In quel periodo facevamo sesso con frequenza esasperata. Durò qualche mese. Fu come se mia madre si fosse messa d’impegno affinché io non mi sfiancassi di seghe. Ogni occasione era buona, ogni momento opportuno, ogni angolo di casa eccitante. Poi cominciò ad accennare alla necessità che io seriamente prendessi a relazionarmi con qualche ragazza mia coetanea o quasi, e lei stessa me ne indicava nella cerchia delle figlie o delle nipoti delle sue amiche. “Guardati in giro” diceva. “I tuoi compagni, ce l’avrà qualcuno una sorella” soggiungeva. “Solo devi stare attento a non metterla incinta, che sono guai. Ma tu lo sai come si fa” e rideva. Si, sapevo come fare. Perché quella era l’ultima frangia di tabù che conservava. Tutte le volte cercava di evitare che le sborrassi nella figa, ma non sempre ci riusciva. Peraltro il suo disincanto era totale e coinvolgeva, mi faceva rimuovere alcun insorgente scrupolo morale, metteva all’angolo il pensiero che facevamo una cosa che il resto del branco da sempre bolla di abiezione.


Ma io non mi sentivo granché attratto dalle ragazzine maldestre. Mi eccitavano le donne mature, navigate, meglio se mignotte come lei. Per questo avevo fatto sesso qualche volta con mia zia di Porto D’Anzio, e più volte con qualche comare passata senza preavviso lei assente, perché magari impegnata a puttaneggiare altrove. Il massimo dell’eccitazione mi prendeva quando quella mi scopava e intanto mi parlava di lei.


La cosa, comunque, si ricompose da sola. Continuavamo a fare sesso, ma senza parossismi, senza quell’esaltazione che ci aveva tenuto, con minore assiduità.     


Intanto a scuola avevo perso un anno e dovetti ripetere la seconda media. Sarei arrivato a sostenere gli esami di terza che avevo sedici anni compiuti e lasciai che per le superiori lei mi iscrivesse a un istituto tecnico. La cosa non mi entusiasmava, ma capii che ci teneva particolarmente.


“Così alla fine ti trovi con un diploma utile per iniziare già a lavorare” diceva, ma c’era anche un’altra ragione. La scuola alla quale intendeva iscrivermi aveva una succursale in Piazza Dell’Esedra, e lei da qualche mese lavorava poco lontano, in un appartamento in Monti, alle spalle del Foro Di Augusto.


Aveva conosciuto Anita, una signora di belle curve come lei, sarda, un paio di pollici più alta, nei giorni in cui batteva all’Almone. A distanza di tempo si erano riviste per caso e riconosciute senza eludersi. Constatarono confermata reciproca simpatia e restarono in contatto.


Nel frattempo a mio padre fu assegnata la pensione e mia madre gli trovò un posto in lunga degenza, ad Acilia.


Lo strozzino fu infine addomesticato grazie all’intervento del suocero del mio cugino di Anzio, con mezzi che non so ma che immagino in uso in certi ambiti marginali.


Fu a Pasqua, a chiusura della classica gita fuori porta che la segue, che mia madre ed io trascorremmo con Anita al mare, previa mattutina veloce visita a mio padre, nel lento ritorno serale in città sul suo maggiolone, Anita alla guida e mia madre di lato, io dietro ad ammirarle e ad ascoltare.


Lei e Anita erano diventate amiche assidue, e da un po’ Anita cercava di convincere mia madre a lavorare insieme nel suo appartamento.


Tornarono a parlarne in macchina e, dopo un ultimo serrato scambio di opinioni mia madre disse: “E va bene, dai, mi hai convinta. Però inizio dopo che Ciccio ha finito gli esami. Non mi sento di lasciarlo a sé stesso prima”. Ciccio ero io.


Poi comunque iniziò anche prima ad andare qualche ora qualche giorno. Per ambientarsi, si erano dette, per cominciare a farsi conoscere dai clienti più abituali, per sistemare a proprio gusto l’alcova disponibile, rimasta inutilizzata dal forfait della signora che c’era prima.


L’esame di terza lo superai addirittura più brillantemente di come avrei potuto immaginare. Cominciai ad assaporare le vacanze, svegliato con comodo la mattina da lei che si preparava per andare da Anita, dove talvolta la raggiungevo nel pomeriggio per poi tornare insieme a casa all’imbrunire, col solito tram articolato anteguerra per Cinecittà.


Altrimenti razzolavo in completa libertà tutto il giorno. La mattina mi vedevo con quelli della mia banda e ciondolavamo tra certi angoli del Quadraro e l’oratorio del Buon Consiglio. Dopo il desinare, già approntato da lei e da me perfezionato secondo le sue indicazioni, e aver coscienziosamente lavato i piatti, salivo in camera mia e mi crogiolavo tra i miei fumetti, i libriccini della vecchia BUR, dei quali avevo ormai accumulato una discreta collezione, ma anche certi giornaletti che per un certo periodo mi aveva passato mio cugino. Quelli ancora li conservavo, ma meno esposti seppur non dimenticati, in fondo alla cassapanca. Quando li riesumavo per me già rilasciavano un certo sentore di nostalgia.


Poi cominciavo ad attendere di sentire i passi di lei approcciarsi, il suo entrare in casa, il suo chiamarmi da sotto: “Ciccio”.


Casa di Anita era in una via con un terremotato fondo in sampietrini. Sfociava proprio alle terga di antichità imperiali e a circa metà si fregiava di lastra rammemorativa per quella che era stata dimora di Ettore Petrolini.


Anita aveva ormai la sua clientela affezionata. Ad essa comunque rinfrescava la memoria col consueto annuncio tra le colonne economiche di un paio di quotidiani della Capitale, scrupolosamente reiterato in ogni edizione anche per adescarne di nuovi, di clienti. Lo intravidi una prima volta quando il tale di turno ne dimenticò copia sul divanetto dell’ingresso. Lo aveva addirittura cerchiato con la matita, cominciava con AAAAAANITA e continuava con le necessarie indicazioni.


L’appartamento si trovava al primo piano di una palazzina di due che spiccava per la facciata evidentemente ripristinata non da molto. Sulla strada, accanto all’uscio d’ingresso notavasi la cler da tempo serrata di quello che era stato, a leggere l’insegna lasciata agli schizzi di calce e agli accumuli di polvere, un laboratorio sartoriale. Anche il secondo piano si sarebbe detto disabitato, ma sporadicamente si notava taluno ascendervi.


Aveva pianta quadrata. Si accedeva in un comodo ingresso cieco, che in un angolo fungeva pure da salottino di attesa, protetto alla bisogna da un paravento a pannelli rinterzabili e con pudore illuminato da una lampada a stilo piazzata accanto a un tavolinetto con sopra sparsi giornaletti di indubbio contenuto. A destra c’era la cucina, a sinistra il bagno grande. In fondo di traverso una sorta di corridoio a far da decumano, oltre il quale le porte delle due alcove separate da uno stanzino già di incerta destinazione, ma adesso sommariamente arredato per mia tana, con tavolino sedia e poltrona reclinabile, per quando mi fossi trovato colà.


Non mi ci volle molto a scoprire che nel mio stanzino, sulle pareti contrapposte, c’erano fessure che consentivano di spiare quanto accadeva nelle alcove. Quasi piansi di felicità al constatarne l’esistenza.


Ricordo quel giorno d’agosto. Un venerdì. Anita e mia madre avevano da tempo organizzato di trascorrere la settimana successiva al mare, in Sardegna. Con l’occasione Anita voleva anche presentare mia madre ai parenti. Da diversi giorni, a causa del gran caldo, io evitavo di andare, ma quel venerdì ero obbligato in quanto quella sera stessa dovevamo imbarcarci a Civitavecchia sul traghetto. Per buona sorte fu Anita stessa che venne a recuperarci quella mattina. Mia madre si era alzata all’alba per sistemare casa e l’orto. Caricato il nostro bagaglio sul maggiolone, andammo per un saluto veloce a mio padre in istituto ad Acilia, quindi a casa di Anita. In quei giorni poco traffico sulle strade ed anche clienti ne passavano pochi, comunque subito dopo di pranzo due vennero a bussare.


Sentii cicalecciare il citofono e dovetti chiudere la porta del mio stanzino.


“Si, sei già stato?” sentii Anita chiedere. “Ok, primo piano”.


Poco dopo si udì qualcuno entrare.


“Buongiorno, vengo per l’annuncio sul… Quanto vuoi?”.


“Cinquanta”.


“Va bene…”.


“Vieni, accomodati”.


Un istante dopo si sentì movimento dalla stanza di Anita la quale, prima di serrare la porta, disse al tipo: “Senti, con me c’è una mia amica. Se vuoi te la faccio vedere, così puoi scegliere”.


“Va bene…” disse quello, dopo una certa esitazione.


“Ok, te la chiamo”.


Anita si allontanò un attimo e poi tornò sospingendo mia madre per un braccio. Adesso li vedevo, dalla fessura. Mia madre con indosso solamente le mutandine, che si teneva le poppe con le mani, abbagliante nella sua carnagione come neve, Anita più bruna ma con una splendida pelle anche lei, tranne quella del volto per i suoi ormai superati cinquanta, bionda con una appena accennata ricrescita. Lei indossava una camiciola e sotto niente.


Sin dall’inizio della loro frequentazione Anita aveva preteso che mia madre tornasse al suo colore primitivo e lasciasse ricrescere i capelli. Così adesso era tornata al suo corvino naturale, ma con qualche filo grigio.


L’uomo restò incerto diversi secondi, tanto che Anita lo rassicurò dicendogli di decidere senza problemi, puntualizzando che se voleva lo si poteva fare in tre, ma che il prezzo raddoppiava, ovviamente.


Alla fine quello optò per mia madre, la quale subito se lo portò in camera sua. Ovviamente io mi trasferii alla fessura corrispondente.


“Come ti chiami?” le domandò mentre sfilava i pantaloni.


“Maria”.


“Sei bella”.


“Grazie”.


Quello, un tipo tarchiato, di mezza età, incanutito, era intanto rimasto solo coi calzini, per il resto nudo come un verme. Pure lui era bianco di carnagione, ma il suo candore aveva un sentore di malattia.


“Mi dai prima…” disse mia madre. Quello si affrettò a recuperare i pantaloni dalla seggiola e a trarre le banconote dal portafogli. “Grazie”.


“Vieni, che ti lavo?” disse poi e lo fece avvicinare al piccolo lavandino che, insieme al bidè, si trovavano contro la parete opposta di entrambe le alcove. Li vedevo adesso entrambi di spalle, ma era evidente che mia madre gli stava lavando il pisello. Ella stessa poi lo asciugò, mentre cominciava a destarsi.


“Vieni che te lo bacio” gli disse e lo invitò a mettersi supino sul letto. Si posizionò prona in modo che potesse agevolmente raggiungere con la mano il sedere.


“Ah! Si. Brava. Lecca pure le palle. Si”.


“Sono brava?” domandò vezzosa, sollevato un attimo il capo.


“Si. Continua. Ah! Tu sei romana?”.


“Mhmm… Vivo a Roma da quando mi sono sposata, ma sono napoletana. mhmm…”


“Ah, ecco, mi pareva… Invece la tua amica è sarda”.


“Si”.


“Così, sei sposata. Infatti vedo che hai la fede… Tuo marito approva che fai la vita?”


“Mio marito è molto malato e ormai non è in grado di approvare niente… Ma vieni, adesso. Come preferisci? Mi metto io sotto?”.


“Si”.


Mia madre gli rivestì il cazzo ritto col preservativo e si posizionò a gambe larghe.


“Si… Così… Vieni… Si… Mi piace che il maschio stia sopra e mi padroneggi… Ecco, entra…”.


Quello le franò addosso di peso, quasi togliendole il fiato, e cominciò a muoversi. Lei restò con le gambe distese a V, ma con le dita gli carezzava il groppone.


Lui le aveva affondato il volto tra il collo e i capelli e le serrava di sotto le natiche con le mani. Dopo una breve pausa, riprese a muoversi.


“Si, sborra… Sborra…” mormoro mia madre e quello si irrigidì e sussultò, emettendo un versaccio soffocato.


Gli sfilò il preservativo col serbatoio colmo di seme aiutandosi con una salvietta, dove poi lo avvolse, e il tutto gettò nel secchio del pattume. Lo invitò a lavarsi ed ella stessa andò ad accovacciarsi sul bidè.


Si guardarono, lui ancora ritto sul lavandino, lei intenta a sciacquarsi sotto.


“T’è piaciuto?” domandò, asciugandosi.


“Si” rispose lui, intento allo stesso e poi a rivestirsi.


“Tornerai a trovarmi?”


“Sicuro”.


“Però la prossima settimana io e la mia amica ci prendiamo una vacanza, dopo puoi venire quando vuoi”.


“D’accordo”.


Congedato il tipo, mia madre fu raggiunta da Anita ed entrambe andarono in cucina.


“Ciccio, vieni? Vuoi qualcosa da bere?” mi lanciò.


Andai ad aggregarmi e bevemmo del succo di frutta. Stavamo ancora coi bicchieri in mano che si sentì di nuovo il trillo del portone.


“Vado io” disse mia madre ormai all’ultimo sorso.


Io mi portai il bicchiere nello stanzino, dove ancora mi rintanai.


Anita restò in cucina.


“Si, ciao, sei già stato? Primo piano”.


Accolse il tipo coprendosi dalle tette al ventre con l’asciugamano tenuto a tenda.


“Entra, caro”.


“Ciao, quanto vuoi?”.


“Cinquanta”.


“Va bene”.


“Senti… C’è anche una mia amica con me… Ti andrebbe di farlo in tre? Ti verrebbe un regalino extra”.


“Ma prima fammela vedé st’amica tua…”.


“Ok, Anita vieni”.


Anita comparve sulla soglia della cucina con la camiciola aperta sul davanti, esibendo un sorriso ambiguo.


“Ciao…”.


“Ciao. Perciò Anita sei tu”.


“Si, sono l’Anita dell’annuncio. Lei è Maria”.


“E quanto me verrebbe a fallo co’ tutt’e due?”.


“Sarebbe tariffa doppia, ma dato che stiamo per andare in vacanza facciamo settanta”.


“Ok, me sta bene” disse, e capì al volo che il pagamento era anticipato.


Incassata la cifra, Anita li sospinse entrambi in camera sua ed io subito mi piazzai alla fessura corrispondente.


Mia madre e lei furono completamente nude in un istante e salirono sul letto, restando in attesa che quello terminasse di svestirsi.


“Aspetta. Prima lavati. L’asciugamano è lì” disse Anita.


Intanto che lui ottemperava, Anita prese l’iniziativa e cominciò a toccare mia madre, strappandole un’esclamazione di piacere.


Quello le guardò, sorpreso ma non troppo.


“Ah! Ma allora siete du lesbicacce. Continuate… Me piace vedé le lesbiche all’opera” disse, e intanto montò pure lui sul letto, che gemette e traballò pure, visto che era corpulento, con un cazzo di tutto rispetto sotto l’epa.


Anita baciò con passione mia madre sulla bocca e poi la indirizzò a succhiare il cazzo dell’uomo, con una mano sospingendole il capo, con l’altra stuzzicandole i capezzoli.


Il tipo si sistemò supino e si lasciò lavorare, e mentre mia madre gli leccava e baciava il cazzo ritto, Anita si spostò per baciarla a sua volta sotto, tra le chiappe e le cosce.


Dovette esser tale il piacere procuratole dall’amica che mia madre mugolava e gagnolava in estasi intanto che spompinava.


Si interruppe, quello ormai ritto come un blocco di marmo. Lo rivestì col profilattico e si posizionò a pecora per lui, a sessantanove sopra Anita.


“Scopami mentre bacio la mia amica”.


“Puttana. Si”.


Lui si piazzò ginocchioni, le afferrò il sedere con entrambe le mani e la penetrò. Mia madre teneva la testa tra le gambe di Anita e baciava con passione. Dal canto suo Anita adesso si dava da fare con la bocca proprio sotto le palle dell’uomo. Poi la vidi sporgere un braccio e recuperare da un lato del letto un altro preservativo e il tubetto di vasellina. Il preservativo lo distese e ci infilò l’indice e il medio di una mano. Con l’altra mano giostrò abilmente per lubrificarlo. Tutta questa operazione si svolse dietro le natiche del maschio, tra le quali ella, con gesto risoluto, infilò e spinse, dopo un veloce sondaggio, le due dita coperte dal preservativo. Quello sussultò per la sorpresa e accennò a protestare.


“Brutta stronza che fai? Lesbica di merda!”.


Per un attimo ebbi l’impressione che volesse sottrarsi, invece continuò a scopare mia madre con maggior passione, intanto che Anita da sotto gli lavorava l’ano.


Deflagrò ululando di piacere.


Quando si ritrasse, col fiatone e il cazzo ancora ritto, Anita gli levò il preservativo gonfio di sborra e si mosse per andarlo a gettare nel pattume insieme a quello con cui lo aveva sodomizzato.


Mia madre era rimasta sul letto con gli occhi socchiusi e di nuovo l’amica la raggiunse e la baciò sulla bocca.


Mentre si lavava e poi si rivestiva il cliente continuò a fissarle, prima in silenzio, con un ghigno tra il serio e l’ironico, poi apostrofandole.


“Siete du lesbicacce de merda, ma ce rivengo. Quanno tornate?”.


“L’altra settimana. Rimaniamo via solo la prossima” rispose mia madre, intanto che Anita continuava a baciarla sul collo, sul petto. “Fai da solo, per piacere? Tirati la porta”.


“Già. Ve vedo occupate. Lesbiche e ninfomani siete. Che bell’accoppiata. Ciaoooo” e se ne andò.


“Facciamo venire Ciccio? Tanto, quel lestofante sarà rimasto a guardare tutto il tempo” domandò mia madre. “Ciccio, dai, vieni”.


Mi precipitai e in un attimo fui tra loro due, nudo e con il cazzo ritto conteso dalle loro bocche.


Esplosi come un vulcano e inondai il viso di entrambe.


 


 


 


 


 


 


 


 


 


 


  


    


 


 


 


 


 


     


 


 


 


 



  
    


 



 
     

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