Aveva infine accettato di battere per strada. Durò quasi tre mesi, fino a novembre, poi mia madre decise di smettere. Non si sentiva più di passare la notte all’Almone, tra la strada e la selva, sotto un fanale bersagliato da ogni specie di volatili, lei stessa presa di mira dalle zanzare, per il che doveva preventivamente ungersi tutta di repellente, in attesa di clienti e, poi, verso l’alba, che qualcuno venisse a riprenderla per riportarla a casa.


Arturo, il suo atipico protettore, non la prese bene, per niente, ma le aveva dato la sua parola che sarebbe stata libera di decidere. Fece buon viso a cattivo gioco. Riprese a procurarle abboccamenti saltuari. In compenso, ora la obbligava a partecipare nei fine settimana a festini organizzati in una sorta di cascinale a ridosso dell’aeroporto intercontinentale, tra le dune verso il mare.


Arrivò l’inverno. Col freddo di quel gennaio mio padre ebbe il tracollo definitivo. Dopo l’ennesimo ricovero, tornò a casa che pareva improvvisamente invecchiato di dieci, quindici anni. Dovette cedere negozio e attività. Il ricavato, ovviamente, se lo incamerò lo scortichino che lo teneva in pugno. Nell’attesa che gli fosse accordata la pensione, la moglie dovette giostrarsi tra le accresciute difficoltà. 


Con lui allettato e trapiantato in camera, ella accudiva i maschi che passavano a trovarla direttamente nel terraneo vero e proprio, utilizzando il sofà come alcova. Così io, se ero in casa, non me ne perdevo uno. Spiarla dall’oblò delle scale era diventata la mia fonte quotidiana di piacere. Lei mi aveva scoperto ed io sapevo che mi aveva scoperto. Non ne parlavamo. Era il nostro segreto, pensavo, e constatai, mi divenne cioè chiaro e lampante, che il sentirsi osservata da me in quei momenti le procurava una sottile, inconfessabile ebbrezza, quella che solo la depravazione estrema, ributtando ogni giudizio morale, è in grado di regalare a certi spiriti tarati.


Accadde una sera di maggior crisi per mio padre. Non faceva che scatarrare e lei più di una volta dovette correre con smorfia di schifo a svuotare nel wc la sputacchiera, che poi era il mio antico vasetto da notte appositamente riesumato per quella funzione.


Dopo cena, dato che mi era rimasto qualcosa di compiti da fare, me ne salii subito in camera mia. La lasciai, indaffarata, di sotto, intenta a rassettare, a sistemare suo marito per la notte. Aveva sintonizzato la radio su un canale estero che d’abitudine trasmetteva opere liriche. Io di sopra, seduto al tavolino e intento penosamente a risolvere le ultime equazioni, ero raggiunto a ondate dai gorgheggi incomprensibili.


Sbrigata la questione, spensi la stufetta elettrica e mi infilai sotto le coperte, acceso il lume del comodino e aperto il piccolo BUR di turno al segno. 


Sentii che spegneva la radio. Pensai che si stesse ritirando a sua volta, invece ne avvertii l’incedere per le scale. Doveva ritirare il bucato che aveva steso sul terrazzo, disse.


“Oggi è stata una bella giornata” puntualizzò “ma già stanotte mi sa che piove”.


Radunati i panni asciutti nella conca, il tutto depose sul pianerottolo. La vidi avvicinarsi, immaginai per la buona notte. Ci sorridemmo.


“Che leggi?” domandò, chinato lo sguardo verso la copertina del libro che reggevo.


“Tar-ta-ri-no…” mormorò.


“Di Tarascona” completai.


“Una cosa divertente?”.


“Abbastanza”.


Pensavo si stesse per congedare e andare, invece mi tolse il libro di mano e spense la luce.


“Ti dispiace se resto un po’ qui?”.


“N-no…” dissi.


“Mi fai posto?” domandò, e intanto capii che si stava togliendo la veste, con qualche difficoltà tiratane giù la zip di dietro. Mi addossai di più alla parete. Si infilò sotto la coperta e restò supina accanto a me.


“Lo sai che non è una bella cosa, che mi guardi mentre sto di sotto con qualche cliente? Lo capisci?” disse, e io rimasi senza parole. Non mi aspettavo quella requisitoria.


Tacque qualche secondo.


“Ti piace proprio tanto rimanere lì a spiare?”.


“Si” ebbi il coraggio di rispondere.


Avvertii la sua mano toccarmi, scostare l’orlo delle mie mutandine. 


“Eccolo qua” disse. Era già duro e sentii le sue dita stuzzicarmi il glande, scappellarlo.


“Ti ricordi quando facevamo il bagno la domenica insieme nella tinozza di legno grande e ti toccavo sotto la schiuma? Tu mi sborravi in mano, lo so, ma tanto non si capiva nell’acqua”.


Io tacqui ancora, ma sentii che mi abbassava le mutandine e capii che aveva sfilato le sue. Mi montò sopra cavalcioni e se lo indirizzò dentro, strappandomi un lamento di piacere.


Le sollevai l’orlo della maglia intima di lana e cominciai a carezzarle il sedere e, con le dita, aprirle le natiche e cercare il buchetto.


Rise forte per questa cosa.


“Lo so che l’hai già fatto pure con Zia Teresa. La stronza porca me l’ha detto. T’ha voluto fa da nave scuola come io ho fatto ai figli suoi. Mo ti va di farlo anche con me?”


“Si, mammà, si” risposi quasi implorante, fremendo in tutto il corpo.


“Non ti fa schifo che mamma tua è una donnaccia?”.


“No! No!”.


“Lo sai che anche a me piace se mi guardi quando faccio l’amore?” domandò, con voce roca, singolarmente ansiosa.


“Si, mammà. L’avevo capito”.


A questo punto stavo quasi per sborrare ma, improvvisamente, ci fu un picchiare forte all’uscio di casa. Sobbalzammo entrambi. Lei si scostò, accese la luce sul comodino.


“Chi cazzo è a quest’ora? So le undici passate” disse, agitata. 


Io ero rimasto con il cazzo ritto e la osservai correre a culo nudo verso la finestra. Notai che, per proteggersi dal freddo pungente che si annunciava per la notte, oltre alle sue calze nere tenute a mezza coscia da fettucce elastiche che serravano tanto da crearle un bracciale rossastro nelle carni, aveva messo sopra di esse dei vecchi calzettoni miei che le arrivavano fino ai polpacci. 


Dischiuse l’anta e gettò lo sguardo di sotto.


“Chi c’è? Che volete” disse, con tono praticamente irato. Dal plurale capii che erano più di uno.


“Scendi, Marì” si udì una voce d’uomo ingiungerle con tono sicuro.


“Stronzi…” mormorò sottovoce rigirandosi e chiudendo la finestra. Tornò verso di me.


“Copriti. Non piglià freddo” mi disse, a sua volta recuperando le pianelle e velocemente rimettendosi le mutandine e la veste, questa per la fretta con la cerniera rimasta aperta fino in fondo.


Si avviò lesta. Andando, tirò su la conca. La sentii con incedere affrettato e pesante sui gradini guadagnare l’uscio di sotto e aprire.


Un ciarlare scomposto di maschi fece irruzione e sentii lei che quasi inviperita ne chiedeva conto. Io mi gettai sulle spalle il plaid e discesi le scale buie verso il mio solito posto di osservazione. 


“Che vai cercanno a quest’ora? T’aspettavo domani a mattina” disse, rivolta a quello che doveva essere il capo o il più rappresentativo dei tre.


“Io vengo quanno me pare, Marì, ce lo sai, no?”.


“Ma mo nun tengo pronti i soldi…”.


“Scava, Marì, scava. So sicuro che li trovi”.


Il trambusto aveva messo in agitazione anche mio padre. Lo sentii chiamare la moglie, scatarrando.


Lei corse di là, ingiungendogli di starsene calmo. Il caporione la tallonò, ma subito tornò sui suoi passi con un’espressione schifata. Poco dopo rinvenne anche mia madre con in mano delle banconote. Serrò la porta della camera alle sue spalle. Si infilò il danaro tra le poppe e raggiunse la borsetta che custodiva nella credenza. La aprì, mostrando le spalle alla marmaglia. Ne trasse altre banconote. Ripose la borsetta e richiuse lo sportello. Riunì le banconote e le rinserrò nella mano chiusa a pugno, che agitò come per minaccia a quelli.


Il capo le disserrò la mano e intascò dopo un rapido controllo.


“Vabbè, mo andatevene. Avete già scassato abbastanza la minchia”.


“Seee, e come la fai facile, Marì. Mica finisce qua la cosa”.


Come a un segnale, i tre gaglioffi la afferrarono e le sfilarono la veste dall’alto. Lei oppose resistenza, vivacemente ma in silenzio, penso per non allarmare il marito e me, che comunque stavo già assistendo a tutto quanto.


La obbligarono a inginocchiarsi e, con le nerchie subito fuori dai pantaloni, si contendevano la sua bocca, intruppati di fronte a lei che li assecondò, ormai rassegnata. Gagnolava passando da un cazzo all’altro. 


“Ti piscio in bocca, troia!” uno esclamò, serratole il capo con entrambe le mani e premendoselo contro, obbligandola a bere. Gli altri lo imitarono, con tale brutalità e furia che lei, non potendo velocemente ingurgitare tutto, tentò di ritrarsi e fu presa da conati di vomito. Quelli dovettero infine allentare la presa e lei rimise sul pavimento alquanto del piscio appena bevuto e non solo, anche della cena, mi parve.


La afferrarono per le ascelle e la sollevarono di peso. La sbatterono carponi sul tavolo e le strapparono via le mutandine. Le sollevarono la maglia intima di lana, di maniera che il sederone si trovò tutto scoperto in bella vista, candido ed esposto fino a dove le fettucce le serravano le calze a metà coscia.


Uno la teneva pressandole il busto contro il tavolo, intanto che i compari si disponevano a penetrarla, un po’ gareggiando tra loro. Il più veloce ad entrarle dentro le strappò finalmente un grido.


“No! No! No così! Mettetevi il preservativo!” intimò, ma era troppo tardi. I due le si alternarono dentro, sotto lo sguardo divertito di quello che la teneva. Si rallegravano a forzarle il buco del culo con le dita intanto che le stantuffavano a turno la figa. 


“Che merdosa! Senti che odore che glie vié fuori dal culo. Fogna!”.


“Bastardi! No! Luridi!”. 


Uno, il capo, prese più decisamente l’iniziativa e, dopo un po’ di colpi ben assestati, le sborrò dentro. Satollo, fece poi per cedere il posto al compare, il quale ebbe una resipiscenza e domandò agli altri se avessero un guanto da dargli. Mia madre si affrettò lei a dirgli di cercare sotto i cuscini del sofà. Quello andò e dopo una breve ricerca, esclamando “che rifornimento!” tornò e provò a infilarsene uno, ma il cazzo, oltretutto il suo era di dimensioni mediocri, gli si stava smosciando e allora manovrò per ficcarlo di nuovo in bocca alla puttana, facendo una mezza acrobazia. Gli altri risero sguaiati. Riacquistato l’attrezzo una appena sufficiente consistenza, gli riuscì di operarne la vestizione. Si dispose a entrarle dentro, ma prima volle assestarle sulle chiappe due o tre sonori schiaffoni.


Il tipo si rivelò lento a venire. Sbuffava e ansimava. Cominciò a insultare mia madre.


“Vacca! Sei tutta aperta. Non sento niente. Latrina!”.


“Mettiglielo in culo” consiglio l’altro e con le dita, il busto appoggiato sulla schiena di lei, cercò di tenergli aperto il buco. “Aspè. Vai mo. “Veloce” gli disse. “Stringi! Marì, stringi! Sennò famo giorno” biascicò poi rivolto a mia madre.


Finalmente quello ce la fece. Si ritrasse, esausto. Sfilò il preservativo con quel poco che ci aveva sversato dentro e lo gettò sul pavimento. Si ricompose le brache occultandoci il pisello già di nuovo irrimediabilmente annullato e andò a sedersi su una seggiola. 


Infine il terzo compare, quello che l’aveva tenuta ferma riversa sul tavolo, si dispose a fare la sua parte. A lui gli era rimasto ben ritto e ce l’aveva di tutto rispetto. Si posizionò per bene dietro e le afferrò con energia le chiappe.


“Troia, te lo metto pure io in culo, mo, ma a pelle”.


“No! No!” disse lei, smuovendosi, ma quello ormai già le stava dentro e si muoveva, frenetico. 


Il caporione, quello che se l’era fatta per primo e al quale lei aveva passato i soldi, cominciò a sfotterla, ritto di lato.


“Te sei ripulita, Marì. Sto stronzo è appestato. Ma tanto, ‘na puttana senza sifilide che razza de puttana è?”.


A quelle parole mia madre si agitò disperatamente. Cercò di liberarsi, ma quello continuò a tenerle il cazzo ben piantato nel culo e a sbatterla inesorabilmente. Fu allora che, per il dimenarsi ruotata un po’ sul tavolo, i nostri sguardi si incrociarono. Lessi una disperata preghiera nel suo ma, reso spietato dalla lussuria, cominciai a toccarmi eccitatissimo e mi bagnai proprio mentre anche l’animale che se la stava facendo si irrigidiva e le inondava il retto col suo seme.


Sentendo allentarsi la morsa, mia madre si sollevò e corse in bagno. Dal rumore dell’acqua capii che si stava facendo un bidè accurato. 


Quando ricomparve aveva gli occhi di pianto. Cercò lo sguardo dei tre. Sperava le dicessero che avevano scherzato. Che non era vero che quello era appestato.


La servirono in tal senso e riuscirono ad essere convincenti, tanto che lei, rinfrancata, quasi voleva trattenerli, come se la perdurante loro presenza fisica garantisse la genuinità della rassicurazione.


Ma quelli, dissetatisi, se ne andarono.


Io capii che, rimasta sola, andò svanendo per lei il sollievo fornitole dalle garanzie profferte e, mentre ripuliva il pavimento dal suo vomito e dal resto, di nuovo nel suo animo tornarono gli angustianti timori.


 


 


      


 



 


 

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