Mi chiamo Jennifer e sono passati quasi sei mesi da quando mi sono trasferita a Brownsville in New York; la città che non dorme mai. Più tardi spiegherò perché ha questo soprannome.


Ho diciannove anni da poco compiuti. Sono alta un metro e settantasette e di carnagione chiara. Sono abbastanza alta e la cosa non mi dispiace; ma purtroppo ho un fisico piuttosto asciutto e poco formoso. Il mio seno fa fatica a essere una coppa A; ma almeno ho un bel paio di gambe lunghe e snelle.


Ho capelli neri, lunghi fino alle spalle, tenuti su sbrigativamente con un elastico a formare una coda di cavallo. Il volto è un po’ scavato con zigomi, mento e guance ben evidenti. I miei occhi sono azzurri, molto chiari, quasi grigi.


Ora, abito in una zona residenziale composta di grandi palazzine di mattoni alte una ventina di piani circa.


Gli edifici sono vecchi e fatiscenti; ma sono anche gli unici posti che posso permettermi, con il mio misero salario da stagista.


Ogni palazzo è dotato di un piccolo prato delimitato da recinzioni metalliche. Tutti trascorrono, in quegli appezzamenti verdi, un po’ di tempo a respirare aria pulita e a uscire dall’incubo delle grida e odori molesti che si sentono negli appartamenti dai muri sottilissimi.


La zona è piuttosto malfamata; finisce quasi tutti i giorni sul notiziario per avvenuti omicidi e sparatorie. Ho scoperto solo in seguito che è il più malfamato e pericoloso quartiere della grande mela.


Se avessi più tempo libero, probabilmente, mi preoccuperei e cercherei un’altra sistemazione; ma al momento sono così presa con il lavoro che vado avanti ignorando tutto il resto.


Quando sono giunta qua, dal mio piccolo paesino portuale nel Maine, avevo progetti, ambizioni; ero felicissima che con i miei voti fossi riuscita a trovarmi una possibilità di lavoro in una delle più grandi aziende nel mondo.


Tutti i giorni mi alzo prestissimo all’alba per prendere l’autobus e poi due tratti di metro per recarmi nel modernissimo palazzo dalla multinazionale dove ho deciso di lavorare. Faccio turni massacranti, ben sapendo che dopo diversi anni, mi si apriranno prospettive di carriera molto importanti e remunerative.


Semplicemente, quella di schiavizzare gli stagisti è la loro politica aziendale; chi sopravvive poi potrà accedere ai piani alti. Si tratta di un duro processo di selezione naturale al quale credevo di essere preparata. Ora, che sono passati sei mesi d’inferno, non ne sono più tanto sicura e mi ritrovo sempre più spesso a ripensare alle mie scelte.


La mia routine giornaliera è piuttosto massacrante. Anche prima dell’alba, i mezzi di trasporto sono sempre affollati e devo lottare ogni giorno solo per un posto vicino alle uscite o a una sbarra di sostegno.


Al lavoro faccio sempre due, tre cose in contemporanea mentre rispondo al telefono e alle mail. In pausa pranzo i capi impongono spesso di parlare di lavoro e discutere strategie aziendali.


Quanto torno nel mio palazzo verso le otto di sera, dopo che mi sono alzata alle cinque del mattino, mi sembra di impazzire tra le quattro pareti in cartongesso del mio piccolo appartamento, dove i condomini mi allietano con le loro urla fino a notte tarda. Dormire è diventato un lusso.


Arrivata a casa, faccio una doccia veloce, mangio un pasto precotto, faccio il bucato, forse guardo un po’ di televisione; ma il più delle volte cado nel letto distrutta e mi addormento come un sasso.


Lavoro dal lunedì al sabato. La domenica dormo fino a tardi per recuperare il sonno mancato durante la settimana. Sempre di domenica faccio la spesa per tutta la settimana e mi occupo delle mie cose. Verso sera dovrei aver un po’ di tempo libero per andare al cinema o fare una passeggia. Le prime settimane lo facevo; ma ora ho troppe circolari del lavoro da leggere, mail di lavori da completare, eccetera.


L’unica distrazione da questa routine infernale è il signor Diego Rivera che è un uomo di colore piuttosto anziano di origini portoricane sugli ottant’anni circa. La sera, quando torno a casa distrutta, lui è sempre lì, su di una panchina vicino all’ingresso del palazzo che si gode l’aria fresca.


E’ un tipo gentile che saluta sempre tutti quanti con un gran sorriso e che fa dimenticare, per un solo instante, che stai tornando da un inferno lavorativo per infilarti in un inferno domestico.


Lui è l’unica persona con cui scambio due vere chiacchiere amichevoli tutti i giorni. Al lavoro non posso proprio dire che i colleghi con cui a volte parlo siano amici; in realtà sono concorrenti che aspettano l’occasione giusta per pugnalarti alle spalle.


Un venerdì sera, tornando a casa tardi, incontro Diego.  Come il solito lui è seduto sulla panchina di fronte l’entrata del palazzo. Se ne sta lì in pace, come se il caos che lo circonda non riuscisse a intaccarlo. Una roccia ferma e sicura in un mare perennemente in tempesta.


- Buona sera signorina Jennifer. - Mi accoglie con un caldo sorriso, non appena mi sono avvicinata abbastanza da farsi udire.


- Buona sera signor Rivera. - Gli rispondo.


- Anche oggi ha fatto tardi. -


- Ho perso il metro per soli due minuti e ho dovuto aspettare la corsa successiva. - Gli spiego mentre mi avvicino.


- Che peccato, lei è la prima che si alza nel nostro corridoio ed è l’ultima che torna alla sera. E’ sicura che vada tutto bene? Anche se è giovane, deve trovare il tempo per riposarsi un po’, sembra così sciupata. -


Anche se è buio, il signor Diego ci vede benissimo. Non ho certo bisogno di uno specchio per sapere che da mesi non riesco a far sparire le occhiaie da sotto gli occhi.


- E’ il lavoro, se voglio mangiare… - Dico a mo’ di giustificazione.


- Sicura anche di sentirsi anche felice? -


Cazzo, che domanda, per un solo attimo il cuore mi perde un colpo. Non è da sottovalutare il signor Diego, coglie sempre il punto giusto di ogni cosa. Ne deve aver viste di cose per essere così saggio.


- Bella domanda … - Gli rispondo triste.


- Mi scusi, non era mia intenzione metterla a disagio; sa, a noi vecchi piace impicciarci. -


- Nessun problema mi creda, è sempre bello parlare con lei. Ci vediamo domani, buona notte. -


- Notte Jennifer. -


Mentre mi allontano sussurro sottovoce:


- E’ bello davvero parlare con lei. -


Quella notte, quando mi addormento, mi chiedo se sono davvero felice; pochi soldi, un lavoraccio, colleghi crudeli, tanta fatica, famiglia e amici lasciati a centinaia di chilometri di distanza.


Soprattutto nessun nuovo amico, figurarci un ragazzo. Realisticamente, nei prossimi anni non sembra esserci nulla all’orizzonte che possa migliorare la mia situazione. Vivrò tra queste quattro mura a consumarmi lentamente e sola. Sola. Mentre mi addormento, mi scende una lacrima.


Il giorno dopo è un sabato e ritorno a casa tardi più tardi del solito.  Visto è l’ultimo giorno della settimana, mi hanno tenuto a lavorare più a lungo e sono quasi le undici di sera. 


Giunta all’ingresso del mio palazzo, m’intristisco. Il signor Diego non c’è. Peccato, è la parte più bella della mia routine giornaliera. Oggi si che è una giornata in cui posso dire che non sono felice.


Pochi minuti dopo, arrivata di fronte il mio appartamento, sento che si apre una porta lì vicina.


- Signorina Jennifer! - Mi saluta il signor Diego.


- Diego, che bello. - Gli rispondo felice. Meno male che è venuto a salutarmi.


- Ieri mi diceva che serve il lavoro per mangiare … - 


L’anziano signore mi viene incontro porgendomi un contenitore di plastica.


- … io penso, invece, che serva del buon cibo per lavorare. -


- Grazie. - Il primo regalo che mi è dato da quando sono arrivata a New York. E’ struggente.


- E’ un piatto tipico delle mie parti. Si chiama asopao uno stufato di riso e pollo ben cotto. -


- Non doveva disturbarsi signor Rivera. -


- Si figuri, oggi lei è tornata a casi così tardi che ho pensato le potesse fare piacere. -


- E’ proprio così, grazie di cuore. - Gli rispondo.


- E’ sempre un piacere vederla sorridere, ultimamente è sempre così giù. -


Come ci azzecca sempre quel vecchio.


Lo ringrazio di nuovo ed entro nel mio appartamento con la zuppa calda del signor Rivera.


La poggio sul tavolo e mi libero della borsa; poi torno a fissare il regalo. Sembra così appetitoso, saranno passate otto ore da quando ho toccato cibo. Il mio stomaco ruggisce all’idea dell’abbuffata.


Guardo la zuppa senza toccarla per qualche minuto. E’ di più di una zuppa calda. E’ quasi come un abbraccio, un bentornato non detto che ti scioglie il cuore ed io mi sento così sola. Ripenso alla notte prima quando ho pianto all’idea di non aver nessun amico. Forse mi sbagliavo.


Mi faccio coraggio, prendo l’asopao e vado a bussare alla porta del signor Rivera.


- Che sorpresa, incontrarsi due volte nello stesso giorno. - Mi saluta il vecchietto.


- Ecco, non vorrei disturbarla, ma potrei mangiare la zuppa insieme con lei? -


Il signor Rivera, mi guarda stupito.


- Certo, si accomodi e non badi al disordine. -


- Grazie. - Dico entrando nel suo appartamento.


Mi sono dimenticata cosa vuol dire mangiare e poter conversare amichevolmente. Come se fossi a casa, una “Casa” degna di essere chiamata con quel nome. Sa essere spiritoso il signor Rivera, lui sa tutto di tutti gli inquilini del palazzo e ne ha di storie da raccontare. E come le sa raccontare!


La zuppa finisce in poco tempo; ma Diego ha altre leccornie in frigorifero. Tutte specialità della sua terra Natale, Portorico. Da una qualche parte, salta anche fuori una bottiglia di vino di banane e la serata si accende. 


Passa la mezzanotte e noi continuiamo il nostro cenone conversando amabilmente di tutto quello che ci viene in mente. E’ forse felicità quella che sto provando? Difficile dirlo, è da tanto tempo che l’avevo dimenticata.


- Jennifer, com’è la cucina di Portorico? -


- E’ buonissima. -


- Lo dico sempre che bisogna mangiare bene per lavorare meglio. -


- Un brindisi a Portorico, allora. - Alzo il mio bicchiere e Diego fa altrettanto.


- Cincin. - I bicchieri echeggiano e beviamo alla salute.


Guardo Diego negli occhi. Sono nocciola, caldi, calmi e sereni. Fanno pensare a un posto lontano e bellissimo. Dovrei essere stanca; ma mi sento inspiegabilmente piena di energie. Ho una carica addosso, come se fosse tutta quanta elettrizzata. E’ solo il vino penso dentro di me; ma vorrei che questo momento non finisse mai.


Finalmente ho trovato della felicità e mi ci voglio arrotolare dentro come se fosse una coperta. Quella felicità, in realtà, è Diego. Il mio primo amico a New York.


Vorrei potergli dire quanto ci tengo a lui. Vorrei potergli dire che ha rischiarato il mio cielo così cupo. Vorrei potergli dire che ora sono finalmente felice. Vorrei…


- Diego, ti puoi avvicinare? - Gli domando improvvisamente.


- Cosa c’è? - Lui sposta la sedia e si fa più vicino.


Io lo bacio. Lui sembra stupito appena le nostre labbra s’incrociano ed esita; ma poi ricambia il bacio.


Quando terminiamo, gli chiedo scusa.


- Forse è stata una cosa stupita. - Dico per sdrammatizzare la situazione.


- Può essere tante cose; ma non è stupida. - Diego mi bacia e questa volta lo accolgo senza esitazioni.


In breve ci trasferiamo nella sua stanza da letto tenendoci per mano.


Lui si spoglia per primo e si adagia sul letto aspettandomi. Lo guardo avida. Ha un grande corpo eburneo magro e tonico nonostante l’età avanzata. Nei bicipiti scorgo ancora traccia dei suoi muscoli dei tempi d’oro. Tra le gambe, il suo pelo è ancora quasi del tutto nero e il suo pene… 


Beh, non ho mai avuto molte storie nella mia vita e ho conosciuto carnalmente solo un paio di ragazzi; ma devo dire che è ben dotato.


Io ho un qualche abito in più di lui da togliere, indosso ancora il mio vestito da lavoro. M’imbarazzo un po’ perché non ho potuto fare una doccia in tutta la giornata, sono mesi che non mi depilo il pube o le ascelle e francamente è quasi un anno che non faccio sesso. Mi sento un po’ sulle spine. Sono titubante come se fosse nuovamente la mia prima volta e non sapessi cosa fare.


Mi spoglio della camicetta e la gonna, rimanendo solo con l’intimo e i collant.  Mi adagio sopra di lui baciandolo. Il suo corpo è piacevolmente caldo e lui mi accoglie tra quelle sue forti braccia. Ci coccoliamo un po’ esplorando i nostri corpi e baciandoci.


Mentre lo bacio, le mie mani scivolano sul suo petto ansante, scendendo sulla sua pancia per dirigersi avide verso il suo sesso. Quando le dita della mia mano, s’inoltrano tra i suoi peli pubici, il mio cuore batte più forte all’idea che sta per accarezzargli l’uccello. 


Finalmente la mano tocca l’agognato premio. Delicatamente inizio a stimolarlo e avverto che il suo membro s’inturgidisce nel mio palmo, diventando sempre più duro. Anche se non riesco a vedere quello che faccio; perché sono presa a scambiare baci con Diego, mi bagno sempre più tra le gambe. Ormai devo avere le mutandine fradice ed è una cosa che mi piace.


Nel frattempo Diego mi slaccia il reggiseno, poi le sue mani scivolano sotto i miei collant e mutandine e anche loro si mettono a esplorare il mio sesso bagnato, i fianchi e il culo. Che sensazione indescrivibile quanto il suo dito s’insinua tra le mie grandi labbra e poi vi entra parzialmente facendomi sospirare pesantemente.


Dopo avermi massaggiato intimante il sesso e avermi mandata in estasi, l’attenzione di Diego si concentra sul mio seno. Gemo nuovamente quando la sua lingua mi lecca i capezzoli e poi decide di sfiorarli con le sue grandi mani. 


Sembra particolarmente attratto dalle mie tette; gioca con i miei capezzoli e li massaggia in ogni modo.


Non capisco il motivo di tutta questa sua attenzione. Sono in sostanza piatta come una tavola da stiro; ma mi fa piacere che lo desideri. Mi chino su di lui per permettergli di toccarmi meglio. Lui inizia a succhiarmi i capezzoli e mi scappa un altro genito di piacere. Dio quanto mi eccita.


Sono sdraiata sopra di lui con il suo pene che sfiora la figa e le sue mani si muovono sensuali sul mio seno, la pancia, i fianchi. Senza che me ne accorgo, inizio a muovere delicatamente il mio bacino sul suo uccello. Ora è lui che geme.


Nel frattempo il suo pene ha raggiunto una notevole erezione. Sento la sua presenza e il suo calore anche attraverso i collant e le mutandine. 


All’orecchio gli sussurro:


- Ti prego scopami subito. -


Diego non si fa pregare. Le sue mani lacerano in due i miei collant all’altezza del cavallo. La sua irruenza mi sorprende piacevolmente e penso proprio che perdere quei collant sia un prezzo equo per il piacere che proverò tra qualche istante.


Dopo qualche secondo, spostato l’orlo delle mutandine, stiamo facendo l’amore con passione. Il suo uccello scivola fin troppo facilmente nella mia figa bagnata e mi ritrovo a cavalcarlo gemendo mentre mi cinge per i fianchi.


Mi sento eccitata, selvaggia. Sto facendo sesso con l’uomo che desidero. L’uomo che è riuscito a sollevarmi nel momento più buio della mia vita. Gli voglio dare tutto. Che per una volta siano i nostri vicini a sentire le miei grida.


Scopiamo a lungo, lui è resistente e virile e non sembra stancarsi. Io, invece, non sono molto in forma e sono esausta dalla lunga giornata. Sto perdendo il ritmo, lui se ne accorge e ci scambiamo di posizione. Lascio che mi prenda e mi scopi come meglio desidera.


Posso solo pensare a quanto sia impetuoso e quando riesca a farmi godere. Mi scopa con una tale foga che non avrei mai immaginato in un vecchietto ottantenne. Alla fine, dopo molti minuti, mi viene dentro e anche lui si accascia su di me ansimando.


- Ti amo. - Gli sussurro all’orecchio.


Quella notte noi facciamo sesso altre volte assicurandoci che i nostri vicini non riescano a dormire. 


Il mattino dopo, il sole mi sveglia quando è già alto in cielo. Ho dormito Fino a tardi come il solito. Sono nuda nel letto di Diego e la cosa mi rende felice. Mi accarezzo la pancia fino a toccarmi il sesso. E’ ancora piacevolmente umido di umori corporei. 


Vado in bagno per darmi una rinfrescata. Tra le gambe sento scivolare qualcosa di bagnato. Lo sperma di Diego sta colando dalla figa. Ah che piacere il ricordo del suo uccello che mi penetra. Senza accorgermene raccolgo con le dita qualche goccio di quel liquido e l’assaggio avida.


Finito di lavarmi, vado in cucina da dove arriva un buon odore. Diego sta cucinando e lo saluto.


- Bimba, vuoi farmi prendere un infarto di prima mattina? -


Si riferisce al fatto che sono nuda.


- Io speravo invece in qualcos’altro… - Gli rispondo maliziosa.


M’inginocchio davanti a lui e tirandogli fuori l’uccello dai pantaloni, inizio a leccarglielo tutto, dalla cappella fino allo scroto; poi quando è ben inumidito e turgido inizio a fargli un pompino.


Nel frattempo lui continua a cucinare canticchiando in modo piuttosto stonato. Ci credo, ogni tanto lo succhio così forte che gli viene il fiatone.


Quando Diego ha finito di preparare il pranzo, termino pure io e il suo caldo carico di sperma mi si riversa tutto quanto in bocca.


Mungo ogni singola goccia del suo seme dal suo membro e facendomi vedere da lui, spalanco la bocca mostrandogli il contenuto e poi ingoio tutto quanto.


- Lascia un po’ di spazio per il pranzo bimba. -


Le settimane passano sempre con la solita routine; salvo il fatto che ora trascorro tutte le notti nell’appartamento di Diego facendo l’amore ogni volta.


Di domenica facciamo una passeggiata o shopping sempre insieme; di sera usciamo a cena o al cinema come una qualsiasi coppia. Altre volte, sempre di domenica, trascorriamo tutto il giorno a letto a giocare in tutti i modi possibili che ci vengono in mente, soddisfano ogni nostro capriccio o desiderio.


I vicini, nel frattempo, sembrano essersi accorti della cosa e hanno iniziato a parlare. “Ma è vero che…”, “Potrebbe essere sua nipote!”, “E’ indecente!”, “Sono dei pervertiti!”. Non me ne importa nulla, anzi ne sono fiera. Prima ero quasi morta e ora mi sembra di essere rinata.


Nei primi giorni del nostro idillio i vicini sono persino venuti a lamentarsi che di notte facciamo troppo casino.


Un vero peccato, il sesso con Diego è molto più bello quando posso “esprimermi” liberamente.


Dopo neanche un mese, mi accorgo che non mi viene più il ciclo. Il giorno dopo il nostro primo rapporto avevo iniziato subito a prendere la pillola; ma contandole, mi sono accorta che ne ho presa soltanto una. Semplicemente mi sono dimenticata (o forse non ho voluto) di prendere le altre.


Ops, un piccolo errore di distrazione. Penso felice, dopo aver fatto un test di gravidanza, al bambino che sta crescendo dentro di me.

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