Ho provato a resisterle, ma non ce l’ho fatta.
Mi assale in continuazione; qualcuno la definirebbe un incubo, una malattia.
In altri tempi credo proprio che una severa ripassata dall’inquisizione mi sarebbe toccata sicuro.
Farebbe quasi sorridere quando inizia a solleticarmi, ma, al solo immaginare quel che proverebbe chi capisse cosa mi si sta muovendo dentro e fin dove potrei spingermi, il desiderio aumenta velocemente e la tentazione di lasciarmi andare ad un ennesimo spettacolo diventa irrefrenabile.
La voglia di eccitarmi facendo eccitare. Mettendomi in mostra, umiliandomi, facendomi desiderare da chiunque, dai bei ragazzotti con magari la fidanzatina a braccetto alle timide ragazze con un uomo a fianco solo per non ammettere al prossimo la propria vera natura, dai mariti che si credono fedeli a quelli che sanno benissimo di non esserlo, dagli anziani che a malapena se la ricordano ai ragazzini che ancora se la sognano.
E così, mentre cammino sotto i portici, infilo le mani nelle tasche dei jeans a vita bassa e li abbasso ulteriormente. O mi slaccio un altro bottone della camicetta e lascio che la curva dei seni si scopra. O accavallo le gambe, lasciando che la gonna salga fino ai fianchi, e continuando a fingere di leggere e simulando indifferenza assaporo in silenzio il piacere di sentirmi addosso le occhiate di chi passa e non può non notarmi, mentre un fuoco languido che ben conosco mi brucia dentro. Svergognata.
Quando vedete una donna con due splendide gambe lasciate scoperte da una minigonna ridotta al minimo sindacale, magari slanciate da quella suadente tortura che sono i tacchi alti, non abbiate timore a rimirarla e ad apprezzare apertamente. Le piace, potete credermi; le piace da morire. Altrimenti indosserebbe qualcosa di meno sconcio.
Questo pensavo qualche settimana fa, guardando un gruppetto di liceali che sghignazzavano e si canzonavano in mezzo alla piazza scherzando ilari tra loro. Un morettino magro come un sedano doveva avere raccolto tra le mani un qualche tipo di insettino schifoso. Rincorreva una compagna, molto carina, che scappava fingendo paura e strillava divertita. Saltellava qua e là e la sua gonnellina corta svolazzava leggera sollevandosi allegramente. I glutei perfetti come solo la gioventù, o un ottimo chirurgo plastico, può concedere e le candide mutandine bianche così bellamente esposte attiravano gli sguardi degli uomini presenti.
Cinque nordafricani la ammiravano senza preoccuparsi di nascondere la cosa. Un paio di pensionati bofonchiavano scuse per continuare a guardarla. Anche due incravattati (ambigua razza) della mia stessa società se la ridevano dandosi di gomito e commentando con parole che non arrivavo a udire, ma facili da indovinare.
Un poliziotto la teneva d’occhio dal finestrino della volante.
Tutti avevano l’espressione primordiale del maschio alfa. L’espressione di chi l’avrebbe volentieri sbattuta al muro, quella cerbiatta giuliva, e inculata fino a riempirle di sperma l’intestino.
Io maledicevo, invidiosa, la mia gonna lunga.
Guardavo quel morettino che con la scusa di spaventarla le stringeva i fianchi nudi e sfuggenti e capivo che avrebbe dato probabilmente via moto, fumetti, collezione di video porno e qualsiasi altra cosa a cui tenesse in cambio di un reciproco rapporto orale con quella sua splendida compagna.
Ed ero gelosa.
Avrei voluto essere io quella da cui tutti questi signori avrebbero voluto farsi succhiare le palle, avrebbero voluto sculacciare, spalancare le gambe e scopare per ore.
Mi sono avvicinata alla macchina del poliziotto e gli ho chiesto se poteva indicarmi via Indipendenza. “Ammanettami, ti prego. Ammanettami e perquisiscimi...” dicevo dentro di me nella remotissima eventualità che sapesse leggere il pensiero.
“Di là.” Mi ha sorriso, puntando l’indice alla mia destra, e si è subito voltato nuovamente verso la cerbiatta. Stronzo.
Quella sera, per andare a fare il mio consueto giro coi roller, mi sono lasciata sopraffare dai miei impulsi e mi sono messa addosso soltanto una canottierina finissima e un paio di shorts di quando ero bambina. Ora mi stanno talmente attillati che si vede addirittura quanto mi sono rasata il pube. Il tessuto prende la forma delle mie labbra e ci passa dentro, aderendo ad ogni mia curva, non nascondendo nulla.
Così, mentre il tramonto rendeva irreale l’atmosfera ramata del parco, io, pattinando veloce sulla striscia di asfalto che ne segue il perimetro, tenevo d’occhio le ombre allungate di chi mi incrociava e vedendole girare su loro stesse per continuare ad osservarmi, per non perdere neanche un secondo o un centimetro di questo omaggio che offrivo, sentivo il languore crescere sempre di più.
Mi sono fermata a fare stretching di fronte ad un gruppo di maschi, palesemente beta, la cui unica occupazione sembrava essere aspettare che passassi loro davanti ad ogni mio giro per divorarmi con gli occhi. Ho letto sulle loro facce l’incredulità nei confronti della buona sorte quando hanno realizzato che questa volta non sarei sfrecciata via veloce.
Con noncuranza mi sono girata dando loro le spalle e ho cominciato a flettermi in avanti, lasciando che il mio didietro si mostrasse in bella evidenza e aprisse loro nuove porte della percezione...
Poi mi sono rivolta nella loro direzione e ho stirato le braccia sopra la testa sporgendo il seno in avanti, ben sapendo che i miei capezzoli erano malamente celati dal leggerissimo cotone bagnato di sudore.
Volevo essere tutta per loro, la scena da raccontare agli amici, l’immagine con cui masturbarsi sotto le coperte. Se in quel momento uno di loro si fosse avvicinato con l’intento di palparmi, baciarmi, trascinarmi dietro la siepe e possedermi, fischiare per farsi dare il cambio e alla fine lasciarmi nuda sull’erba umiliata e sporca del loro seme, io ci sarei stata.
E invece se ne sono andati.
Lasciandomi lì con la mia eccitazione a tormentarmi.
Forse sono davvero troppo brava a celarla, come effettivamente mi è stato più volte rinfacciato.
A quel punto avrei voluto tornare a casa tra le braccia della mia Alina e lasciare che le sue mani e la sua bocca che così bene mi conoscono facessero deflagrare tutta quella mia bramosia in un urlo di piacere liberatorio e appagante, come di solito riesce a fare. Ma anche lei era andata via, dai suoi, per un paio di settimane.
Ho valutato il sesso telefonico, ma, a parte la considerazione di trovarlo abbastanza ridicolo, non mi sembrava assolutamente il caso visto che avevamo discusso piuttosto fortemente proprio prima che partisse.
Mi aveva confessato, con tutta la sua dolcezza e la sua cautela, che fa abitualmente pompini a quel porco mafioso di ristoratore che le dà una miseria - a lei che parla tre lingue e la sera legge Joyce invece di obnubilarsi i pensieri davanti all’ennesimo penoso reality - per un cazzo di lavoro da cameriera con orari da tortura del sonno e che non perde occasione di allungare le mani ogni volta che le passa accanto.
“Quei soldi mi servono” mi aveva detto come scusandosi.
E io in quel momento l’avrei massacrata di sberle.
Ora invece, immaginandomi il suo bel viso contro la patta unta di quella merda d’uomo e le sue morbide labbra che bacerei giorno e notte violate dal suo membro sicuramente brutto e sporco, mi eccitavo incredibilmente.
È stato un ragazzo che mi ha dato una rapida occhiata per poi tornare a fissare il touchscreen del suo cellulare evidentemente ben più interessante a farmi venire in mente cosa potesse consolarmi.
Le mail.
Ho pattinato fin dentro al mio palazzo, dentro l’ascensore e nell’appartamento. Ho aperto il portatile e mi sono tolta i roller mentre si avviava e i programmi partivano automaticamente.
Le ho rilette tutte, riempiendomi il cuore con i complimenti più o meno eleganti, appagata dalle parole gentili e da quelle ben più volgari.
Tra le ultime c’era quella di tal Giorgio, che mi consigliava l’inserimento anale di una carota e successivamente un rapporto orale con uno sconosciuto. Ho sorvolato sulla seconda parte, che come ho già altrove confidato mi ha già visto protagonista in passato ed al momento non ho assolutamente voglia né modo di replicare, e sono andata davanti al frigo. L’ho aperto e illuminata dalla sua luce interna mi sono sfilata gli shorts. Ne ho scelta una della giusta taglia, l’ho lavata e con attenzione me la sono inserita dove Giorgio esortava.
Camminando verso il PC appoggiato sul tavolo della sala la sentivo muoversi dentro e massaggiarmi i muscoli sfinterici. Ho sorriso.
Mi sono piegata sul PC senza sedermi, finalmente decisa a rispondere ai tanti “ammiratori”, ringraziando sincera ognuno di loro e, sentendomi in difetto per il loro interesse, chiedendo a ciascuno di scrivermi cosa vorrebbe ch’io facessi, quale situazione vorrebbe vivessi e poi raccontassi (perché “bisogna vivere, per poter scrivere”). Vi ho chiesto insomma di spingermi a fare cose che mai mi verrebbe in mente di fare.
E poi ho aspettato.
Non molto.
(continua...)
Per chi non sapesse aspettare: vivereperraccontare.wordpress.com