Procedevano i lavori per gli allacciamenti alla distribuzione pubblica del gas, ma non erano ancora giunti dalle nostre parti. Comunque ancora per poco, si sperava, mia madre doveva ricorrere alle bombole per cucinare.
Non era la prima volta che la bombola terminava proprio di domenica, mentre lei era indaffarata a preparare il pranzo. Così capitò anche quella domenica. A quel tempo i barbieri facevano ancora la mezza giornata e, rientrato dal negozio, mio padre aveva fretta di mangiare per andare alla partita di calcio. La Lazio giocava in casa ed erano le ultime di campionato. Furono momenti convulsi. Mia madre dovette ricorrere alla vicina per terminare di cucinare, con frettoloso andirivieni di pentole e tegami.
Finalmente a tavola, mio padre si ingozzò in fretta, a capo chino, lanciando occhiate all’orologio, sotto lo sguardo della moglie.
“Ma ce devi proprio annà a sta cazzo di partita?”.
“Perché? Marì, che c’hai?” replicò lui, quasi sbalordito per la domanda.
“Vabbè, però andando passa da Giacomo e digli se fa un salto a sostituirmi la bombola, pure se è domenica”.
Lui fece cenno di si col capo, che tornò a chinare, mi parve con un insorgente pensiero, sul piatto. Giacomo era il bombolaro che da sempre ci riforniva.
Giusto in tempo per il caffè passarono a prenderlo i due compari coi quali era solito andare allo stadio. Mia madre insistette perché si fermassero il necessario, la moka già approntata sul fornellino elettrico d’emergenza. Essi non si fecero pregare.
Andati via, la macchina sgommando verso la Tuscolana, pure lei si affrettò a rassettare per poter andare a coricarsi. Io, intanto, mi ero trasferito di sopra in cameretta mia. Non avevo l’abitudine di dormire dopo pranzo, ma era troppo presto per uscire e raggiungere gli altri coi quali me la facevo. Comunque mi coricai a leggere un po’, rimandando ulteriormente certi compiti di scuola ai quali non mi ero ancora dedicato. Presi il Gösta Berling dal comodino e lo aprii al segno, ma non riuscii a leggere più di una mezza pagina. Avevo altro in animo che frullava. Ripensai a mia madre agitata, sudata, un po’ discinta alle prese coi suoi mestieri, all’odore della sua fatica casalinga. Ripensai a come la guardavano i due compari di mio padre mentre sorseggiavano il caffè. Mi eccitai e cominciai piano a toccarmi attraverso i pantaloni. Deposi il libro sul comodino e mi alzai per raggiungere la cassapanca dove conservavo vecchi fumetti e, più sotto, certe fotografie che l’estate prima mi aveva ceduto Beppe, il mio cugino di Anzio. Faceva il proiezionista ed era fotografo dilettante con presunzioni artistiche.
L’estate precedente mia madre ed io l’avevamo trascorsa quasi per intero dagli zii di Anzio. Lei aveva accettato di sostituire per un po’ la signora addetta alla cassa della stessa sala dove lavorava mio cugino. Mio padre ci raggiungeva la domenica per pranzo e ripartiva il lunedì pomeriggio. Gli riuscì di farlo per quasi tutto il mese di luglio, ogni domenica, poi interruppe, vuoi perché il viaggio in treno aveva cominciato a pesargli, soprattutto perché nel frattempo mia madre si era accesa per un tale, amico di mio cugino e frequentatore della casa. Si chiamava Enrico, il Compare Enrico.
Da ragazza mia madre aveva trascorso lunghi periodi presso la sorella maggiore, più grande di quasi una dozzina d'anni, che si era trasferita a Porto D'Anzio dopo il matrimonio. Tra lei e il nipote ci correvano pochi anni e c'era molta complicità. Lei gli fece da nave scuola e da modella per assecondare la passione di lui per la fotografia. Adesso sarebbe stata riluttante ma fu proprio il Compare Enrico a convincerla di posare di nuovo, nuda o quasi, per mio cugino. Ne vennero fuori numerosi scatti che il nipote, insieme ad altre lastre, avrebbe esposto la prima settimana di settembre, quando ancora c’erano un po’ di turisti in giro. Numerosi provini, fotografie di formato quindi più piccolo, li regalò a me che adesso li conservavo gelosamente.
Di nuovo disteso, ripresi a toccarmi soffermandomi di più sulle foto dove lei compariva legata ed esposta su un letto di metallo.
Si udì dalla via il richiamo di Giacomo: "Marì. Marì. Io sto qua".
Immaginando che forse lei non lo avesse ancora udito, mi alzai io e feci per andare alla finestra per far cenno al tipo di entrare, ma subito udii il precipitarsi di mia madre. Feci in tempo a scorgere lui che si metteva in spalla la bombola traendola dal cassone della sua ape parcheggiata davanti casa.
"Giacomì, grazzie. Mi dispiace che t’ho dovuto disturbà ancora di domenica" intesi.
Quello si schernì e cominciò subito a darsi da fare. Riconobbi la nota sequenza di rumori metallici che caratterizzavano l’operazione.
Ormai alzato e distolto, mi venne naturale guadagnare l’oblò sulle scale per gettare uno sguardo di sotto.
Lei stava ritta, a piedi nudi e con indosso gettata la vecchia veste che usava per casa in quei giorni, così poco abbottonata davanti che le tettone quasi debordavano.
"Sei sempre tanto gentile, Giacomì. Fossero tutti gli uomini come te".
"Tu marito? Sta fuori?" domandò lui ancora ginocchioni ma prossimo a terminare, girato il capo verso lei. La bombola vuota stava già posizionata accanto all’uscio
"Se n’è andato alla partita".
"Già. Ho capito che annava de fretta… Allora? Stai sola?".
"No… Nun credo… Sopra ce dovrebbe sta mi fijo… Perché?".
Lui non rispose. Si limitò a sorridere, di nuovo fissandola in viso.
"Che c’hai in mente? Giacomì?".
Lui ancora tacque. Evidentemente riteneva inutile ogni puntualizzazione.
Finalmente si sollevò. Andò a riporre la borsa con gli attrezzi accanto alla bombola vuota.
"Per i soldi passa da mi marito in negozio. Martedì, a sto punto…".
"Si, nun te preoccupà…".
"Mo che fai? Già te ne vai?".
"Se nun te devo fa artro…".
"Vieni qua… Assettate… Ti preparo il caffè…".
"Nun c’hai meglio qualcosa di forte, Marì?".
"Guarda tu…" disse lei, girandosi verso la credenza e andando poi ad aprirne uno sportello.
Lui la tallonò e, quando lei si chinò verso le bottiglie, le palpò sfrontatamente il sedere.
"Feeee, che fai? C’hai le mani zozze… Vattele a lavare…".
"C’hai ragione, Marì… E devo pure piscià…".
"Vai… Vai… Di asciugamano usa quello de mi marito… Quello blu…".
Giacomo si girò e fece per avviarsi verso il bagno.
"Vedo che c’hai Jack Daniel’s… Me ne poi dà con un po’ di ghiaccio?".
"Sicuro… Questa è l’occasione bona per aprirla, sta bottiglia… Me l’ha regalata mi nipote…" disse lei nel prenderla, ma Giacomo era già scomparso in bagno.
Quando tornò, trovò sul tavolo il suo bicchiere col whisky ad attenderlo, con accanto la bottiglia e un po’ di tozzetti in un piattino.
"Vieni a sederti…".
"Tu nun me fai compagnia?" domandò, notando che era apparecchiato per una persona.
"Magari sorseggio un po’ dar tuo…".
Si accomodarono di lato al tavolo, seduti di fronte.
"Tu moje che dice?".
"Che deve da dì… Sta sempre impicciata coll’altre patricelle, in parrocchia… Pure oggi se ne è uscita appena pranzato… Dice ch’è er mese de maggio…".
"Si… Tu moje è una che er prete nun glie sbatte lo sportello in faccia quanno che va a confessasse…".
Continuarono a sorseggiare passandosi il bicchiere, un po’ celiando. Quando fu vuoto, mia madre lo rabboccò e anche ci calò un paio di cubetti di ghiaccio, ma Giacomo si alzò e le si appressò. Vidi che abbassò deciso la zip dei pantaloni e tirò fuori il pisellone. Mia madre assecondò che glielo spingesse in bocca.
"Si… Bocchinara… Succhia…" mormorava con voce roca, impastata, con una mano tenendoselo su alle palle, con l’altra accompagnando i movimenti del capo di mia madre alla nuca.
"Mhmm… Mhmm…" gagnolava. Intanto gli slacciò la cintura e manovrò per abbassargli i pantaloni.
Ebbe un improvviso scarto e si rialzò.
"Che è? Che t’afferra?" disse lui, abbastanza sbalordito.
"Mi fjio…".
La vidi correre alla porticina che immetteva alla scala che, per mia fortuna era in penombra, e per di più lei non arrivò ai gradini ma si limitò a chiamarmi, per sincerarsi. Ovviamente io tacqui, acquattato.
Rassicurata, tornò verso Giacomo.
"Non ci sta. Stamo tranquilli. Devo sta attenta, co' lui. Me sa che me spia e se fa le seghe". Lui, intanto aveva sfilato del tutto i pantaloni e si reggeva il cazzone ritto, ostentata minaccia. Lei a sua volta si svestì veloce.
"Vié, famolo qua…" disse, indirizzandolo in fondo, verso il sofà. Poi ce lo lasciò accanto e corse verso il bagno. Tornò con un asciugamano, il suo, e lo distese. Giacomo, intanto, s’era tolta pure la camicia. Adesso erano entrambi completamente nudi. La carnagione nivea, glabra di lei, soggiaceva a quella brunita, villosa, di lui.
Mia madre si distese a gambe aperte, con le dita di una mano offrendogli la passera depilata. Lui, infoiato e impaziente, ci montò in mezzo, ginocchioni.
"Scopami!".
"Famo senza, Marì?".
"Si, ma vedi de non sborrarme dentro" rantolò lei.
"Puttana".
Le franò sopra di peso e cominciò a muoversi, frenetico, a tratti rallentando, a tratti ridandoci dentro con foga.
Mia madre, affondata sotto di lui tra pezze e cuscini, si lamentava, in estasi. Gli graffiava il groppone e i glutei. Allacciò le gambe per serrarlo a sé meglio.
"Giacomì! Ah! Si! So tua, so la puttana tua! Porco!>>.
"Puttana! Troia!".
Io, intanto, dal mio punto di osservazione, mi ero eccitato tanto che cominciai a toccarmi attraverso i pantaloni e a mia volta mi sborrai nelle mutande, proprio mentre lui urlava al colmo del piacere.
"Troia! Sborro!".
"Esci! Esci!" intimo mia madre.
Con uno sforzo sovrumano lui obbedì, scartando, il glande congestionato dirigendo verso la bocca spalancata di lei, che si era sollevata sul busto.
Lo tenne tra le labbra fino all’ultima stilla.
"Bevi! Latrina... Ah! Ah!" ordinò lui, e attese che lei gli mostrasse la bocca ormai vuota prima di franare di lato sul sofà, esausto.
«a LEODAVINCI: realtà aumentata con un po' di letteratura»
«Realta' o fantasia .?»