Nei giorni che restai via, si consolidò in me la voglia di coinvolgere Sara nella mia antica ossessione, la quale m’era parsa a lungo estinta e che invece, proprio grazie a lei, alla scoperta del suo cornino, aveva improvvisamente ripreso vigore. 


Dovevo studiare la maniera. Prima dell’episodio col suo ex, per me una rivelazione, l’avrei giudicata inadatta. Malgrado il turbolento passato sentimentale che ella stessa mi aveva confessato, adesso amava mostrarsi non solo signora attempata, quale era per età del resto, ma devota e soccorritrice dei poveri, assidua alle pie pratiche. 


Le amiche dicevano che con l’età era diventata tutta casa e chiesa. Taluna che la conosceva meglio soggiungeva la specifica: tutta letto e chiesa.


Lo stesso episodio con l’ex, in effetti, poteva spiegarsi come un gesto di sopraffazione. Lei mi aveva ben rappresentato come il tipo avesse una personalità soggiogante e prevaricatrice, e di come ella si fosse sentita schiavizzata da lui nel tempo che erano stati insieme. Facile che quello facesse tuttora leva su un tale groviglio di sentimenti per tenerla ancora in suo pugno, come pure su qualche possibile oscuro ricatto.   


Tuttavia, con tutte le specifiche del caso, assodato che ella non era nei fatti tutta genuina e sincera come volentieri lasciava intendere, appuratala pronta comunque all’inganno, pensavo che sarebbe stato più facile condurla su quella via.


Scartai immediatamente l’eventualità di rinfacciarle il suo tradimento. A parte il doverle rivendere una plausibile spiegazione riguardo il mio rimanere in silenzio e nascosto, senza manifestarmi e dare in escandescenze come, dal suo punto di vista, sarebbe stato ovvio, immaginai che ella si sarebbe arroccata in giustificazioni futili, strategicamente sfavorevoli al mio disegno.


Andai, invece, convincendomi che avrei dovuto cominciare a parlarle in maniera più sincera di mia moglie. Era il caso di smantellare il fittizio altarino sul quale solitamente con scrupolo collocavo la defunta quelle sporadiche volte che si arrivava a dirne, bensì di raccontare senza veli il tipo di ménage che avevamo coltivato. Di tal guisa ella avrebbe dovuto anche riconsiderare me da un punto di vista meno banale e conformistico.


Così mi regolai e la constatai ricettiva, sufficientemente pronta a superare l’iniziale sbalordimento per le mie rivelazioni.


Per giorni restai sul pezzo, non mollai la presa, tornando sovente sull’argomento.


Notai il suo interesse crescere. Le narrai come, dopo il fatidico settimo anno e le due gravidanze, io e mia moglie nei nostri momenti di sesso cominciammo a condividere le rispettive fantasie erotiche, assodando che la sua più forte era quella di essere usata e abusata da una banda di maschi, tanti insieme e meglio se di colore, mentre la mia preponderante era di spiarla proprio in quel genere di situazioni estreme di violenza e sopraffazione. Concludemmo che nulla ci vietava di provare a realizzarle quelle fantasie, in qualche modo.


Raccontai di come io e mia moglie, per cominciare, un'estate prendemmo a frequentare, in macchina, il più gettonato posto di raduno per coppie scambiste. Di come, dopo il primo batticuore, ci prendemmo la mano. 


La giostra iniziava il venerdì sera, mollata la prole a mia suocera. Durava, con gran dispendio di preservativi e profluvio di vasellina, fino all’alba di sabato. Il luogo si trovava poco fuori il GRA ed era frequentato, oltre che da coppie come noi, anche da camionisti, in genere dell’est, anche turchi e siriani. Era la situazione da me preferita quando, io nel buio dell’abitacolo e infossato dietro il volante, lei con lo sportello aperto e a gambe larghe quasi penzoloni fuori, la vedevo presa di mira da uno o più di quei soggetti. Morivo di lussuria nel vederla sospinta, in minigonna di jeans blusetta e infradito, verso la cabina di uno dei mezzi, ascenderci serrando la borsetta con il necessaire, incespicando sui predellini ma sorretta da solerti mani sotto il culo e le cosce. Impazzivo di piacere tutto il tempo immaginandola dietro le tendine tirate e i vetri serrati, nuda tra le mani di quelli che biascicavano volgarità nelle loro lingue incomprensibili. Me la figuravo agitarsi e smaniare tra i cazzi che le smantellavano le viscere, le urla coperte dal motore del mezzo in funzione per l’aria condizionata.


Sempre tornava a me sfatta ma appagata. 


All’alba di sabato, in genere, prendevamo la strada di casa. Ci buttavamo a letto e, talvolta, ci svegliavamo ch’era già pomeriggio. Ci rifocillavamo con uno spuntino e poi di nuovo a letto. Io la spronavo a raccontarmi e poi la scopavo, anche due, tre volte, eccitatissimo.


Poi, ormai sera, facevamo la doccia insieme, cenavamo. Cambiavamo le lenzuola e ci coricavamo di nuovo. Tanto per gradire gettavamo nel videoregistratore un VHS porno e concludevamo la serata con un saporoso pompino. 


La domenica si rientrava nei ranghi. Andavamo a pranzo da sua madre per riprenderci i ragazzi. Ci ridisponevamo alla settimana lavorativa, in attesa del venerdì successivo.


Quando terminai questo racconto tanto esplicito capii che Sara era ormai cotta a puntino.


Mi domandò dove stava quel posto, se ci stava ancora.


“Non so” risposi io “ma del resto i tempi sono cambiati. Oggi, con internet, coi social, ci sono altri canali per quel genere di abboccamenti”.


Infine, la domanda cruciale, quella che volevo udire da lei.


“Ti piacerebbe se anche io facessi quelle cose?”.


“Si, molto. Non immagini quanto”.


Ormai il gioco era a carte scoperte. Tuttavia giudicai che non era il caso di strafare e attesi che fosse lei a dichiararsi.


Non dovetti attendere molto. Il giorno dopo, entrambi svegli dopo il pisolino pomeridiano, lei aveva acceso il televisore e aveva cominciato a fare zapping da un canale all’altro nel tentativo di eludere le carovane di inserti pubblicitari.


Mi girai verso di lei e accennai una coccola.


“Senti” cominciò, stabilizzandosi sulla replica di un programma della De Filippi, reiterata l’ennesima volta in attesa della nuova stagione, ma quasi azzerando il volume. “Senti… Riguardo quella cosa… Ma tu vorresti che io mi esponessi come faceva tua moglie? … Con tutti quegli uomini? … Io, veramente, non penso di potercela fare… Ho la mia età… Non sono una santa, ma fare la puttana in quel modo, con sconosciuti, non penso di esserne capace… Ma mi piacerebbe accontentarti…”


“Va bene… Allora cosa pensi che potresti fare?” domandai, per un attimo immaginando che ella paradossalmente proponesse un abboccamento proprio con l’ex. 


Invece no.


“Sai… Ci sono i poveracci di Colle Oppio. Ti ho raccontato che spesso ci vado con cibo, vestiti, coperte… Ti ho anche raccontato che in passato qualche volta ne ho fatti salire a casa per una doccia e un pasto più degno…”.


“Si, me l’hai detto, effettivamente…”.


“Ecco… Quello che non ti ho detto è che a un certo punto ho smesso, di farli salire a casa, intendo, perché prima uno poi un altro hanno cominciato a chiedermi di fare l’amore. Mi facevano pena, ma non sentivo di accettare… Mi facevano tanta pena e già sapevo di altre dame di carità che d’abitudine acconsentono volentieri, senza problemi…”


“Allora?”.


“Allora, pensavo che potrei ricominciare a farli venire qui da me e, se me lo chiedono, finire con l’accettare… In fondo, anche quando mi rifiutavo, ti confesso sentivo che l’idea in fondo mi convinceva… Mi rimproveravo dicendomi che era solo per conformismo morale che continuavo a deludere quei poveretti i quali, in quanto maschi, naturalmente desideravano soddisfare anche le necessità sessuali, come ogni uomo maschio…”.


“Magnifico!” esclamai, sinceramente ammirato.


“Però tu dovresti stare in casa nascosto… Per ogni evenienza…”.


“Ma sicuro che resterò in casa nascosto… Me lo chiedi? …”.


Così già l’indomani mi avvertì che la mattina successiva avrebbe rintracciato e invitato a casa uno di quelli che in passato le avevano fatto quella proposta.


“Tanto stanno sempre lì. Difficile che non ne ritrovo qualcuno”.


“Ok” dissi. “Allora facciamo che io mi metto nello stanzino in fondo, la “stanza degli orrori” come la chiami, e resto lì a sentire, a spiare, finché quello se ne va”.


“Sarà il caso che ti porti da mangiare e da bere, perché quello dovrò farlo pranzare con me, come d’abitudine”.


“Va bene”.


Così, la mattina successiva lei uscì verso le undici, che era l’ora, mi spiegò, che i barboni del circondario cominciavano a intrupparsi davanti la mensa dei poveri. Casa di Sara è alla Polveriera, pochi centinaia di metri per arrivare là.


Lei via, io mi organizzai nella stanza. Mi posizionai come mi ero trovato a fare quando scoprii Sara con l’ex.


Non dovetti attendere tanto. Non era neanche mezzogiorno quando la sentii tornare in vociante compagnia. Capii che erano più d’uno. 


La “stanza degli orrori” si trova proprio in fondo al corridoio di casa sua, ma prima del bagno.


Erano due e ci fu subito il loro andirivieni alla doccia, tallonati dalle indicazioni di lei, che aveva già approntato in soggiorno fin dalla mattina sul divano tutta una collezione di abiti smessi. Dopo il matrimonio finito male Sara aveva avuto tanti amanti. Traccia di essi rimanevano abiti maschili di taglie diverse, finanche biancheria, che lei non aveva gettato e che erano poi diventati oggetto di ripescaggio proprio a fini benefici. 


Il traffico durò a lungo, con i due che dovevano anche spuntarsi capelli e barbacce. Sara ogni tanto li veniva a controllare, lanciando loro voce dalla porta del bagno socchiusa, interrompendo in cucina dal preparare il pranzo, che aveva comunque pure quello già impostato prima di uscire, come già aveva apparecchiato il tavolo in sala con le stoviglie e le posate migliori, come tenne a sottolinearmi.


Intanto che terminavano la tolettatura, ella allungò loro, ancora dalla porta del bagno, della biancheria pulita.


“Quella sporca lasciatela sul pavimento, come pure i vestiti. Vi lavo tutto e vi riporto tutto nei prossimi giorni”.


Quelli la raggiunsero in canotta e boxer. 


“Di là in soggiorno ci stanno vestiti puliti, cercate quelli che vi stanno, ma adesso se volete rimanete pure così. Non mi scandalizzo” concluse ridendo. “Comunque cominciate a scegliere quello che vi sta meglio, intanto che finisco e che sistemo il bagno. Ah! E mettetevi qualcosa ai piedi. Vicino al divano ci sta una scatola piena di scarpe quasi nuove e anche di infradito. Fate voi”. 


Ripeté loro di avere pazienza intanto che rassettava in bagno. A questo punto io azzardai a socchiudere la porta della stanza e a lanciarle un cenno mentre era indaffarata colà.


“Tutto bene?” mimai con le labbra. Lei mi sorrise e fece cenno di sì. Notai che si era cambiata per casa e che aveva messo su una leggera e corta e lasca camicia da notte e, a giudicare dai capezzoli prominenti, aveva anche indossato un reggiseno di quelli suoi di pregio, assai sexy ma meno robusti e inadatti a sorreggerle la sua quarta tendente alla quinta. Ai piedi aveva zoccoletti di legno col tacco poco sollevato, quelli che talvolta usava per la spiaggia, questo già l’avevo capito dal rumore che il suo incedere per casa aveva cominciato a produrre da un certo momento.


Finalmente a tavola li sentii banchettare, ciarlando, complimentandosi con la padrona di casa per tutto quanto. Capii che si chiamavano uno Camillo, l’altro Teodoro. Dopo il secondo bicchierino di liquore, le diedero finalmente retta e traslocarono sul divano mentre lei sparecchiava e avviava la lavastoviglie, non senza avere prima ottemperato alla sua direttiva di tornare in bagno a lavarsi i denti, per la quale operazione puntigliosa passò loro due spazzolini nuovi già acquistati a quello scopo.


“Potete portarveli, poi. Li ho comprati apposta per voi. Lì c’è il dentifricio, e lì c’è il collutorio. Fate le cose per bene”.


Tornò in cucina, dove loro poi la raggiunsero, ma li rispedì subito in soggiorno. 


Dalla porta socchiusa la vidi finalmente ricomparire e apostrofarli. Loro non li vedevo, ma li potevo immaginare spiaggiati sul divano. 


“Riposatevi. Rimanete pure quanto volete. Io mi vado a coricare” disse, sorridendo vezzosa.


“Signora Sara, perché non te ne resti un po’ con noi?” disse uno.


“Ma… Veramente io ho le mie cose in televisione… In camera mia ho la televisione…” disse lei, ostentando esitazione. “Facciamo così, venite pure voi di là. Stiamo un po’ stretti, ma non fa niente. Così vi godete anche l’aria condizionata”.


Dalla fessura la vidi precederli in camera da letto e notai il più giovane dei due, che avevo capito essere quello che si chiamava Camillo, toccarle il sedere mentre lei col telecomando avviava il condizionatore. Sara rise e si voltò, divertita.


“Tanto avete mangiato, vi siete intrippati come porci” disse. “Quella cosa che c’avete in mente a pancia piena non viene bene” proseguì. In effetti, dopo un po’ di ciarla, prese tono e volume il concerto del loro russare. Dallo specchio li osservai, loro spaparanzati ai lati del letto, Sara al centro. Pure lei adesso si era appisolata. Il televisore recitava, non udito da alcuno, le sue banalità. Io ne approfittai per far fuori il mio pranzo frugale. 


Dopo circa un’ora, o forse più, mi raggiunsero segnali di risveglio. Corsi di nuovo a spiare nello specchio del vestibolo strategicamente piazzato. Sara si alzò e discese dai piedi del letto. Corse in cucina a piedi nudi per non disturbare i dormienti con lo zoccolare. La sentii armeggiare con la lavastoviglie, che doveva aver terminato. Tornò reggendo due bicchieri d’acqua e li depose ciascuno su un comodino.


Nel frattempo anche loro si erano pian piano destati e attesero che lei risalisse sul letto e si riposizionasse tra loro. 


Ancora il più giovane, Camillo, un moro col volto butterato, senza attendere molto, allungò la mano e prese a carezzarle una coscia, subito imitato dal compare all’altro lato. 


Mi concentrai sullo specchio e notai lei reagire con un sorriso malizioso. “No!” esclamò, e nel contempo afferrò il telecomando e alzò leggermente il volume del televisore.


“Questo non si fa” soggiunse, ma spalancò di più le gambe.


“Signora Sara, per piacere, facce pure sta carità. Io so du mesi che nun scopo” disse Camillo che, a questo punto più audace, arrivò ad abbassarle le mutandine e a toccarle la passera.


“Si…” lei rantolò e abbandonò il capo sul cuscino, socchiusi gli occhi.


Immediatamente, ansioso e frenetico, Camillo si sollevò ginocchioni, aprì il boxer e tirò fuori il cazzo, di tutto rispetto e già ritto.


“Bello… Com’è grande…” mormorò Sara. Sollevato ora il capo e, reggendosi su un gomito, una mano tese per saggiarlo. “Vieni, fammelo baciare” mormorò.


Lui arrancò su di lei e andò a posizionarsi sulle poppe. Sara gli abbassò le mutande e cominciò a dilettarsi con la bocca. Purtroppo, così posizionati, io dallo specchio vedevo solo le chiappe nude di lui, impedito a godere appieno della vista di Sara che lavorava di lingua e labbra.


Dopo averlo gustato alquanto, mentre lui con una mano si reggeva alla testiera del letto e con l’altra le scompigliava i capelli, lei un momento si ritrasse e ne cercò lo sguardo da sotto.


“Ma ti piaccio così tanto? Io sono vecchia. Brutta sono” mormorò.


“Macché! Che dici. Signora Sara, tu sei una bella signora arrapante” replico lui.


Lei gli sorrise grata.


“Grazie, ma non chiamatemi Signora Sara. Io sono Sara, la vostra Sara”.


“Tu sei Santa Sara” bofonchiò Teodoro, l’altro accanto a lei, con voce roca e quella indefinibile inflessione nella voce, probabilmente slava. Stava supino e si godeva la scena. Aveva a sua volta aperto i boxer e si menava il cazzo con una mano.


Sara sorrise anche a lui e gli porse la guancia, ma quello si posizionò meglio e con la mano libera le afferrò il volto e ne cercò la bocca. Ci stampò sopra la sua, per niente schifato che fino a un attimo prima ci aveva sguazzato dentro il cazzo del compare. Il quale adesso fu afferrato dalla voglia urgente di farla finita. Arretrò scompostamente e con una mano armeggiò per strapparle via le mutandine, ma Sara protestò.


“Aspetta, faccio io” disse e lo spinse indietro, sollevate le ginocchia e puntandogli entrambi i piedi sullo stomaco. “Queste so’ mutandine che costano. Le ho messe apposta per voi, ma non voglio rovinarle”.


Erano di raso, color prugna. Lei con destrezza le sfilò e le lanciò lontano. Solo allora Camillo potette disporsi a fare il proprio comodo. La puntò e spinse per penetrarla, ma lei ebbe un sussulto.


“Oddio! Aspetta aspetta aspetta! Ah! È troppo grosso. Mi fa male. Aspetta”.


Con entrambe le mani lo costrinse a bloccarsi e recedere. Si rivolse a Teodoro e gli disse di aprire il cassetto del comodino. Quello ubbidì e rintracciò, secondo le sue indicazioni, il flaconcino col gel. Se lo fece passare e ne lascio calare un filo sulle dita di una mano. Mentre con quelle ungeva la passera, il flaconcino lo restituì per farlo riporre.


“Ma non chiudere il cassetto, casomai serve ancora”.


Lui ubbidì coscienziosamente, quindi riprese a osservarli con il cazzo in mano. Barbuto come il compare, sembrava assai più vecchio, ingrigito. Forse era, semplicemente, sulla strada ed esposto alle intemperie e alla malasorte da più tempo.


Sara tornò con lo sguardo a Camillo che la sovrastava e gli fece cenno di riprovarci.


“Scusa. Un po’ di secchezza” mormorò mentre lui si riposizionava.


Adesso gli guidò lei il cazzo con le mani.


“Si. Vieni. Spingi. AH! SIIII! Si! Tutto dentro. Si! Amore! Si! Che bello”.


Lui prese a muoversi con foga, deciso. La dominava dall’alto con i pugni puntati sul letto. 


“Ti piace? Ti piace? Ti piace?” bofonchiava con voce strozzata dal desiderio.


“Si! Si! Oddio si!”.


Sara aprì ancor più le gambe per accoglierlo meglio. Gli artigliò i glutei, affondando le unghie nelle carni. Poi lui le crollò sopra, a sua volta serrandole il sedere sotto con entrambe le mani e affondando il capoccione tra il cuscino e i capelli di lei ormai in disordine.


“Amore, si! Sborra dentro! Si! Sborra! Sborra! AH! Godo! Si! AH!”.


Camillo si irrigidì ed esplose, con un prolungato grugnito. Vidi il suo culo sussultare mentre svuotava le palle e poi, passata l’esplosione iniziale, accompagnare lento le ultime gocce.


Esausto, si lasciò cadere di lato a lei, ancora con il cazzo svettante e umido.


Anche Sara riprendeva fiato, assorta e appagata. 


Teodoro, intanto, si mise su un fianco e cominciò a carezzarla, a palpeggiarle il ventre, a cercare le tette sotto la camicia da notte. 


Lei si riscosse, si passò una mano sotto il sedere.


“Abbiamo bagnato tutto qui” constatò. “Vabbè, non fa niente”.


“Aspetta, devo fare pipì” disse poi, rivolta a Teodoro che, evidentemente, reclamava la sua parte.


Di nuovo si calò dal fondo del letto e rise osservando da lì i suoi due amanti, uno ancora torpido, l’altro ringalluzzito e in attesa. Sfilò dall’alto la camicia da notte e tolse anche il reggiseno che, come avevo immaginato, era di raso, come le mutandine, con le quali li radunò. Si espose così, tutta nuda allo sguardo di Teodoro, che aveva ripreso a menarsi il cazzo, lentamente. Si girò un paio di volte su sé stessa per farsi ammirare meglio, quindi corse verso il bagno. Ascoltai la sua fontanella e mi disposi ad attenderla dietro la porta socchiusa. Mentre tornava ci lanciammo uno sguardo e un sorriso.


Arrivata sulla soglia della camera da letto, la vidi arrestarsi e sullo stipite mimare Kim Basinger in nove settimane e mezzo, sollevata una gamba e slanciandola oltre, e accennando “TA-TA-TAAA-TATA-TATATA-TA You Can Leave Your Hat On” alla canzone. Poi, vezzosa e ridente, corse verso il letto e si posiziono carponi tra le gambe di Teodoro, rimasto in attesa. 


“Togli la mano. Ci sono io. C’è la mia bocca calda” mormorò suadente e prese a lavorare da esperta bocchinara quale è.


Intanto, anche Camillo aveva ripreso vita. Si sollevò e bevve dal bicchiere che lei gli aveva posato accanto. Disceso dal letto, sfilò del tutto i boxer. Si avvicinò al culo di lei e ci assestò diverse sonore pacche.


“Vacca!” esclamò, inducendola al riso e a distogliersi un attimo dal lavoro per fissarlo di sulla spalla.


“Troia, vado a pisciare” aggiunse e si avviò veloce. 


Io feci appena in tempo a serrare la porta, sobbalzando. Attesi che tornasse di là per riaprire lo spiraglio.


Lo vidi girare intorno al letto e a Sara che ancora lavorava di bocca e, menandosi il cazzo di nuovo ritto, cercò di distrarla a suo favore afferrandole il capo con una mano. Ci riuscì e lei per un po’ gagnolò alternandosi tra i due. Poi Camillo si mosse di nuovo e andò a piazzarsi ai piedi del letto. La prese di mira e le sprofondò dentro, strappandole una lieta esclamazione di piacere che la indusse a sollevare il capo dall’altro cazzone, ormai pure esso turgido e teso. 


Ma poi mosse il culo come per sottrarsi.


“Aspetta il tuo turno” disse ingiuntiva, rivolta al prepotente che le teneva le chiappone nella morsa delle mani. Poi, all’altro che le stava sotto “ti monto sopra” disse. 


Così fece. Avanzò ginocchioni e si lasciò impalare.


“Ah! Com’è duro. Si!” esclamò e prese a muoversi. Teodoro di sotto la fissava quasi incredulo, con le dita conficcate nelle tette come volesse strapparle via.


L’altro, però, non demorse. Montò a sua volta sul letto e andò a piazzarsi per bene. La forzò, con le mani sulla schiena, ad abbassare il busto per esporla meglio a suo favore. Con il cazzo le percosse il culo in fermento e poi, senza avvertirla, spinse per entrare pure lui. 


“No! No! Che fai? No!” lei protestò, vivacemente, ma quello insistette e di forza si fece strada. “Ah! oddio! Ah! Che fai? Che fai?”. 


Dalla mia postazione, oltretutto con lo specchio per tramite, non capii bene subito. Pensai che quello glielo avesse di forza infilato nel buco culo, poi compresi che era entrato pure lui in figa.


Comunque Sara, dopo la prima reazione, si calmò e prese a lamentarsi sommessamente, ed erano lamenti di piacere.


“Ah! Animali! Ah! Così me la spampanate. Ah! Si! Che piacere. Si! Muovetevi, si! Sono la vostra puttana! Sono la vostra puttana! Ah! Che bello! Che piacere”.


Mentre la sbatteva con foga, Camillo le afferrò la faccia con una mano e la forzò a girarla verso lui.


“Ti piace Sa’? Ti piace?”.


“SI! SI!”


Continuarono ancora strenuamente a sbatterla, con crescente violenza specialmente Camillo che la sovrastava, a tratti scompostamente, lanciandosi l’un l’altro sguardi carichi di sarcastico disprezzo per la troia, che cominciarono ad apostrofare con epiteti volgari e triviali, dismesso ormai ogni formale rispetto e riguardo per la loro benefattrice. Per loro Sara adesso era soltanto una puttana, un pezzo di carne da godere.


Lei, del resto, si capiva che a sua volta esultava enormemente ad essere trattata così, come la peggio mignotta. Incassava ogni colpo estasiata.


“Si! Si! Si!” esclamava ad ogni affondo, e attese le sborrate con un’espressione di piacere sbalordito in volto. 


Svuotati, la liberarono.


Giacquero esausti, buttati e stretti sul letto, madidi di sudore. 


Prima riemerse lei. Discese dal letto e lanciò uno sguardo compiaciuto verso i suoi due amanti, ancora torpidi, entrambi con i cazzi ora dimissionati e adagiati sulle palle. Sorrise e la vidi venire nel corridoio. In silenzio le feci cenno dalla porta socchiusa. Ci sorridemmo. Poi la udii sotto la doccia in bagno.


Quando tornò i due stavano ancora stravaccati, con la televisione rimasta accesa che si raccontava le solite fesserie.


“Ehilà, ragazzi, sveglia” li sollecitò, con indosso soltanto un asciugamano tra spalla e collo. “Sveglia”.


I due, finalmente, accennarono a tornare in vita.


“Se volete darvi una rinfrescata il bagno è libero. Comunque è ora che andate. Fra un po’ viene mio marito”.


Gaglioffa, pensai. Sara ha in realtà l’abitudine di presentarmi come suo marito in certe occasioni formali in cui non si sente di dire compagno, o amico, o fidanzato, men che meno amante. Adesso, con quei soggetti, non sarebbe stato necessario, ma lei volle dire “marito” forse pensando che così quelli si sarebbero affrettati ad alzare le vele. In effetti si rimisero in piedi e principiarono a ricomporsi. 


“Su, andate a sistemarvi. Io vi aspetto in cucina. Vi preparo le buste con la roba da portare via. Il vino ve lo siete scolato tutto a pranzo. Mi sono rimaste le birre”. 


Loro in bagno, Sara recupero slip e reggiseno e camicia da notte. Si rivestì. La sentii zoccolare verso la cucina, la sentii trafficare e la scorsi poi deporre accanto alla porta d’ingresso quattro buste gonfie, immaginai, non solo di cibarie.


La raggiunsero. Si rivestirono pure essi con le cose che avevano già scelto in soggiorno. Li rividi tutti e tre nell’ingresso accanto alle buste. Porse loro anche dei soldi.


“Mi raccomando, non bevetevi tutto”.


“Grazie Sara, grazie” dissero in coro e afferrarono le buste. 


“Grazie a voi” disse lei. Li baciò entrambi sulle labbra. “Mi raccomando, non venite mai di vostra iniziativa. Passo io. Magari dopodomani già vi porto la vostra roba lavata e asciugata”.


Aprì la porta e cedette loro il passo rimanendo dietro l’anta.


“Ciao. Ciao. Ci vediamo. Mi raccomando”.


Richiuse, lasciandoli sul pianerottolo in attesa dell’ascensore.


   


   


    


 


 


 


 


 


 


 


 


 


 



 



 
 


 


 

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