Quella mattina era passato per pranzo mio cugino, il proiezionista con lo hobby delle foto artistiche. Qualche volta lo faceva, dato che con regolarità veniva a Roma per ritirare e/o riconsegnare pizze.
L’avevano convinto, leggi obbligato, a sposare una dopo che l’aveva messa incinta. Quella si era rivelata una palla, in ogni senso. Gelosissima, e però praticamente frigida, adesso sempre appresso al bebè e alle faccende della sua famiglia di origine, gente guappa, di camorra. Era rimasta pure obesa dopo il parto. Così lui volentieri veniva a inzuppare il biscotto nella passera della zia mignotta di Roma, quasi coetanea. Infatti le sue visite di recente erano diventate più frequenti.
Tornando da scuola notai la sua seicento parcheggiata davanti casa. Ne fui contento perché la volta precedente aveva promesso che mi avrebbe portato altri provini di foto, alcune ulteriori di mia madre che gli erano rimaste da stampare dall’estate dell’anno andato.
Me le passò, alla maniera carbonara. “Ci sta pure una sorpresa” mi soffiò nell’orecchio, allusivo. “Ho ritrovato certe cose vecchissime de mamma tua, de prima che se sposasse. Te n’ho portata una. Mi raccomando, però, nun te fa’ scoprì. Gl’avevo detto che l’avevo bruciate”.
Così dopopranzo, mio padre avviatosi in negozio, me ne salii in camera mia per studiarmele.
Lei e il nipote si ritirarono in camera da letto per la consueta sveltina.
Le foto erano una dozzina. Erano a colori intensi, di quelle che preferivo, quelle dove compariva imbavagliata e incatenata al letto, tra frustini, manette e corde.
Già mi ero eccitato a scorrerle, quando mi avvidi che sotto di esse c’era quello che pareva un quadernetto di appunti. La copertina era monocroma, proprio come quella di un quaderno, ma nell’aprirlo rimasi letteralmente stupefatto. Erano fotografie in bianco e nero, diverse malconce o chiazzate, tuttavia ancora fascicolate come in un fotoromanzo senza parole. Mia madre, ma come era parecchi anni prima, ancora ragazza, dopo la prima in posa da foto ritratto, nelle successive compariva adolescente nuda e magra alle prese con tre uomini altrettanto nudi, coi loro cazzi ritti, in una sagra di spruzzi lattescenti.
Mi stavo già toccando, ripromettendomi alla prima occasione di domandare più ragguagli su queste a mio cugino, quando si udì bussare di sotto.
Mi interruppi e andai alla finestra per sbirciare chi fosse. La seicento di mio cugino non c’era più, segno che era andato. Ma vidi Dario, il figlio dei vicini da pochi giorni tornato dalla ferma, avevo sentito. Era stato adottato da piccolo, ma non aveva fatto una buona riuscita, tanto che era finito nella legione straniera. Malgrado gli anni trascorsi e la pelata del reduce, lo riconobbi in fretta. Evidentemente aveva spiato la partenza di Beppe.
Sentii mia madre di sotto disserrare l’uscio. Capii che esitava a farlo entrare. Il chiacchiericcio continuava e allora io andai sulle scale per capire meglio. Nella penombra di sotto vidi lei di schiena che teneva l’anta ancora socchiusa.
“Mo non posso. Passa domani mattina” udii, ma quello non demordeva e infine spinse di forza, tanto che lei quasi cadde sul pavimento, spaventata.
Nel rialzarsi ribadì, alterata, che non poteva, di ripassare, ma lui sbatté forte l’anta alle sue spalle per richiuderla, afferrò mia madre e la portò di peso verso il sofà.
“No! No!” continuò e con le mani e le unghie tentava di tenerlo a distanza, ma quello le assestò un ceffone tale che ella restò a bocca aperta, senza fiato, sbalordita.
Le strappò di dosso, letteralmente, la sottoveste e le mutandine, sbrindellate lanciandole lontano, si apri i pantaloni e le franò sopra col cazzone già ritto. Dopo un paio di tentativi a vuoto la penetrò, strappandole una lunga esclamazione.
Cominciò a muoversi e intanto le tirò via anche il reggiseno. Prese a strapazzarle le tette e cercava di baciarla, ma mia madre girava il capo a destra e a sinistra, agitatissima. Allora le affondò i denti nel collo, alla maniera dei vampiri.
Risollevò il capo e le morse l’orecchio. Mia madre adesso era rimasta col capo girato nella mia direzione ed ebbi l’impressione che si avvedesse di me che spiavo dalle scale, oltre l’oblò con la tendina appena scostata.
Mi stavo per ritrarre ma, ormai certo che mi aveva ormai individuato, per la mia parte ebbro di lussuria ed eccitato, restai a guardare.
“Vache! Égout ! Putain!” blaterava lui con voce roca, squassandola. Allora lei distolse lo sguardo da me e si lasciò andare. Gli afferrò il capoccione con entrambe le mani e incollò la sua bocca a quella di lui. Poi le portò entrambe sui glutei che fremevano, accompagnandone gli affondi. Abbandonata, con le gambe aperte, accolse lo spruzzo.
“Si, bagnami” mormorò.
“Ah! Salope! Ah ! Ah ! Ah ! Apprécier! Chienne! Ah!”.
“Ah! Si! SIIIIII!”.
Dario riprese fiato, continuando a gravarle sopra prima di rialzarsi infine. Si sistemò le brache continuando a guatarla, ironico e sfottente nello sguardo.
Pose mano al portafogli.
“Quanto vuoi?”.
“Fai tu” mormorò mia madre.
“Ti pago proprio solo perché la vecchia mi ha detto di farlo” ciancicò a denti stretti, appallottolando una banconota che gli riuscì ad oltraggio di infilare nella vagina bagnata di mia madre.
«Non ho capito chi è Dario.»