva un modo dolcissimo di parlare, quasi sommesso, mai aggressivo. Angela era affascinata dalla grazia, classe e delicatezza di quella donna e glielo disse. Al momento di andare a dormire, l’accompagnò fino in camera, l’aiutò a spogliarsi. Lei aveva trentasei anni, ma sembrava averne venticinque al massimo. Pelle liscia, nessuna ruga, smagliatura o un filo di cellulite, un corpo quasi perfetto, terza di seno abbondante, capelli rossi naturali, gambe lunghe, toniche, anche se ora il tono muscolare era un po' compromesso, apparivano pur sempre belle, mani con dita lunghe, occhi chiari, labbra e bocca non troppo grandi. Angela la aiutò a distendersi nel letto, poi fece per andarsene.


«Dove vai? Non potresti restar qui? È tanto grande questo letto, che può ospitare entrambe; ma, se hai paura di dormire con me, va pure.»


Angela arrossì ancora, era timida; solo con sua zia riusciva a spogliarsi, ma, vincendo ogni remora, disse che non vi erano problemi. Si spogliò, mise il suo pigiama, si distese accanto a lei. Il mattino lei si levò, le preparò la colazione, poi la aiutò ad andare in bagno, doveva far una doccia: si spogliò nuda davanti a lei. Angela si sentiva strana, era eccitata dal corpo di quella donna, il triangolino di peli rossi sul pube era perfetto. La fece entrare dentro la doccia, lei si appoggiò alla parete, cercando di lavarsi, ma, con scarsi risultati. Angela prese il guanto di spugna e, da fuori, si mise a lavarla: incredibile, si stava eccitando a passare le mani su quel corpo e, anche lei non era indifferente alle sue carezze. Quando ebbe finito, le preparò un telo di spugna per avvolgerla, lei si lasciò abbracciare, si appoggiò alla giovane che a fatica riuscì a portarla di nuovo in camera, per distenderla sul letto. Lentamente le passava l’asciugamano sul corpo. Flavia stava in silenzio, era eccitata dalla carezza della ragazza, aveva timore a muoversi, lei avrebbe potuto fraintendere le sue intenzioni, mentre lei era rapita da quel visetto e dalla fragilità di quel corpicino che desiderava tantissimo. Per un momento, Angela smise di passare il panno sul corpo nudo davanti a lei. Sentiva dentro un profondo desiderio di baciarla. Sua zia le aveva detto che Flavia non aveva mai frequentato maschi, che, alle superiori, quando andava a casa sua, spesso si distendevano sul letto a baciarsi. Angela portò la sua bocca vicinissima alla sua, lei attese che la giovane le fosse vicina ed allungò la mano, gliela mise dietro la nuca e le bocche si unirono in un bacio interminabile, passionale, le lingue s’inseguivano, si toccavano, si univano incessantemente. Flavia distesa, Angela di lato a lei, le labbra percorsero ogni centimetro di quel giovane corpo acerbo. La fece vibrare e, quando si mise in bocca il seno ancora acerbo di Angela, quest'ultima ebbe un profondo gemito.


«… hmmmmuuhhmmmm … Sei bravissima!»


Angela si rese conto che lei era veramente esperta nell’arte di amare una donna. Le passò la lingua in ogni angolo del suo corpo. La fece vibrare come la corda di un violino, le fece emettere una melodiosa serie di suoni di puro piacere.


«Sì, dai, ti supplico non ti fermare!»


Desiderava godere, ma lei indugiava, alla fine Angela le prese la testa, la schiacciò sul suo bottoncino ed ebbe subito un forte orgasmo, che la scosse tutta.


«Vengo! Finalmente!»


A quel punto, si girò verso di lei, insinuò la sua testa fra le gambe di Flavia, si scatenò a leccare, succhiare con impeto la fica di lei che, alla fine, dovette staccarsi ed urlare il proprio piacere.


«ooooohhh, amore dolcissimo, dai che godo. Vengo!»


Si rigirò incollando la sua bocca a quella di Angela, si strinse con passione a quel giovane corpo.


«Ti ho amato dal primo istante che ti ho vista. Ti amo, ma, se hai paura di questa cosa, allora vattene, io non potrei sopportare che tu non mi amassi.»


Angela aveva le lacrime agli occhi. La guardò con tutto l’amore, che non aveva mai provato per nessuno.


«Anch’io ti amo, ti ho desiderato sin da subito, mi sei entrata dentro al primo sguardo, spero di esser degna di te.»


Fu subito amore. Amore grande, completo, senza riserve, un corpo e un’anima nel vero senso della parola. Nei quattro anni che seguirono, divennero inseparabili. Flavia le insegnò tutto. In fabbrica le affidò sempre maggiori responsabilità. Angela era una dirigente perfetta. Giusta con il personale, ma determinata con i clienti. I suoi sottoposti, per l’ottanta per cento, erano donne, l’adoravano, sia per il modo di dirigere, sia per il coraggio di dichiarare il suo amore per Flavia: la chiamavano “la signorina”. Nella vita quotidiana, Flavia fu una maestra perfetta. Niente più vestiti anonimi, ma eleganza, classe e buon gusto, divennero la sua abitudine, ma era a letto che la discepola superò la maestra. Angela era diventata insuperabile nel far morir di piacere Flavia. La sua gioventù, la sua fame di sesso, la stordiva e, alla fine, Flavia ne usciva ogni volta sfinita, ma sempre desiderosa di ricominciare, non era mai sazia del piacere che Angela le dava.


Era quasi Natale, erano nel loro ufficio.


«Da un primo bilancio, credo che anche questo semestre sarà molto positivo; direi che avremo raddoppiato gli utili anche per quest’anno.»


Flavia alzò lo sguardo verso il suo amore, sorrise.


«È tutto merito tuo: da quando sei entrata in quest’azienda, abbiamo migliorato ogni giorno di più. Che ne dici di andare a festeggiare in quel locale nuovo di Marina?»


«Certo, così quella troia ti rimette gli occhi addosso; credo che si sia creato un pensierino su di te.»


A Flavia faceva piacere quella finta gelosia. Le faceva capire che la piccola non abbassava mai la guardia, poi, dentro di sé, mai e poi mai, avrebbe permesso a nessuno di inserirsi nel loro amore.


Quella sera si prepararono da sballo. Angela aveva una gonna al ginocchio, con tacchi non troppo lati: non voleva apparire più alta di lei. Flavia sfoggiò un classico del suo repertorio: giacca e cravatta da uomo, con in testa un Borsalino che, vista da dietro, poteva benissimo esser scambiata per maschio. Erano stupende e, quando entrarono nel locale, la padrona andò loro incontro.


«Siete meravigliose!»


Poi, da vicino, aggiunse a bassa voce.


«Saprei io cosa vi farei se solo potessi infilare la mia lingua in un certo posticino del vostro corpo!»


Risero soddisfatte. Passarono fra i tavoli tenendosi per mano, suscitarono il classico brusio, cui erano ormai abituate, ma un gruppetto di balordi le arringò pesantemente.


«Ci penserei io a farle tornare ad adorare il cazzo.»


Loro non se ne curarono, erano abituate a tutto, poi non davano alcuna importanza a quello che la gente pensava. Durante la cena, si scambiarono effusioni e bacetti, poi decisero di tornare.


La strada costeggiava per un tratto un bosco, era notte, faceva molto freddo. All’uscita da una curva, videro una vettura che sembrava uscita di strada: era notte, una persona era distesa in terra, subito uscirono dalla loro macchina e andarono a soccorrere il tipo. Fu il loro più grande errore. Improvvisamente Angela si sentì afferrare da due persone robuste, un tampone sulla bocca imbevuto di una sostanza che le fece subito perdere i sensi. Quando rinvenne, era seminuda, quasi congelata, sentiva un fortissimo dolore sia sotto che dietro: era stata stuprata!


«Flavia! Flavia, dove sei? Dove sei? Rispondi!»


La vide riversa poco distante da lei. Strisciò fino al suo corpo, non riusciva a reggersi in piedi.


«Flavia, amore, rispondi! No!... NO!»


Il suo grido squarciò il silenzio della notte, lei la stringeva a sé, ma la donna era morta; forse aveva reagito alla violenza ed aveva pagato con la vita la sua determinazione. Si trascinò fino alla strada. Una vettura con una coppia di fidanzati la soccorse e chiamarono aiuto. Fu di nuovo un incubo.


Il vuoto. La sua vita si era fermata, sconvolta, distrutta, sfinita. Trovarono subito i cinque balordi artefici di tanto dolore. Avevano rubato loro borse e cellulari, si erano divertiti a riprenderle durante la violenza. Furono puniti in maniera esemplare, ma a lei non importava molto. Flavia non c’era più e lei si sentiva sola, distrutta, stanca di vivere. Dopo un mese circa, fu convocata, assieme ad Ada, da un notaio. Flavia, per testamento, le aveva lasciato tutto, tranne una baita in montagna, che aveva regalato ad Ada, ma la cosa importante era una lettera per Angela.


Le diceva, in breve, che lei era stata tutta la sua vita, che lei l’aveva amata come nessun altro al mondo. Le aveva lasciato la sua attività, sperando che lei la facesse crescere quasi fosse una loro creatura, la esortava: "Falla diventare il monumento al nostro amore".


Angela si riprese e, da quel giorno, era presa dal solo lavoro: lei viveva per la lavanderia. Passarono due anni, fatti solo di lavoro, passeggiate al cimitero, per lei non c’era spazio per altro. Una sera, in prossimità delle feste natalizie, periodo che lei odiava di più, una sua segretaria le disse:


«Signorina, sono le venti ed è ora di chiudere.»


Lei le sorrise, si scusò ed uscì. Si mise alla guida per andare verso casa, ma era distratta dai suoi pensieri. Le mancava tantissimo Flavia, non si rese conto che, al bivio, non aveva svoltato a destra, ma aveva proseguito dritto e si ritrovò in aperta campagna. Era buio, stava soffiando il vento che portava fiocchi di neve, lei sbagliò una curva e la macchina scivolò su di una lastra di ghiaccio, fini in un fossato, al lato della strada, sbatte con forza la testa sul parabrezza: aveva anche dimenticato di allacciare la cintura di sicurezza.


Si risvegliò dopo un po', i fari della macchina si erano spenti, lei avvertiva un forte dolore alla fronte, le colava del sangue, era sola, nel freddo come quella maledetta sera, desiderò di morire. Dei fari squarciarono la notte, un grosso SUV passò e si fermò, tornò indietro e ne discese un uomo, venne verso lei.


«EHI, sta bene?»


Aprì lo sportello, lei gli svenne fra le braccia. Si risvegliò tre ore dopo in un letto d’ospedale; l’uomo era seduto vicino a lei. Ebbe un momento di paura, lei subito non riuscì a rendersi conto di dove si trovava. Lui era un tipo non troppo robusto, fisico normale, mani belle, dita lunghe affusolate, ben curate, i capelli rossi corti, aveva un viso dolce, non esprimeva la classica durezza del maschio, i suoi lineamenti erano dolci. Lui le parlava e lei girò lo sguardo verso di lui.


«Meno male che si è ripresa, credevo di averla soccorsa troppo tardi. Mi chiamo Andrea, sono nato in Germania, da padre tedesco e madre italiana che è ginecologa in questo ospedale.»


Angela lo ringraziò, era la prima volta che doveva qualcosa ad un uomo, al di fuori del lavoro. Sembrava un ragazzo dolce, lei non riusciva a sentir disagio con lui. Passarono due giorni, fu dimessa e lui si offrì di accompagnarla. Venne a trovarla anche sua madre e, quando entrò, le due donne si riconobbero. Lei era la dottoressa che l’aveva visitata dopo lo stupro, ma, professionalmente corretta, non ne fece parola davanti a lui. Lentamente Andrea s’inserì nella sua vita. Era dolce, premuroso, la faceva spesso sorridere, lo trovava simpatico, si rendeva conto che il giovane si stava affezionando sempre più: era diverso da tutti quelli che conosceva, sapeva intuire ogni suo desiderio e lo faceva con estrema dolcezza, cosa che spiazzava Angela sempre più. Una sera, lui l’aveva invitata a cena, era tutto perfetto, Angela aveva fatto un vero sforzo ad accettare l’invito. Lo aveva fatto per non ferire l’amico, ma era a disagio: si rendeva conto di esser al centro dell’attenzione del giovane. Appena seduti a tavola, lui le prese la mano, la guardò negli occhi:


«Angela credo di essermi innamorato di te.»


Lei ebbe una reazione eccessiva.


«NO! Questo no!»


Si alzò da tavola e se ne andò via. Passarono alcuni giorni, lei era dispiaciuta. Si rendeva conto dell’eccessiva reazione avuta, ma aveva paura: non voleva che qualcuno potesse innamorarsi di lei. Cercò Andrea, ma questi non rispondeva, poi decise di passare all’ospedale e vi trovò la madre.


«Andrea è una persona diversa, da quello che credi. Capisco la tua reazione, perché conosco la tua storia, ma lui no.»


Angela si rese conto di aver sbagliato: gli doveva almeno delle spiegazioni. La madre le suggerì benevolmente:


«Se vuoi spiegarti con lui, vieni questa sera a casa; lui torna dopo le venti.»


Angela si presentò a casa di Andrea, suonò alla porta, si vide aprire da una donna che assomigliava a lui.


«Cerco Andrea, è in casa?»


«Accomodati.»


Le rispose la donna. Angela era confusa, le sembrava la copia esatta dell’amico, non sapeva che lui avesse una sorella. Appena dentro, ripeté la richiesta di vedere Andrea.


«Sono io Andrea.»


Lei lo guardò senza capire, la donna si avvicinò.


«In Germania, Andrea è un nome che si può utilizzare sia al maschile che al femminile. Io lo uso perché  io sono sia donna che uomo: sono una trans.»


Angela rimase muta. Per un momento non riuscì a focalizzare la cosa: lei era lì vicino, le sue mani tenevano le sue, i loro occhi s’incrociarono in un lunghissimo sguardo. Ora capiva la dolcezza: era ovvio, la parte donna che era in lui sapeva benissimo come comportarsi con lei.


«Amavo una donna che si chiamava Flavia, era tutto per me. Una sera ci hanno violentate, stuprate, lei ha resistito ed un balordo le ha stretto le mani al collo fino ad ucciderla: comprendi la mia diffidenza?»


«In Germania, Andrea era una donna: mi sono innamorata due volte. La prima volta lui è fuggito, la seconda, quando ha visto la mia diversità, mi ha definito mostro. Sono venuta in Italia ed ho deciso di esser un maschio e, cosa vado a fare? M’innamoro di una donna che ama le donne: decisamente non ne imbrocco una.»


Angela sentì che di lui si poteva fidare, lo guardò dritto negli occhi e le sue labbra si avvicinarono alle sue, scambiando un timido bacio. Dentro di sé aveva un grandissimo conflitto; l’amore per Flavia era chiuso per sempre nel suo cuore, ma era ora di voltar pagina e lui/lei erano la perfetta soluzione: poteva amarla come donna, ma accettare di avere il maschio, senza doversi difendere. Andrea rimase un momento stupito e poi le sorrise.


«Portami con te» gli disse Angela.


Lei lo accompagnò in camera da letto. Si mise a spogliarla, le sue mani si muovevano delicatamente sul suo corpo. Angela sentiva il desiderio crescere e, quando furono nudi, lei si rese conto che lei aveva un bellissimo corpo, non le importava se aveva anche un pene: si distese a 69 e cominciò a baciarlo, leccare e, lentamente, la sua mano si strinse intorno a quel sesso, fino ad allora ripudiato. Lo portò alla bocca, leccandolo in maniera assolutamente inesperta, poi se lo spinse un po' in gola. Era dolce, lui non le imponeva nulla, le leccava la fighetta molto bene, lei ebbe un lunghissimo orgasmo.


Poi, con decisione, Angela si rigirò. Salì su di lui e, con tantissimo coraggio, appoggiò il glande all’apertura della sua fica; lo guardò negli occhi:


«Prendimi, fammi sentire come una donna riesca a farmi godere come presa da un maschio.»


Spinse dentro di sé quel fallo. Le scorreva lungo le pareti, sentì un piacere diverso, poi, una lunga scarica elettrica sconvolse il suo cervello. Lei aveva avuto il suo primo orgasmo.


«Vengo!»


Riuscì solo a dire questo. Si strinse a lui.


Un diverso amore stava nascendo dentro di lei.

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