Parlerò di cose di una vita fa, la mia, purtroppo.


Abitavamo agli acquedotti, in una casa circondata da una cornice di verde che mia madre aveva imparato a sfruttare per domestica produzione di ortaggi.


Pareva di stare in aperta campagna ma, in realtà, la metropoli e il suo commercio non distavano che poche centinaia di metri in linea d’aria. Per raggiungerla, tuttavia, il tragitto non era altrettanto lineare: bisognava aggirare un canneto e un terrapieno, quindi attraversare la ferrovia per un lugubre sottopasso, volentieri nella stagione più calda incrociando serpi in escursione, quindi costeggiare i primi palazzoni condominiali e, finalmente, si arrivava all’arteria congestionata, percorsa al centro da una sgangherata tramvia che ne spartiva i flussi contrapposti di macchine.


In uno di quei primi isolati c’era il buco dove mio padre sforbiciava zazzere. Prima era stato lavorante in una barberia sulla via principale, poi s’era incaponito a mettersi in proprio, cioè ad aprire un negozio suo. Non potette reperire di meglio che quello stambugio umido, appartato. Clienti era riuscito a dirottare e alcuni di nuovi ne aveva acquisiti, il lavoro non gli mancava, ma era comunque a malapena sufficiente a permettergli di restituire il debito poco convenzionale contratto per soddisfare la sua iniziativa. A peggiorare le cose intervenne l’acutizzarsi dei suoi acciacchi, per i quali si trovava ora talvolta costretto a tenere chiuso il negozio per esami medici, brevi ricoveri. 


Casa nostra era di quelle tirate su in economia. Affacciava su una strada cieca, asfaltata alla buona e ricca di crepe e avvallamenti che nelle giornate di pioggia si saturavano d’acqua. Fiancheggiata da altre simili, confinava con esse tramite lo scalcinato muretto che la cingeva e che includeva pure l’orticello di guerra di mia madre. Sul retro c’era la giungla e, oltre un fosso coperto dalla sterpaglia, la balza di un argine. Era di struttura assai sommaria, squadrata, povera. Il terraneo consisteva di due locali, uno il doppio dell’altro, separati da un tramezzo. La stanza più piccola era la camera da letto dei miei genitori, mentre quella più grande, che includeva senza soluzione anche la cucina, fungeva da zona giorno e in essa si apriva l’uscio d’ingresso. Una scala in muratura esterna ne costeggiava un lato e per essa si accedeva sopra, alla mia cameretta, la quale fungeva pure da attraversamento per raggiungere il terrazzo. Qui mia madre era solita stendere il bucato più grosso, quando non le era sufficiente il filo tirato tra le due piante di limoni nell’orto. I servizi igienici, che in antico consistevano di una semplice latrina occultata da un drappo, la quale spandeva i suoi effluvi nel basso quando utilizzata, erano stati ricreati in maniera più civile sotto lo scalone esterno, comunicanti col resto per una porticina d’angolo in fondo e con l’esterno per un’apertura squadrata, in alto, ch’era tra lo sfiatatoio e la finestra vera e propria.


Io andavo alle medie. Ero uno studente in genere pigro, poco attento. Dovevo faticare molto a raggiungere la sufficienza in diverse materie. Solo, avevo preso assai per buono il consiglio - riferitomi da mio padre dopo un colloquio a scuola quando ero in prima - del docente di lettere, di leggere di più e non più solo fumetti per innalzare il voto dello scritto.


Mia madre conduceva vita casalinga, ritirata. Usciva, in genere, soltanto a corto raggio per la spesa, saltuariamente per altre incombenze, tipo la parrucchiera, il ginecologo, etc. Ultimamente, a causa delle angustie economiche, si assentava anche per qualche non meglio specificato “servizio” o “mestiere”. Così diceva, e io, prima che appurassi come stavano le cose, trovavo strano che per recarsi a quelle estemporanee occupazioni ella passasse buoni quarti d’ora alla toletta a imbellettarsi e si agghindasse per come le era possibile elegante, quasi dovesse andare a una festa. Le sue giornate nella loro ordinarietà erano comunque scandite dai lavori domestici, dalla cucina, dall’orto. Intervallo di requie era il pisolino pomeridiano, talvolta interrotto dalla visita di qualche comare per il tè. 


Io avevo scoperto di provare un certo piacere a spiare i conversari femminei che prendevano corpo in quelle visite e, se ero di sopra nella mia stanza, non resistevo all’impulso di discendere la scala – che, in concomitanza ai lavori per il bagno nuovo, era stata messa al coperto, mentre prima era completamente esposta, ed era pure stata dabbasso creato, dove prima c’era la vecchia latrina, un accesso diretto al resto della casa, mentre prima a discendere di sopra bisognava rientrare per l’uscio vero e proprio – non resistevo, dicevo, all’impulso di calare fino a una sorta di oblò che a circa metà permetteva di gettare lo sguardo dentro.


Assaporavo un’ebbrezza maggiore quando il loro ciarlare deviava, con tono complice, verso argomenti che riconoscevo essere da donne adulte, sposate, solite a fare cose da donne adulte, sposate. Ed ero arrivato a capire che quelle cose, sia la comare di turno che mia madre stessa, non necessariamente ed esclusivamente le facevano coi rispettivi mariti.


Era bella e, ancorché maritata, non le mancavano corteggiatori. Questa verità in passato già qualche screzio di gelosia di mio padre me l’avevano fatta intendere, ma adesso le sue dirette dichiarazioni alle comari me la confermavano.


Un pomeriggio, pungolata da due passate a trovarla in coppia, accerchiata dalle loro battute, in quei giorni di calura estiva il tè soppiantato dal vermouth tenuto in fresco, dopo il secondo e poi il terzo bicchierino, ella si ritrovò tanto coinvolta in quei racconti da arrivare a confessare apertamente e non solo sue recenti digressioni, ridendoci sopra e fornendo pure resoconti particolareggiati, nonché indizi circa l’identità dei maschi cui era capitata la buona sorte, ma anche che da qualche tempo incontrava uomini sconosciuti per soldi, quindi si prostituiva.


Tale ammissione destò una certa meraviglia anche nelle amiche, non soltanto in me. 


“Veramente? E perché?”. 


“Tenimmo bisogno di soldi. Maritemo s’è riempito di debiti…” puntualizzò, per un momento riesumata l’inflessione napoletana. Mia madre viveva a Roma dal matrimonio, ma era nata e cresciuta a Napoli. Le accadeva di alternare, se non mescolare discorrendo, le due parlate.


“Ma, tu marito lo sa che batti?”.


“E certo che ce ‘o sa. È stato lui a spigneme a fallo”.


Per quanto non mi spiegassi come si conciliasse il meretricio con la vita ritirata che ancora le attribuivo, non giudicai nemmeno le sue ultime ammissioni millanterie da ubriaca. Messo sull’avviso, cominciai a spiarne meglio i movimenti e una mattina mi capitò l’occasione buona. 


Libero da impegni scolastici, avevo l’abitudine di trascorrere la mattinata con compagni con cui facevo banda. Ciondolavamo in giro fino a ora di pranzo. Quella mattina, andando rammentai che avevo dimenticato a casa dei fumetti che avevo intenzione di scambiare. Tornai sui miei passi e non stetti ad avvertire lei, che immaginavo presa con le sue faccende domestiche. Salii direttamente di sopra. Attardandomi a cercare gli albi che tenevo in mente, casualmente gettai lo sguardo fuori dalla finestra e mi avvidi che stava trafficando nell’orto tra i pomodori. Ripresi la ricerca nella cassa che debordava di vecchi numeri di Black Macigno e Capitan Miki e vari altri, quando udii qualcuno salutarla.


“Ciao, Marì. Come stai?”. 


“Ciao… Bene, e tu? Non t’aspettavo. Perché non m’hai telefonato?”.


Sollevai di nuovo lo sguardo e la vidi appressatasi al cancelletto, verso due che la tenevano di mira dalla strada. Uno lo conoscevo di vista. Era il papà di un mio compagno di classe e, qualche volta, l’avevo incrociato in negozio di mio padre. 


“Dovevo da sbrigà ‘na faccenda in zona co st’amico mio… C’hanno dato buca e già che me trovavo ho pensato de passà a trovarte… Te lo presento… Lui è Maurizio… j’ho parlato de te… è curioso de conoscerte…”.


“Sicuro. Tanto piacere. Accomodatevi. Arrivo subbito”.


Li fece entrare e li seguì, lasciati i vecchi anfibi che usava per l’orto sulla soglia. I guanti di gomma già li aveva dismessi e poggiati su un tralcio.


Mi figuravo il seguito, e fu con l’animo in subbuglio che guadagnai il mio posto di osservazione.


Li ritrovai nella penombra del basso, mia madre a piedi nudi e nella sua corta camiciola da lavoro. 


Li fece sedere e scambiò allegre battute con essi mentre approntava la macchinetta del caffè.


Quello con cui era già in confidenza, il papà del mio compagno di classe, mi sovvenne che si chiamava Arturo. L’altro, che indossava pantaloni a mezza coscia e canotta e scarpacce ai piedi, sembrava il più giovane e dall’aspetto si sarebbe detto il tipico uomo di fatica. Aveva un fisico taurino, capigliatura fulva ed esuberante, villoso, brunito, le braccia e il torace tempestati di tatuaggi poco o per niente celati dal folto del pelo. In confronto a lui Arturo pareva un impiegato. Era meno giovane, indossava camicia aperta e pantaloni lunghi, mocassini ai piedi. Pure lui abbronzato, ma quasi glabro. Sul petto gli pendeva una catena d’acciaio, che pareva assai pesante e reggeva una targa. Oltre un vistoso orologio, ai polsi esibiva tutta una collezioni di braccialetti. Risaltava all’anulare una corposa fede nuziale che doveva essere d’oro massiccio.


“Artù, io me devo fa ‘na doccia veloce. Stavo faticanno in giardino e so sporca, sudata. Guardi tu ‘o cafè? Sai dove stanno le tazzine, no? Non è la prima volta che vieni. Fai tu gli onori di casa co l’amico tuo”.


Detto ciò si tolse di dosso la camiciola e pure le mutandine e il reggiseno. Lanciò tutto in lavatrice, senza vergogna alcuna di rimanere completamente esposta nuda allo sguardo dei maschi. Corse e scomparve nel bagno, che si trovava proprio sotto i miei piedi e un istante dopo si udì lo scroscio della doccia.


Arturo ottemperò all’incarico ricevuto. Procurò pure la brocca d’acqua e i bicchieri. Veramente conosceva bene la casa. Restarono seduti, con le tazzine vuote sul tavolo, in attesa.


“Sta già nel tuo giro?” domandò Maurizio.


“Si e no. Ogni tanto je manno quarcuno, ma vole sta a casa, oppure annà lei a casa de quarcuno, nun je va de fallo pe strada, e a me principalmente me servono quelle lo sai…”.


“Allora? Perché je stai tanto appresso?”.


“Innanzitutto perché m’attizza” puntualizzò con una cagnarosa risata. "è ‘na mignotta nata… L’hai vista quant’è bona? E poi stanno scannati. Er marito sta in mano ai cravattari. So sicuro che presto la convinco. È ninfomane. Sta sempre co le cosce aperte. Ha cominciato tardi a batte ma c’ha la vocazione. Je piace fa la zoccola. Nun pianta grane e a me, me serve una come lei…”.


“Quant’anni c’ha?”.


“Trentasette, me pare, trentotto… Comunque sta sotto ai quaranta”.


“Tiene figli?”.


“Uno, un maschio ch’è pure compagno de Mauro, er fijo mio che fa le medie…”.


Intanto lo scroscio della doccia si era interrotto e poco dopo mia madre ricomparve. Adesso aveva gli infradito ai piedi. Strofinava tra le gambe e, con lo stesso asciugamano, terminò poi di frizionarsi i capelli.


“Eccomi… Se c’avete bisogno der bagno fate pure… Io v’aspetto di là… Lo fate insieme… No?”.


“Si, insieme…” confermò Arturo. “Te mettemo ‘n mezzo, Marì” puntualizzò, ridendo.


“Porcone… Lo sai che me piace…” disse lei, ridendo, e si affrettò verso la camera da letto. 


Scomparve oltre la soglia di quella.


Era magnifica, splendida. Venere callipigia. Una venere certo più in carne, la quale, però, non aveva nulla da invidiare alla dea discinta raffigurata nella fotografia della statua omonima che si trovava nell’enciclopedia. Anche se la preferivo come si mostrava fino a qualche tempo prima, con i capelli corvini e mossi che le scendevano fin sotto le spalle, sempre senza un filo di trucco, con il suo buon odore mai soffocato dai profumi che adesso le occupavano in numero il ripiano della toletta.


Adesso faceva la doccia ogni giorno, talvolta anche più di una volta al giorno. Prima, quando c’era ancora la vecchia latrina, vigeva il rito del bagno settimanale, domenicale, nella grande tinozza di legno. Lo facevamo insieme, di mattina, prima di uscire per la messa. Ci divertivamo con i pentoloni di acqua bollente. Lei controllava la temperatura e poi ci immergevamo insieme. Ci strofinavamo a vicenda, scherzavamo. A quel tempo lei non aveva ancora l’abitudine di depilarsi il basso ventre, e le ascelle, ed io ero affascinato dal folto cespuglio, corvino come i capelli, che glielo adornava. Mi dispiaceva quando si avvicinava la fine della cerimonia. Una volta detersi, la aiutavo a vuotare la tinozza dall’acqua sudicia. Poi terminava lei di rassettare tutto. Il rito si interruppe dopo che a me crebbero i peli sul pube e lei si avvide delle mie erezioni. Sdrammatizzava e ci scherzava sopra, ma nel frattempo convinse il marito mettere fretta per i lavori del nuovo bagno. Lavori che erano già iniziati, in realtà, ma i due operai se la prendevano comoda. 


Tutto si era andato concentrando in quelle settimane. L’idea dei lavori ai miei era venuta subito dopo la visita fatta ai parenti che avevamo a Porto D’Anzio, qualche tempo prima. Mio padre aveva approfittato dell’invito per il matrimonio di un mio cugino per chiedere alla sorella e al cognato un soccorso economico urgente. L’iniziativa si rivelò maldestra e sfortunata, tanto da guastare nell’immediato i rapporti. Io assistetti al principio della discussione. Il prosieguo lo origliai dalla stanza dove ero stato poi confinato.


Mia zia negò decisamente di accogliere la richiesta del fratello e, al culmine del battibecco, sentii che gli ribadiva che quando uno ha la moglie bella come la teneva lui, non doveva permettersi di rompere le palle, che doveva al contrario obbligare la moglie a darsi una mossa, a muovere lei il culo.


Quando mi raggiunsero, notai che la più offesa pareva mia madre. Sul treno, mentre tornavamo a Roma, la vidi diverse volte tirare fuori il fazzoletto e fare come per asciugarsi le lacrime, che in realtà non scorrevano punto sul suo volto serio. Papà un po’ si atteggiava a consolarla, un po’ rimaneva assorto nelle sue preoccupazioni. 


Come certi giocatori, i quali reagiscono a una perdita raddoppiando la posta, inopinatamente quel rifiuto bruciante spinse mio padre, anziché giostrare per ristrutturare il vecchio debito, ad accenderne uno nuovo. Questa volta si fece prestare i soldi per quei lavori da fare a casa. Inoltre, da certi bisticci e discussioni tra loro due, capii che egli tentava di convincere la moglie su qualcosa. Dovette riuscirci, perché un bel giorno li scoprii pacificati. Non che fossero passati i guai delle rate da pagare, ma pareva che una qualche soluzione fosse stata trovata.


Adesso le era venuto un lieve doppio mento, una cosa davvero da nulla che però le donava addirittura un che di vezzoso, e portava i capelli corti, mesciati a ciocche irte - da disperata, diceva il marito – che la obbligavano ad essere assidua della più vicina parrucchiera. Si era fissata ultimamente in quest’aspetto.


Arturo e Maurizio trafficarono un poco nel bagno, poi ricomparvero e si diressero verso la camera da letto, sgomitando per celia. Da lì subito risa, battute salaci, momentanei silenzi, rumori scomposti di letto. Poi, improvvisamente, giunse la protesta di mia madre: “Ah! Piano! Attento! AH! AH! AAAAAAH!”. Quindi di nuovo il rumore disordinato ed esclamazioni: roche, laide, eccessive quelle dei maschi; compiaciute quando non lamentose quelle di lei.


Una breve calma precedette la ricomparsa di Maurizio, che si diresse velocemente verso il bagno. Feci in tempo a notare il suo cazzo ritto, sudicio, congestionato. Mia madre lo seguì subito dopo, correndo a piedi nudi, con un braccio reggendosi le tettone ballonzolanti, l’altra mano tra le gambe. Si scambiarono qualche battuta incomprensibile, evidentemente impegnati nei rispettivi lavacri.


Primo a uscire fu lui. Incrociò il compare, che a sua volta rinveniva col cazzo che andava smosciandosi.


“M’ha smerdato, la stronza…”.


“Colpa tua, l’hai voluto fa senza preservativo? Quest’è” replicò Arturo, che a sua volta raggiunse lei ancora in bagno.


Entrambi rivestiti, attesero poi che lei terminasse.


La vidi ricomparire completamente nuda, naturalmente, adesso senza neanche gli infradito, che dovevano essere rimasti in camera, di nuovo con in mano l’asciugamani, che depose sullo schienale di una seggiola. Pareva un po’ stanca.


“Artù, potevi prende tu le birre!” disse a lieve rimprovero.


Trafficò lei col frigorifero e tornò con tre bottiglie.


“Lassa sta i bicchieri, Marì, noi famo a canna”.


Si sedette di fronte a loro, anche lei tracannando direttamente dalla bottiglia.


Arturo si accese una sigaretta, imitato dall’altro.


“A me niente?”.


“Scusame” disse Arturo. Le offrì una sigaretta dal suo pacchetto e gliela accese.


Le prime boccate in silenzio, scotendo a turno nel posacenere, poi Arturo accennò a dire qualcosa.


“Du cose, Marì. Quanno che vié a trovatte Maurizio devi considerallo come se vengo io. Ok?”.


“Si. Si. Ok” lei si affrettò a dire. “Ma nun me pare che je so propio piaciuta…” soggiunse rivolta all’altro. 


“Si che je sei piaciuta. Maurizio c’ha bisogno de svuotà le palle almeno una volta al giorno, co la prima che capita. Tu sei fatta apposta per lui” intervenne di nuovo Arturo.


“Ma… Tutti i giorni?>>.


“Capisceme, Marì. Nun sei stupida… Ho detto che a lui je serve scaricasse di continuo, nun ho detto che te lo trovi tutti i giorni qua…”.


Come a confermare che in realtà gli piaceva, Maurizio strascicò sul pavimento la seggiola per avvicinarsi e allungò una mano ad accarezzare la coscia di lei sollevata sull’altra. 


Mia madre apprezzò il gesto e, con tono suadente di nuovo gli si rivolse.


“Vieni pure quando vuoi, di mattina che so più libera, ma avvertimi per telefono. Magari c’ho il marchese…” rise a corredo di quest’ultima affermazione. “Inoltre, mi faccio un clisterino. Me lo faccio sempre quando so che viene a trovarmi uno che gli piace farlo da dietro…”.


“Si, si, nun te preoccupà” la rassicurò Maurizio. Adesso si era alzato e manovrò per baciarle le labbra. Poi si risiedette. “Arturo me fa passà per cafone, ma io so un signore, pure se nun se vede… Tieni presente che bazzico tutta n’artra zona… Da ste parti ce vengo poche volte, ma quelle volte te vengo a trovà…”.


“Si, si, ma di mattina è meglio, e avvertimi prima. Il numero te lo da Arturo”.


“Marì, poi ce sta la cosa più importante per me. Quella che sai. Me dici qualcosa?”.


“Hai parlato co’ mi marito?”.


“Stamo a posto! Lui me dice de parlanne co te. Che famo?”.


“Senti. C’ho pensato. In campagna, di notte, è ‘na cosa che nun ho mai fatto. Quasi me fa paura. Potremmo fa che ce provo… Qualche settimana… Vedo come va… Sempre se mi marito è d’accordo…”.


“Sicuro. E brava! Nun devi avé paura. Penso io a tutto. Tieni a me per protettore, mica a pinco pallo. Quanno voi comincià?”.


“Prossima settimana?”.


Così in seguito, fin dalla domenica successiva e fino all’autunno inoltrato, mentre io e papà terminavamo di cenare, lei avendo spiluccato qualcosa intanto che preparava per noi, una macchina si fermava puntuale davanti casa nostra ad attenderla. Nessuno ne discendeva, ma mia madre terminava veloce di agghindarsi in camera e poi, lanciandoci un saluto frettoloso, se mi andava bene un bacio sulla fronte, correva a infilarcisi per la portiera già aperta.


Mi aveva detto che per qualche tempo andava ad assistere per la notte un’anziana allettata. Figurarsi! Ci andava in corto e scollacciata, truccata da donnaccia, con pendagli vari di bigiotteria da quattro soldi, in mano reggendo una borsetta che avrei scoperto piena di preservativi e salviette e almeno due tubetti di vasellina.


Si affrettava verso la macchina a piedi nudi, con le mani reggendo pure le scarpe coi tacchi alti, che principiava a calzare montando sopra.


Durò fino alla fine di ottobre, più o meno fino ai Morti.


Rientrava a notte fonda. Spesso mi svegliavo, probabilmente per empatia, proprio riconoscendo il rumore del motore della Giulietta che la riportava a casa.


 


 


 


 


 


  


  


 


   


   


 


 


 
  
  
 
   
   
 


 


   


 

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