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La vita mi ha insegnato una dura lezione: condividere il DNA non implica appartenere alla stessa famiglia; è anche vero però che per essere della stessa famiglia non serve avere gli stessi geni.


Mi chiamo Sara e sono nata nel 1997. Sono quella “ragazza qualsiasi” che si nasconde tra la folla che al mattino riempie le strade; sono il volto insipido che difficilmente resta impresso nella mente; sono la prima persona di cui dimentichi il nome dopo avermi stretto la mano e avermi detto “Piacere di conoscerti!”.
Potrei sbrodolarvi addosso tante informazioni tecniche su di me: colore dei capelli, la sfumatura imprigionata nei miei occhi quando il sole li colpisce al mattino, altezza o carnagione, corporatura e persino la taglia del reggiseno che indosso. A cosa servirebbe?


Mi avete già immaginata, nella vostra mente: per alcuni ho le fattezze della vostra ex, per altri impersono una cotta segreta, quel desiderio mai tramutato in passione.
Metà di voi mi ha dato una quarta abbondante di seno (o addirittura una taglia maggiore, in tal caso sappiate che mi avete anche affibbiato una schiena curva per il troppo peso), mentre ciò che avanza di quella percentuale si divide tra una misura neutra e un “Se ti mettessi una tovaglia addosso potrei dire che ho apparecchiato la tavola!” (con un conseguente risparmio nell’acquisto dei reggiseni).
Potrei essere bionda, mora o rossa a seconda delle vostre fantasie più recondite, e nulla di ciò che mi verrebbe in mente di dire vi distoglierebbe dall'immagine che vi siete fatti di me. Potrei avere un fisico snello con muscoli in vista, oppure essere atletica ma non troppo, un metro e cinquanta e un tappo di bottiglia oppure alta al punto da poter giocare a basket. Potrei avere i fianchi abbondanti, la cellulite o essere tonica con una bassa massa grassa: sono io e non sono io. Un grande del ‘900 disse che siamo Uno, Nessuno e Centomila; sono nei vostri occhi l’immagine che vi siete dati di me e al contempo nessuna di queste.


Sono nata in un piccolo paesino del nord Italia. Figlia unica, probabilmente un po’ viziata, avrei potuto avere tutto ciò che desideravo. Uso il condizionale perché, svoltato l’angolo, si nascondeva nel buio la parola che qualsiasi o non vorrebbe mai sentire pronunciare ai genitori: divorzio.
I miei si separarono quando avevo cinque anni; l’amore, quasi sempre, ha una data di scadenza.
Mia madre decise quindi che dovevamo trasferirci nella grande città che dava il nome alla nostra provincia, nella speranza di trovare un lavoro che ci permettesse di non dipendere da mio padre. Un’altra forte scossa di assestamento per il mio piccolo mondo, già instabile per quanto successo.


Trovammo un modesto appartamento in un quartiere in cui gli affitti erano bassi e ne capii con il tempo la ragione: non si trattava di una zona ricca e benestante della città. Non c’erano giardini verdi e luminosi o persone in giacca e cravatta intente nelle loro telefonate di lavoro. I marciapiedi non custodivano né Ferrari né Lamborghini (ma nemmeno le più "semplici" Mercedes o BMW).
Il mio quartiere era, sostanzialmente, una piccola comunità dell’est asiatico: ci abitavano cinesi e giapponesi, indiani, filippini, bengalesi e pachistani. Quel pot-pourri di lingue e colori e tradizioni, quella magnifica eterogeneità di culture ed esperienze, invece di valorizzare ed arricchire il quartiere, com’è giusto che sia, l’aveva deprezzato. E, nei miei occhi di adolescente che iniziava a capire come andava il mondo, tutta questa ingiustizia faceva ribollire il sangue.


Non è però dei miei interessi sociali e antropologici che voglio parlarvi.


La vita in città, quando ci trasferimmo, non fu per niente facile. In mezzo a tanto buio, però, di lì a poco avremmo incontrato due piccole stelle.
C’è un piccolo parco accanto al mio vecchio appartamento: pochissime panchine (di cui la metà malferme sulle proprie gambe), un canestro senza la catenella e qualche albero a coronare il tutto. Io e mia madre eravamo solite passarci un po’ di tempo, il pomeriggio, quando la temperatura lo permetteva. A volte ci sedevamo su una delle panchine libere, se ce n’erano, e mi leggeva un libro di favole. Altre volte giocavamo a lanciarci la palla. Era il nostro momento speciale, qualcosa che condividevamo solo io e lei. Uno di quei pomeriggi però, si avvicinò a noi un signore giapponese (poteva avere l’età di mia mamma) che teneva per mano una timida e impacciata. Chiese a mia madre se le andasse bene che io e sua figlia giocassimo un po' a palla insieme e così fu.


Con Nami - quasi mia coetanea, solo un anno in più pesava sulle mie spalle rispetto al carico che portava lei - fu amicizia a prima vista.
Ricordo che ogni pomeriggio, quando mia madre tornava dal turno di lavoro, chiedevo con insistenza di andare al parco per incontrare la mia migliore amica (l’unica amica che hai diventa per forza di cose la tua migliore amica). Quell’appuntamento giornaliero divenne un po’ la roccia intorno alla quale iniziammo a ricostruire le nostre vite. Né io (com’ebbi modo di capire una volta più grande), né mia madre eravamo più sole. Ciò di cui non mi stavo accorgendo è che, di pari passo all’amicizia tra me e Nami, anche qualcos’altro stava crescendo tra mia mamma e il signor Maeda.


Dopo due anni, gli incontri al parco divennero inviti a pranzo la domenica. Dopo qualche avvicendarsi di stagione, gli inviti a pranzo mutarono in “Vi andrebbe di passare il pomeriggio da noi e restare poi a cena?”.
Io e Nami ci vedevamo quasi ogni giorno. Crescevamo insieme, incontravamo e lasciavamo per strada le prime cotte per gli attori famosi o i cantanti delle boyband, ci disperavamo per i compiti che non riuscivamo a completare mentre l’uno o l’altro genitore ci facevamo da babysitter. Discutevamo di favole e di sogni, di desideri, di principi e principesse, di “Io da grande farò la ballerina” e “Nami, fare la ballerina fa schifo, io voglio guidare il camion!” (sì, ammetto che avevo sogni modesti all’epoca).


Fu all’incirca intorno ai miei dieci anni che mamma e Masafumi (che da tempo aveva insistito perché non lo chiamassi più “signor Maeda”) ci dissero che si erano innamorati.
Io ne fui contentissima: mi ero abituata alla loro presenza costante nelle nostre vite e, dopo tutto quello che avevamo passato (soprattutto dopo il vuoto lasciato da un padre assente la cui unica presenza era di fatto data dal mucchio di regali di compleanno che accumulavo senza interesse in cantina), quella notizia mi riempì di gioia. Nami, d’altro canto gelosissima di suo padre, non la prese benissimo.
Ci volle un po’ per convincerla della bellezza di quello che era successo; come biasimarla, d’altronde? Da quanto mi fu rivelato durante l’adolescenza venni a sapere che la madre li aveva abbandonati pochi anni dopo averla data alla luce; Masafumi, incapace di credere a quanto successo, dopo i primi vani tentativi non s’era più dato molto da fare per cercare di rintracciarla. Era più che ovvio che Nami avesse paura di avere una “nuova mamma” nella sua vita. Non so nemmeno immaginare a quali domande della figlia dovette rispondere Masafumi, né il modo in cui giustificò o meno l’operato della madre.


L’anno seguente i nostri genitori decisero che sarebbe stato economicamente più conveniente vivere insieme. A dodici anni, la mia migliore amica divenne mia sorella.
Ci trasferimmo nell’appartamento di Nami perché era un po’ più largo del nostro monolocale ma, tuttavia, con una sola stanza per noi ragazze.
Sembra quasi scontato dire che, dopo un breve periodo di quasi freddezza, Nami iniziò nuovamente a “ricordarsi” chi fossi. Superammo i momenti di difficoltà e, com’era prevedibile, ci ritrovammo. Da quel momento in poi, giorno dopo giorno, iniziai veramente a sentire di far parte nuovamente di una famiglia: io e Nami non ci consideravamo più semplici amiche che condividevano i pomeriggi, le cotte o i compiti. Le nostre menti ancora giovani stavano incubando l’idea che vi ho esposto poco fa: “per essere della stessa famiglia non serve avere gli stessi geni”.


Spero mi perdonerete se mi sono dilungata troppo sull’inizio della mia vita e, al contrario, se adesso salto a piè pari gli anni dell’adolescenza. Ciò che vi ho raccontato era fondamentale per comprendere la mia storia e quanto accadde gli anni seguenti non è di particolar rilievo. Noi quattro diventammo una famiglia a tutti gli effetti. Questa è l’unica cosa che conta.


La svolta accadde in tempi più recenti: due anni fa, a ventiquattro anni suonati io e ventitré Nami.


Entrambe studentesse universitarie, da pochi mesi io e lei ci eravamo trasferite in una casa tutta nostra. Il desiderio di indipendenza dai nostri genitori si era fatto forte e, con qualche sacrificio ulteriore, mamma e Masafumi ci avevano accordato l’affitto di una piccola abitazione un po’ più in centro città rispetto all'estrema periferia del nostro appartamento. Non che la situazione fosse comunque variata di molto: cambiammo un bilocale per un altro, avremmo continuato a condividere l’unica camera da letto disponibile (dove, quantomeno, la proprietaria di casa ci aveva accordato di sostituire il letto matrimoniale con due letti singoli).
Quella “fatidica sera di luglio”, passata da poco la mezzanotte, eravamo di ritorno da una piccola festa con pochi intimi a casa di una nostra amica.
Avevamo bevuto entrambe un po’ (sì, forse io un po’ più di Nami) e ricordo vagamente che iniziai a blaterare a ruota libera, come sempre faccio quando sono un po’ ubriaca, sulle questioni “pratiche” del mio orientamento sessuale. Potrei riassumere in:


“… parole che non ricordo… sproloqui vari… Elisa era una stragnocca con quel vestito stasera, ma anche Luca non scherzava. Hai visto quando si è tolto la camicia perché se l’era macchiata? A volte invidio tutto il resto del mondo che ha deciso di parteggiare per una sponda o per l’altra. Non hai confusione! O ti piace il pene, o ti piace la vagina - potrei non aver usato questi esatti termini - . Non hai confusione! No, invece io dovevo per forza farmi piacere…


Non so se mi fermò proprio in quel punto mentre stavo esprimendo la mia invidia per le persone non bisessuali e la loro mancanza di confusione, comunque mi interruppe e disse solo due parole: “Sono gay!”.
Io la guardai in faccia e, per quanto i fumi dell’alcool me lo concessero, capii che le era costato parecchio dirmi ciò che io avevo comunque intuito già da tempo. Le diedi un piccolo scappellotto in testa come tantissime volte in passato avevo fatto e le dissi “Perché ci hai messo così tanto a dirmelo?”.
Non le diedi nemmeno il tempo di rispondere, l’abbracciai stretta. Su certe cose eravamo quasi telepatiche e so che, in quel preciso momento, tutto ciò di cui aveva bisogno era un abbraccio da parte mia e la rassicurazione che niente sarebbe cambiato.


La abbracciai forte per diversi secondi, sentendo quasi le lacrime rigare il suo volto e appiccicarsi al mio (cosa che effettivamente vidi quando mi separai da lei). Le diedi un fazzoletto e le dissi che era una deficiente. Per quel che mi riguardava, la notizia per me equivaleva a un “Mi piace quel libro piuttosto che quell’altro”. Non mi importava se le piacesse il pene, la vagina o l’ascella (sì, dissi proprio “l’ascella”, cosa che la fece alquanto ridere, per fortuna): era mia sorella, e qualunque scelta avesse fatto, per me andava bene.


Poi successe.


Le diedi un bacio a stampo sulle labbra. Era già capitata, in passato, una cosa del genere. Scherzi fra sorelle, gesti d’affetto nei momenti di difficoltà, era solo questo. Lei sorrise, io sorrisi, ma dentro di me intuii che quel bacio a stampo aveva una nota nascosta che non mi era familiare. Diedi la colpa agli effetti dell’alcool e non ci feci caso.


Rientrammo a casa; pigiama, dentifricio e spazzolino e a nanna.
Non riuscii però a prendere sonno, troppi pensieri mandavano a quel paese Morfeo e lui, indispettito, aveva deciso di lasciar perdere.
Decisi allora di ricorrere alle maniere forti per stancarmi.


Infilai una mano sotto i pantaloni del pigiama, dentro gli slip, e tastai: di rimando, la mia Ornella mi disse che il tempo lì sotto era umido ed erano attese enormi precipitazioni. Non mi ci volle molto per rendermi conto che le “enormi precipitazioni” erano più vicine di quanto pensassi.
Sentii il clitoride voglioso sotto le mie dita e iniziai ad accontentare i suoi desideri, schiava di pensieri morbosi senza forma che si amalgamavano con i resti di una sbronza e un bacio che forse non doveva essere dato, ma che ormai aveva lasciato un’orma nella mia mente. Le dita si misero in coda per entrare nell’ufficio di Ornella: il primo dito entrò subito, il secondo seguì poco dopo e arrivò anche il terzo prima che la campanella suonasse l’orario di chiusura e non ne ammettesse altri (com’avrei potuto infilare il quarto, non saprei).
Volevo fare piano per non farmi sentire da Nami, volevo correre per seguire l’impeto del momento, quindi scelsi un mix tra i due. Infilai il lenzuolo in bocca per impedire a qualsiasi gemito o vocalizzo insolito di interrompere la continuità dei sogni su cui, ne ero certa, Nami stesse ispezionando la qualità.
Decisi di tirar fuori le dita, troppo frementi, e assecondare nuovamente un massaggio. Sentivo i capelli di Ornella attorcigliarsi tra di loro mentre martellavo un clitoride ormai prossimo a urlarmi contro “Sono stanco, sconquassato, ma continua, per favore!”
Venni. Ancora e ancora. E con l’alzarsi della marea nei miei slip, arrivò anche Morfeo che accettò quasi subito di darmi un passaggio sulla sua barca, per cavalcare insieme le onde che il mio corpo aveva generato.



-- continua

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Tag: Incesto