Dal diario di Silvia: ottobre 2000
Cosa ci faccio dentro questo ristorante accanto a un cameriere che mi sta servendo un filetto di cernia? Di fronte c’è un uomo che appena conosco, che un’amica comune ci ha presentati da appena tre giorni. Mi guarda e sorride come se già ci fosse un’intesa, come se l’avermi strappato un invito gli dia l’assenso di scrutarmi nel fondo degli occhi.
Cosa ci faccio davvero dentro questo locale per coppie? Seduta sopra questa sedia di stoffa salmone, che avrà ospitato mogli senza mutande e amanti scomparse dopo esser finite in un letto d’albergo? Davanti a queste parole sussurrate con un filo di fiato, che hanno lo stesso gusto di un antipasto all’aceto, cerco di non pensare a quello che tra poco m’aspetta, a quello che nell’aria tutti e due respiriamo. Tra poco mi parlerà di sua moglie, che se non fosse per sua figlia chissà in quale volo già l'avrebbe mandata a planare, e invece mi è qui di fronte che muove la bocca, le mani da amante perfetto, che delicato stringe un calice pieno come se fosse una tetta.
Tra qualche minuto naufragherà nei miei occhi e ci vedrà acqua marina, fiumi di vita che attraversano deserti. Continuerà imperterrito a elogiarmi, fino a farmi domandare per quale diavolo di motivo stasera ho preferito questa finta commedia.
Eppure da tre giorni aspettavo solo che mi chiamasse, avevo già deciso il vestito, la gonna senza dare nell’occhio, il posto lungo le scale dove avrei tolto il sottogonna, slacciato un bottone della camicetta di seta, per essere all’altezza del ruolo che questa sera non mi facesse pentire di non aver osato abbastanza. Perché altre volte è successo e Stefania mi dice che non c’è altra cura di uno sguardo che penetra, che questa noia nella pelle e nel cuore si abbatte soltanto col desiderio di un uomo. Stefania è mia amica da sempre, ci conosciamo alla perfezione. Anche lei sa che a quest’ora mio marito avrà già acceso il pc, ascolterà la televisione e mi aspetterà sveglio come ogni volta che esco. M’immagina in un cinema o a una riunione scolastica con la mia amica Stefania, a parlare di programmi o di cose di donne, mentre io sono qui a farmi guardare il merletto del reggiseno che esce, che vezzoso traspare dentro questa serata che ancora non ha avuto un inizio. Lui mi fissa l’incavo facendo finta di guardare nel vuoto, ma lo vedo che è gonfio di voglia, almeno di sapere se i miei capezzoli sono grandi, se sono chiari come un ciuccio coperto di zucchero a velo. Eccolo, ora poggia la mano sul tavolo sperando di incontrare la mia, tutto in maniera fortuita, lasciando al caso il contatto di pelle che non compromette. Ma io perché sono uscita? Perché dovrei stringere questa mano che chiede? Perché dovrei guardarlo negli occhi e confondere intimità che gelosa riparo, che gelosa trattengo, perché i dubbi d’essere nel posto sbagliato sono ancora più vivi, di qualsiasi disillusione che sento ogni giorno nel cuore. Lo lascio con la mano in attesa e m’alzo per andare in bagno. Ecco, ora mi starà osservando da dietro, di fianco, sicura che apprezzerà questo spacco che lacera in due la gonna e i suoi occhi che virano lo sguardo dal piatto. Di sicuro avrà notato il ricamo che fa bordo alla mia calza, che fino all’ultimo in dubbio mi sembrava inadatta, ma davanti allo specchio volevo essere bella, femmina come piace a chi ci va a caccia, amante che cura il dettaglio, contro l’altra me stessa che passa le sere in tuta o in pigiama. Dentro questo bagno minuscolo mi domando quale sia il punto, il limite dove voglia arrivare, ma poi non rispondo e mi rifaccio il trucco, rimarco il contorno di labbra per farle apparire più grandi e più gonfie, per dare una riposta netta ai miei dubbi, alla mia coscienza che per scaricarsi ogni peso vorrebbe addirittura chiamare casa e dirgli di non preoccuparsi, che Stefania è vicino e ci stiamo divertendo. Ma io non mi sto divertendo! E poi cosa gli dico? Che un uomo che lui non conosce mi aspetta voglioso dentro una saletta appartata che sa di segreto e proibito, che non ci vuole poi molto a pensare che siamo due amanti, che lui è gonfio di voglia perché ha visto uno spicchio di calza, che io mi spalmo rossetto dandogli un segno, un limite dove può inoltrarsi, dove sono disponibile a cedere senza far la figura d’una puttana qualunque. Torno al tavolo e quella mano non ha cambiato di posto, è più vogliosa e più rossa, al cospetto di chi imprudente s’è rifatta il trucco tra il pesce e la frutta. Ecco tra poco mi dirà che m’ha sempre sognata, che da tre giorni non dorme, mentre la sua mano aperta sta gridando in attesa, che aspetta almeno il mio fiato per stringersi a pugno. Devo decidere, poggio il bicchiere vicino alla sua mano senza toccarla, finché i nostri indici si sfiorano, i nostri medi si toccano ed i pollici si incatenano. Non riesco a guardarlo, forse già mi pensa nuda nel letto, in qualche albergo qui vicino che di sicuro conosce. Forse mi pensa vestita, distesa che aspetto, o in piedi con la gonna arrotolata ai fianchi, sbattuta contro uno zoccolo di muro che sarà la sua passione, la soddisfazione del suo ardore che ora sento attraverso un dito, una mano che non mi lascerà per tutta la cena. Mi parla della sua villa in mezzo a un parco d’ ulivi, dei suoi tre pastori tedeschi e della barca che andrà a vedere al salone nautico. Ripenso a Stefania: “Almeno non noiosi, se d’altro non potremo mai sperare!” La sua mano trema, avverto un fremito nato distante, è evidente che stia pensando ad altro, a come spartire intimità e convinzione che una donna a quest’ora sia solo da letto e questo spacco che vede non può che finire in una voglia che s’apre, che aspetta. Forse sta pensando che l’ha presa troppo lontana, che magari avrebbe potuto saltare il ristorante, la cena e queste parole smielate che ritardano il momento preciso d’allungare la mano. Fanno perdere tempo alla voglia che autonoma s’ingrossa nella certezza che una donna come me non scopi da tempo e non vede l’ora che ci portino il conto. Le sue dita mi bucano la pelle, le sento, vorrebbero stare da qualche altra parte, sfiorare il bianco del mio merletto, il nero del mio nylon che ora sfacciato si mostra. Lo sento, ora davvero manca niente, toccare di gusto una donna sposata, toccarle lentamente il calore tra le gambe che s’accavallano poco convinte, mentre guarda gli occhi che si fanno più bianchi, guarda l’indecenza di darsi vedendo man mano il contegno che cala, l’aria da signora per bene che rimane un ricordo come l’antipasto d’aceto o i discorsi per dire sui cani. Lo vedo che pensa, che si domanda di nuovo quando ho fatto l’amore l’ultima volta. E come, e dove l’ho fatto. Dentro un letto di casa o su un tavolo di cucina appena sparecchiato senza nemmeno spogliarmi completamente. Se rimango fredda in attesa o scollego il cervello, se mi piace annusare il piacere che cola e nel mentre mi faccio sussurrare “cagna bagnata, sei la mia vacca”. Eccola, quella mano! Nessuna ragione può più trattenerla, perché il desiderio diventa una sfida e sbaraglia la stoffa come se fosse un velo gonfiato dal vento. Magari sta pensano se offro me stessa ovunque l’aggrada, la parte dove un uomo impazzisce e, chissà per quale ragione, la desidera per sentirsi più maschio. Eccola che risale la gamba, premurosa si ferma e poi riparte decisa, stringendo la pelle per sentirla più soda, per misurare il tempo che manchi alla meta che non può più essere distante. Mi domando perché ora non lo fermi, perché lo lascio pensare che stia accarezzando una preda dove s’accomodano uomini diversi perché è andato a genio il contorno. Il cameriere ci guarda e io mi sento a disagio. Perché poi mai? In fin dei conti era quello che volevo, farmi sbrindellare mutande da una mano infuocata, farmi cercare nel punto dove da tempo accetto altri uomini, come se qui, in questo momento, stessi proseguendo il mio sogno ricorrente. Sorrido pensando che ne sono ancora capace, mi chiedo quale molla l’abbia fatto scattare, quale dettaglio gli abbia permesso di non avere timore, lo spacco della gonna o il reggiseno imbottito, le mie labbra più gonfie o semplicemente che sono sposata. Questa mano che sento non ha morale né legge, eccola la sento, ormai davvero manca nulla, con l’altra parla e mi versa del vino, con gli occhi m’ascolta perché io continuo a parlare di altre cose, dei miei tanti impegni. Cosa ci faccio con questo sudore straniero tra le mie cosce? Lui insiste e mi fa voglia, per un attimo desiste e spero che non fugga, per un attimo si ferma e spero che non torni all’assalto di queste flebili resistenze che lui neanche avverte. Perché sono mie, sono dentro, sono tra l’anima e la pelle, sono tra la ragione e mio marito che ora avrà spento il computer, che ora mi starà pensando dentro una leggera preoccupazione che s’ingrandirà con le ore. Sapesse invece cosa c’è tra le mie gambe, una mano d’un altro, ossessiva e padrona, che il cameriere non vede ma immagina già, che mi scava e mi ripulisce da questo velo di carne che nel tempo si è fatto imene. Lui insiste e continua a entrare, ha scelto il dito medio, dritto. Risale la corrente per il gusto di scovare la causa di come una femmina in questo momento spalanchi le gambe e gli renda facile il percorso, di come una femmina continui a parlare e si faccia cercare nei buchi l’essenza, davanti a un cameriere che in piedi ci guarda e a questo punto non può non essersi accorto di cosa fibrilli sotto la tavola e che l’antipasto sotto la gonna stia diventando primo e secondo, e poi frutta e poi dolce, e poi ancora vino che sento nella testa tra l’incavo del mio seno, in ogni dove che fa buco e fa da culla, che fa d’ansia e fa da letto che stupida stasera ho pensato di finirci. A Stefania racconterò che l’amore è rimasto sopra la gonna, su una terrazza del mare che ci faceva contorno, le racconterò delle bugie perché non posso dirle che sto spalancando le mie gambe, che ora quello che sento non è solo un dito. Non posso dirle che ho ceduto prima di resistere, che neanche un fremito mi ha fatto stringere le gambe, che neanche uno starnuto ha deviato il percorso. Eccola la mano, la sento. Si muove libera e padrona, carica di consapevolezza e di boria che nessun altro piacere potrebbe essere meglio, che nemmeno l’amore contro un tramonto sarebbe lo stesso. Scivolo lungo la spalliera, impercettibilmente m’abbandono, non ci saranno suite d’alberghi col mare che faccian da contorno, non ci saranno lenzuola di seta o una vasca grande come una piscina dopo l’amore. C’è solo questo dito che ora confondo, questa mano che stringe e che copre tutto il piacere che io dispongo. Mai l’avrei immaginato di colare piacere mentre lui continua a parlare di moglie e lavoro, di tennis e di orologi che sono la sua passione. Mai l’avrei immaginato di farmi finire sopra questa sedia ed urlargli col bianco degli occhi di non smettere, d’arrivare oltre il timore che s’è fatto bisogno. Sborro senza ritegno, trattengo le sue dita dentro stringendo le gambe, serrando le cosce mentre mi graffia e mi mescola dentro. Sono troia e godo, lascio che il cameriere mi guardi, che intuisca il mio nudo sotto, che scopra che sono violata a una mano con cui non c'è nemmeno confidenza. Contraggo ancora i muscoli più bassi, mi sento spaccare, spossare, lo tengo dentro, mi sembrano dita serrate e chiuse a pugno, mentre lui abbassa la testa e carica, muove il gomito in maniera meccanica e mi dice che sono una vacca.
Dal diario di Silvia : Al ristorante
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Aggiunto: 2 anni fa
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