«’Nchia chi bellu sticchiu!»


 Il motociclista corse via, rombando sul suo scooter.


 Il complimento, volgare e poco gradito, raggiunse le mie orecchie e poi svanì del tutto, disperdendosi nell’aria afosa del pomeriggio estivo.


 Camminavo lungo la via principale della città, cercando l’indirizzo che mi ero appuntata sul cellulare, con l’eco di quella proposta che ancora mi risuonava nella mente.


 ~~~


 TRE SETTIMANE PRIMA


 «Mi scusassi signurina, la notai l’altro giorno e, visto quantu è bìedda, volevo chiederle ‘na cosa. Pozzu offrirle ‘n cafè?»


 L’uomo si avvicinò mentre facevo colazione. Lo guardai con diffidenza ed esaminai la situazione. Mi trovavo all’aperto, seduta al tavolino di un bar, alla presenza di testimoni: che cosa avrei rischiato ad ascoltarlo?


 «Si accomodi, mi faccia finire la granita però, prima del caffè.»


 Lo invitai a sedersi; ne osservai movenze e dettagli fisici. Era un uomo leggermente in sovrappeso, sembrava aver varcato da poco la soglia dei quarant’anni. Calvo e perfettamente rasato, emanava un fortissimo odore di dopobarba e acqua di colonia. Mi disse di essere un fotografo; mi parlò del suo lavoro e, qualche chiacchiera dopo, scoprimmo perfino di essere lontanamente imparentati. Non me ne stupii: vivendo in una città di queste dimensioni, non è difficile estrarre dal cappello magico qualche parentela dimenticata. Una zia qui in Sicilia; un lontano cugino emigrato in Germania; qualche relazione nascosta e poi ufficializzata; e il gioco è fatto. Dopo aver sbrogliato l’intricata matassa delle ascendenze comuni, e terminata la granita, chiedemmo al barista di portarci due caffè.


 «Come le dicevo… ma le pozzu dari ro Tu? Quanti anni ha? Vinticincu, vintisei?»


 Magari!


 Gli dissi di averne trentuno.


 «Nina, tu sei ‘na bìedda carusa, molto attraente e con un bel fisico. Ti vuoi fare fotografare? Vestita o in costume da bagno, comu ti piaci a ttìa. Ti pozzu paiari pi’ essiri la mia modella, e ti puoi pure portare ‘n amicu pì cumpagnia, si nun ti fidi ri mìa.»


 Ci accordammo sull’eventuale compenso, gli dissi che avrei valutato l’offerta e lo salutai.


 *


 Non mi fidai. Accettai il suggerimento e domandai al mio amico se fosse disposto a farmi da bodyguard, durante la prima delle due sessioni fotografiche concordate. Ricevuto il suo benestare, recuperai il numero di telefono di Giacomo, il fotografo, e ci accordammo per incontrarci alla villa comunale. Scattammo delle foto davanti alla fontana, altre sotto gli alberi e le ultime di fronte al casale storico. Decidemmo di rivederci pochi giorni dopo, in riva al mare, e ci salutammo.


 Mi presentai da sola al secondo appuntamento. Avevo deciso di indossare un top nero attillato, modellato dalle curve formose del mio seno. La sezione cut out, quel ritaglio – non così discreto – pochi centimetri sotto i capezzoli, metteva sfacciatamente in mostra la parte inferiore delle tette, rendendomi il bersaglio di numerosi sguardi.


 Chi mi nni futti! pensai, che guardino pure!


 Sotto l’ombelico, dei pantaloncini di jeans “giro-chiappe”, molto corti e sfilacciati alle estremità, completavano il resto del mio abbigliamento.


 Mi feci scattare delle foto, poi decidemmo di prenderci un gelato. Babbiammo per un po’, passeggiando e ridacchiando a battute che non facevano ridere, ma che pian piano riuscirono a conquistarmi.


 «Se vuoi fare quarchi cosa n'anticchia cchiù seria, devi solo dirlo. Ti pozzu paiari centu euro pì farmi da modella.»


 L’idea di farmi scattare delle foto provocanti mi stuzzicava, ma non aggiunsi risposta al suo invito.


 Ricevetti il frutto del nostro lavoro pochi giorni dopo. Le foto in riva al mare furono perfino più belle di quelle scattate alla villa. Le osservai a lungo, soffermandomi su alcune in particolare e sentendomi orgogliosa della mia bellezza. Iniziai a rivalutare la proposta di Giacomo e riflettei per un po’ sulla possibilità di chiedergli un terzo book fotografico. Il versante esibizionista del mio carattere aveva iniziato a giocare al tiro alla fune con quello pudico. Quale, tra i due, avrebbe vinto? Senza dubbio, quello più timido.


 Come volevasi dimostrare, infatti, chiamai il fotografo senza esitazione.


 «Giacomo? Sì, Nina sono! Senti, ma per quelle foto un po’ più private e provocanti? Sì, conosco il posto, hai lo studio lì? Facciamo settimana prossima, che questa qui non posso? Ma quale mare e mare, mi stannu linchiennu ri travagghiu… troppo lavoro fa male, lo so, mi servono le ferie. Va bene, il prossimo sabato alle 15:00, ciao, ciao, ciao! Sì, sarò da sola anche stavolta. Ciao, ciao!»


 ~~~


 Erano passate tre settimane da quel primo caffè con Giacomo, ed eccomi lì, alla ricerca dello studio fotografico. Trovai il civico e suonai il campanello. Salii le scale; il fotografo mi stava aspettando davanti al portone. Vestiva una polo a strisce bianche e azzurre e dei pantaloncini color cachi; io avevo scelto di utilizzare lo stesso outfit indossato durante la seconda sessione fotografica. Mi fece accomodare nel suo studio e mi offrì un caffè. Mi ringraziò per la fiducia e l’opportunità e, qualche minuto dopo, m’invitò a sedermi sullo sgabello – o sul divanetto - di fronte ai riflettori.


 «Ho portato degli accessori. Devo indossarne qualcuno?» gli domandai, goffa e indecisa.


 Estrassi da una borsa di iuta due foulard, dei guanti di pelle, gli occhiali da sole, una pochette e gli scaldamuscoli (c’erano almeno trentacinque gradi, perché mai avevo portato anche gli scaldamuscoli?), disponendoli poi alla rinfusa sul tavolo.


 Il fotografo selezionò gli occhiali da sole; decise di tenere come riserva foulard, guanti di pelle e pochette e scartò, con una risata, l’indumento invernale.


 «Vestita o in costume? Togliti pure chiddu chi vvoi.»


 Riflettei per un attimo e decisi di rimuovere solamente i sandali, rimanendo scalza. Raggiunsi lo sgabello lentamente, per dargli la possibilità di guardarmi il culo, e mi sedetti, attendendo istruzioni.


 I primi scatti non furono per niente sensuali; iniziai presto a stufarmi.


 «Non dovevamo fare qualcosa di serio?»


 Giacomo si concentrò, quasi mi parve di sentire il rumore degli ingranaggi nel suo cervello.


 «Mettiti accussì, talè!»


 Si avvicinò e mi spiegò quale posa dovessi assumere; non perse occasione per toccarmi la schiena, il fianco, il polpaccio. Mi fece chinare e mettere a quattro zampe, il sedere verso l’obiettivo e i piedi bene in vista. Uno sguardo ammiccante alla fotocamera, e click!


 «Se vendo ‘sta foto, ci pigghiu almeno cinquanta euro» commentai, strappandogli una risata. «Adesso?»


 Altro giro, altra posa: sdraiata sulla schiena e gambe all’insù, come se stessi pedalando.


 Il dito pigiò e la macchina immortalò la mia sensualità inibita.


 «Vorrei provare ‘na cosa…»


 Presi tempo per capire se volessi farlo veramente; andai nella stanza accanto e bevvi un po’ d’acqua. Tornai sul set, decisa, alzai le braccia e rimossi il top. Le mie tette, non più compresse dal tessuto attillato, sobbalzarono leggermente quando riacquistarono la libertà.


 Giacomo deglutì, alluccutu, e continuò a fissarmi il seno per qualche secondo. Balbettò, probabilmente mi fece qualche complimento o mi suggerì la posa successiva; non lo ascoltai.


 Bagnai appena le dita e iniziai a stimolarmi i capezzoli. Li toccai dolcemente, li accarezzai, giocai con loro; i due obbedirono ai miei ordini e in breve si portarono sull’attenti, procurandomi un bellissimo effetto collaterale: un brivido di piacere, sbocciato dalla mia passera e amplificatosi lungo tutto il mio corpo. Risvegliai il fotografo dallo stato di estasi e stupore in cui si era esiliato, gli dissi di procedere e mi misi nuovamente in posa.


 In piedi, comprimendo le tette con le mani ma mostrando i capezzoli tra indice e medio: click.


 Spalle al muro e di profilo, dita tra i capelli e sguardo sensuale: click.


 Una mano sul seno destro e l’altra sulla fica, imitando la Venere di Botticelli: click.


 La mia libidine aumentava a ogni scatto. Ogni nuova posa mi faceva sentire smaniosa di andare oltre, di scavalcare il mio limite, di spingermi all’estremo. Continuammo per un po’, poi decidemmo di prenderci cinque minuti di pausa.


 Giacomo andò in bagno ed io ne approfittai per togliere i pantaloncini. Ritornò a pettu nuru, mostrandomi, quasi con orgoglio, il torace pingue, pallido e glabro.


 «Fa troppu caviru!»


 «Ma se hai il condizionatore acceso?» sorrisi leziosa, pigghiannulu po’ u culu.


 «Amunì, ricominciamo!»


 Continuò a scattarmi qualche altra foto, suggerendomi posizioni sempre più afrodisiache. Il mio alter ego esibizionista assunse prepotentemente il comando e iniziò a sfogarsi. Mi mostrai voluttuosa, ammiccante, sfrontata. Vidi il tessuto dei suoi pantaloncini gonfiarsi all’altezza del pube e una piccola lampadina si accese in un angolo della mia mente, una scintilla che avrebbe incendiato l’enorme quantità di cupidigia in cui avevo messo il mio cervello a marinare.


 «Vuoi levarti i pantaloncini?», voltai il capo e feci un cenno in direzione della sua minchia.


 Non se lo fece ripetere due volte e si spicciò a toglierli, temendo che potessi cambiare idea improvvisamente. L’istante successivo, io mi liberai della stoffa residua e rimasi totalmente nuda.


 Mi distesi supina, il seno fieramente in mostra e la mano adagiata sul Monte di Venere, con l’indice libero di stuzzicare la carne. Lo invitai a ricominciare, lui scattò la foto e si accarezzò l’interno coscia, rendendo sempre più arrogante la sua erezione.


 Seguii l’istinto e mi sdraiai bocconi, avendo cura di tenere le gambe, ripiegate all’indietro, ben aperte: Giacomo cliccò e si massaggiò il turgore; gli slip erano ormai incapaci di nascondere la fitta peluria nera.


 Mi suggerì di coricarmi nuovamente sulla schiena. Si avvicinò e mi afferrò il polso.


 Guidò la mia mano lungo il mio corpo, le fece accarezzare labbra, collo e seno. La mise sopra l’ombelico per un paio di secondi; insoddisfatto, la spostò sulla mia passera e mi propose di allargare le gambe.


 «Fai finta ri essiri do' ginecologo!»


Decisi di provocarlo. Mi aiutai con le mani, spinsi sul pavimento e protesi il bacino verso di lui, quasi volessi avvicinarglielo al viso. Mi mossi deliberatamente a rilento, tormentandolo. Trovata la giusta posizione, mi rilassai, divaricai le cosce, agitai il collo per scostare alcune ciocche di capelli dal viso – conscia dell’effetto che avrei generato - e gli mostrai per bene la vulva, prima di proteggerla nuovamente. Le dita lottarono contro la tentazione di addentrarsi in profondità, ritardando il momento del piacere.


Una decina di secondi dopo, Giacomo aggiunse un’altra foto alla memory card, poi non resistette più e si spogliò.


 Fine prima parte.


 


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