Quando Magnus me lo aveva detto, avevo fatto fatica a credergli.


Sentir dire a uno svedese che pareva uscito da una saga fantasy con elfi e vichinghi che non aveva mai avuto tanto freddo e tanto caldo come in Italia, mi era sembrato quantomeno strano. Passi per il caldo, ma il freddo pensavo che fosse una delle prerogative del suo paese.


“Da noi” mi spiegava col suo italiano un po’ fantasioso da studente fresco di Erasmus “d’inverno stiamo sempre calore, perché non esistere posto non riscaldato e fuori troppo freddo. D’estate stare bene in fresco. Qui o passare la notte in brividi o sciogliere come gelato.”


In effetti il mini appartamento che condividevo con lui aveva dei termosifoni scassati che ci avevano fatto passare un inverno in compagnia dell’immancabile nuvoletta di vapore sulla bocca, che accompagnava ogni nostra parola, neanche fossimo stati i protagonisti di un fumetto. Con un po’ di coperte pesanti e due borse dell’acqua calda comprate al supermercato, in qualche modo ce l’eravamo cavata, ma contro i bollori dell’estate non pareva esserci rimedio.


Io e Magnus dormivamo in due stanze separate, che davano sullo stesso piccolo corridoio e l’unica cosa che riusciva a darci un minimo di sollievo era lasciare le rispettive finestre e porte aperte di notte. Si formava così quella piccola corrente d’aria che rappresenta il nemico numero uno, la manifestazione stessa del demonio, per la quasi totalità delle mamme italiane, foriera di ogni tipo di sventura e malattia, ma che lasciava praticamente indifferente Magnus e, da quello che mi diceva, anche le mamme svedesi. Quando sentì per la prima volta l’espressione “un colpo d’aria”, usata tante volte in contesti a lui misteriosi, mi ci volle tutta la mia abilità di aspirante giornalista per fargli capire di che si trattasse.


“Se sei sudato ed esci fuori, un colpo d’aria ti fa finire di sicuro a letto con la febbre. Ma anche se hai appena fatto la doccia e apri la finestra. Per non parlare di quando piove e tira vento, un colpo d’aria e hai la gola arrossata e la tosse. E poi ti può bloccare il collo, far venire il mal di schiena, per non parlare del mal di testa da colpo d’aria. Roba da restarci stecchiti.”


Lui mi seguiva con un’aria esterrefatta, non capendo bene se lo stessi prendendo in giro o fossi solo un po’ svitato.


“Noi mettere bambini appena nati in giardino a dormire in carrozzina anche con neve. Come fa l’aria a fare te tutto quel male? È assurdo. Virus e batteri fare venire febbre e il mal di schiena venire se tu fare movimento non giusto.”


“Senti” tagliavo corto io, con tono anche un po’ spazientito, divertendomi a punzecchiarlo “impara presto a rispettare il colpo d’aria, o in Italia avrai vita brevissima.”


In barba alle mie raccomandazioni da vecchia zia premurosa, appena cenato, Magnus senza tanti complimenti si sfilava rapido i vestiti e, nudo come un atleta greco alle olimpiadi, si avviava verso il bagno per l’immancabile doccia serale, altra abitudine che avrebbe fatto venire un malore a mia madre. La doccia a stomaco pieno era uno di quegli ossimori neanche ipotizzabili da mente razionale. 


E invece lui, lanciando i panni sul pavimento della sua stanza, avanzava a falcate per il corridoio, mentre io, fingendo indifferenza, seguivo la marcia trionfale delle sue gloriose chiappe, due sfere di marmo bianchissimo che si alternavano a ritmo cadenzato.


Quando usciva fuori dal bagno, faceva il corridoio al contrario e, una volta in camera, si sfilava l’asciugamano che aveva annodato in vita per frizionarsi velocemente i capelli biondi, lunghi fino alle spalle e mettersi a dormire così, ancora mezzo fradicio, in mezzo alla mortifera corrente.


Il bello era che al mattino io ero sempre mezzo dolorante, lui pareva appena uscito da una spa, con tanto di trattamenti tonificanti e rilassanti.


Dormire con le porte aperte all’inizio non era stato facilissimo per me, abituato a rintanarmi in camera mia da sempre. Senza contare che, soprattutto quando tornava a casa mezzo sbronzo dopo una serata di baldoria, Magnus era capace di russare come una motosega.


Una delle notti in cui non riuscivo proprio a dormire, mi alzai per andare in camera sua a svegliarlo, o quantomeno a cercare di farlo smettere in qualche modo di russare, ma la vista del suo corpo, appena illuminato dalla luce della luna che filtrava dalla finestra, mi lasciò come paralizzato.


Era disteso su un fianco, completamente nudo, con il lenzuolo che gli copriva le gambe e il pacco, lasciando spazio alla fantasia. Un braccio era sotto il corpo, mentre l’altro era piegato ad angolo retto, con la mano di fronte alla sua faccia. La peluria biondissima sembrava brillare alla luce della luna e il suo corpo possente era quello di un guerriero che si riposa dopo una battaglia sfiancante, che lo ha visto vincere per l’ennesima volta. Le sue labbra erano leggermente aperte e lucide, forse umide di un po’ di saliva.


Trattenendo il fiato e, col cuore in gola che pareva schizzarmi, mi addentrai nella stanza, col passo morbido di un gatto pronto a schizzare via al primo rumore.


In testa cercavo di organizzare scuse sul perché fossi lì, qualora si fosse svegliato, ma la sua vista mi confondeva i pensieri. Era troppa l’eccitazione che provavo, andava oltre ogni freno razionale.


Cominciai a immaginare che quella sua apparente spossatezza non fosse dovuta alla baldoria della serata, ma all’essersi dedicato a sfiancare me. Lui era il mio uomo, il mio virilissimo uomo che ogni sera, prima di dormire, si prendeva il sacrosanto diritto di darsi piacere mettendomi sotto di sé, nella posizione che più lo aggradava e, con gli amplessi devastanti di quel corpo possente, mi portava al delirio, fino a farmi stringere i pugni nelle lenzuola, per provare a resistere a quelle ondate di piacere sferzante che si impossessavano di me, fino all’esplosione che portava lui a ruggire su di me e io a esplodere di piacere sotto di lui. 


Mentre la mia mente galoppava felice nei sentieri della fantasia, la mia mano, ben stretta attorno al cazzo, andava su è giù al ritmo del suo russare, che a quel punto mi appariva la più soave delle melodie. Immaginai di dormire ogni notte di fianco a lui, a contatto col suo corpo ronfante di gloria e, senza più vergogna, presi ad ansimare di piacere. Non mi importava più che mi avrebbe potuto vedere svegliandosi, anzi il pericolo aumentava l’eccitazione.


Quando finalmente venni, fu come se un fuoco d’artificio avesse squarciato il cielo, illuminando la stanza a giorno.


Magnus, per fortuna, continuava a ronfare beato, inconsapevole di avere il suo coinquilino che spruzzava sperma ai piedi del suo letto, tenendo le mani ben giunte per non farlo colare a terra.


Dopo quella prima sera, masturbarmi vicino a lui divenne come un rito per me. A notte inoltrata, quando iniziava il ronfare, percorrevo in silenzio quel piccolo corridoio che portava in bagno e mi fermavo sull’uscio della sua porta. Lui era quasi sempre girato su un fianco con le spalle a me, il che mi permetteva di fare qualche passo dentro la stanza senza rischiare di essere visto, quel tanto che bastava per vedere bene tutto il contorno del suo corpo e annusare la sua aria che sapeva di birra e di uomo, e iniziare la mia opera di auto stimolazione implacabile, che mi portava ad avere un tizzone incandescente nelle mutande, fino all’immancabile apoteosi.


Magnus ricalcava il ritratto del perfetto scandinavo, almeno per come me lo ero sempre prefigurato io. 


Da ragazzino, insieme alla mia famiglia, ero andato in vacanza a Bergen, per fare la famosa crociera sui fiordi, tanto agognata da mia madre. Mi ricordo che la prima impressione che avevo avuto della città era stata di essere finito in un villaggio delle favole, con il centro storico fatto di casette di legno che parevano abitate da elfi e nani. Anche la gente al mercato era cordiale, dietro a ogni bancone c’era una faccia sorridente pronta a offrirti tartine al salmone o al caviale.


La notte in cui eravamo andati via, visto che avevamo un volo notturno, mi era preso quasi un colpo nel ritrovarmi a passare in quello che tutto d’un tratto si era trasformato in un girone dantesco. Nella piazza in cui di giorno si vendevano fiori, di notte si erano riversati fiumi di ragazzi e ragazze completamente ubriachi, che barcollavano come gli zombi dei film e non facevano che vomitare a ogni angolo di strada, rischiando di imbrattare chi si era sdraiato a terra per dormire, o forse era semplicemente collassato.


Magnus era esattamente così. Di giorno era stato lui a invitarmi al museo di arte moderna, che io neanche conoscevo. Lo avevo visto assorto, come catapultato all’interno delle opere d’arte che si fermava ad ammirare estasiato. E poi voleva sapere il mio parere, fornendomi la sua interpretazione personale. Dopo il museo eravamo andati a mangiare sushi e anche lì aveva continuato a parlarmi d’arte, con un entusiasmo che mi aveva conquistato. Aveva viaggiato tantissimo per la sua giovane età, e in ogni città in cui si era trovato, non aveva mai mancato di visitarne i tesori artistici.


Con altrettante foga e passione, diciamo dalle dieci di sera in poi, metteva da parte lo studentello impegnato e si dedicava alla conoscenza della vita notturna del paese.


Io qualche volta lo avevo seguito, ma dopo la terza o quarta birra ero già talmente perso da dover tornare a casa, rischiando di non trovare nemmeno la strada.


Lui era un animale da combattimento. Continuava a ingurgitare alcol, e boccale dopo boccale era come se diventasse sempre più brillante, più sciolto. Oltre che più affascinante. Non gli resisteva praticamente nessuna.


Odiavo soprattutto quando, a notte inoltrata, rincasava con una o due ragazze al seguito, fragorose e ridanciane e, incurante di me che provavo a dormire, iniziava a fare baldoria con immancabili gemiti e colpi cadenzati della spalliera del letto contro il muro. La mia parte razionale si ingannava a lamentarsi del baccano infernale, ma quella più interna e sincera sapeva che in realtà stavo male al pensiero che non sarei mai stato io sotto a quel corpo vichingo a far cigolare la rete del letto e a far tremare il muro dei colpi del piacere.


Una delle ultime sere di quell’estate afosa, ricordo che Magnus rientrò a casa ciucco più del solito, insieme a una strana virago, vestita di scuro, con unghie e labbra dipinte di nero e una chioma rossa fiammante. Pareva uscita direttamente da un film di Bigas Luna.


A differenza delle altre volte, i due erano piuttosto silenziosi, ma la cosa più strana fu quando il silenzio divenne talmente prolungato e totale da farmi spaventare. Non mi sarei sorpreso nel vedere lei trasformata in vampiro e lui sgozzato sulle lenzuola del letto. 


Col mio proverbiale passo felino, ancora più felpato del solito, feci per affacciarmi alla stanza di Magnus e rimasi come impietrito nel vedere lei in piedi che, con fare solenne da sacerdotessa pagana, teneva tra le mani strani lacci di pelle, mentre lui la osservava ammutolito e visibilmente eccitato.


Quando lei dischiuse le labbra nere più della notte per parlare, fui io a trasalire al suono della sua voce profonda e severa. Una voce crudele. 


“Adesso ti farai fare tutto quello che voglio io, mio schiavetto svedese, o la padrona sarà costretta a punirti a dovere.” La valchiria dark fece schioccare in aria un frustino che sembrava quelli che usano i fantini per far correre i cavalli.


Magnus era ancora più eccitato. Il suo bel cazzone bianchissimo si ergeva al centro di quel cespuglio biondissimo che tante volte ero diventato strabico per sbirciare, facendo finta di niente. Non so se sia umanamente possibile, ma quando mi si presentava nudo a parlarmi come se nulla fosse, io avevo l’impressione che un mio occhio riuscisse a fissarlo in volto, continuando a discorrere del più e del meno, e l’altro scendesse giù fino al cespuglio di grano dorato, che avrei voluto mietere così volentieri.


La padrona, con calma filosofica, prese i lacci in cuoio e li annodò, uno dopo l’altro, ai polsi di Magnus, che fremeva dal desiderio, per poi assicurarli alla sponda del letto. Fece poi lo stesso con le caviglie, assicurandosi che le gambe restassero ben divaricate e, una volta che lo ebbe immobilizzato in quel modo, tirò fuori una benda dal suo armamentario di guerra e lo rese in quel modo anche cieco sotto di sé.


Il respiro di Magnus si fece affannoso, quando la sua padrona iniziò a camminare di fianco al letto, passando le unghie affilate sul corpo, che reagiva a quei graffi tremando di piacere.


Lei però era come imperturbabile, sembrava che niente di quello che stava succedendo la agitasse minimamente. Continuava ad andarsene avanti e indietro conficcandogli le unghie lungo tutto il corpo. Quando pareva prendersi delle pause, era proprio allora che tornava ad accanirsi con maggior slancio su di lui, prendendogli di mira ora i capezzoli, ora l’ombelico, ora l’orecchio. Quegli assalti repentini lo facevano sobbalzare e lanciare gridolini di sorpresa e voglia, ma più lui si eccitava, più lei rallentava, godendo nel lasciarlo in sospeso, nell’interrompere i suoi slanci di piacere.


Sembrava che tutto interessasse alla padrona, fuorché quel miracolo di gloria che si innalzava tra le sue gambe come un obelisco in una piazza antica.


Quando non ne potei più della vista di questo giochetto assurdo e mortalmente statico, me ne andai a letto maledicendo la sorte che dà i frutti migliori a chi non è minimamente intenzionato a coglierli.


Mi ricordo che quella notte mi svegliai prima dell’alba, probabilmente a seguito di sogni agitati e, con una sete atroce, andai verso la cucina per bere un po’ d’acqua.


Incuriosito dal buio che proveniva dalla stanza di Magnus, mi avvicinai nuovamente alla porta e, con grande sorpresa, mi accorsi che era solo. La solita luce della luna rischiarava a malapena il suo bel corpo che ora dormiva ronfando, ancora nella stessa posizione di quando era stato legato, nonostante adesso i lacci fossero riposti sul comodino, così come la benda. La padrona era andata via nel cuore della notte, magari senza neanche salutarlo, dimenticando i ferri del mestiere, o forse gliene aveva fatto dono come ricordo.


Io mi sentii finalmente sollevato nel ritrovarmi da solo con lui e il suo ronfo familiare e, per dare un senso a quella notte disgraziata, iniziai a toccarmi davanti a lui, come avevo fatto mille altre volte.


Più mi eccitavo, però, più i miei occhi continuavano ad andare a quei maledetti lacci e al ricordo del suo corpo glorioso asservito ai comandi di quell’ingrata. Sapevo che Magnus quando ronfava non si sarebbe svegliato neanche con le cannonate e così, in un raptus di voglia e follia, mi avvicinai ai lacci e li presi in mano. Come al rallentatore gli fui di fianco e, con la destrezza di un chirurgo, glieli passai attorno ai polsi, per poi legarli alla spalliera, pronto a fuggire al primo cenno di risveglio, o magari a inventare di stargli giocando uno scherzo cretino.


Quello però a svegliarsi non ci pensava proprio e, anzi, più lo legavo, più ronfava forte. Al momento di bendarlo, trattenni il respiro e gli passai quella specie di foulard intorno alla nuca e poi sugli occhi, facendo un nodo leggerissimo.


Alla fine dell’impresa, nel vederlo così, come incatenato davanti a me, venni preso da un senso di eccitazione mai provato prima. Avevo finalmente l’oggetto del mio desiderio lì tutto per me e, in un modo o nell’altro, non avrei sprecato quell’occasione. Ma soprattutto, non avrei sprecato tutto quel ben di dio che alla padrona era parso non interessare affatto.


Come d’istinto mi passai il palmo della mano sulle guance e sotto il mento e benedissi di essermi fatto la barba quella sera stessa prima di mettermi a dormire. La mia pelle era liscia e morbida.


Mi avvicinai all’amato cespuglio di grano, e la vista del cazzo a riposo mi diede come le vertigini. Gli poggiai le mani sui fianchi, protendendomi su di lui e, con la lingua più vogliosa della storia dell’umanità, presi a leccargli quella peluria biondissima, affondando le labbra per sentire i peli in bocca e succhiarli con avidità. Lui ancora ronfava, ma quando mi avventai sulle palle, ebbe come un sussulto e smise di russare, tirando su la testa in uno spasmo di sorpresa. A quel punto temetti che i lacci potessero cedere, visto il modo improvvisato con cui lo avevo legato, ma sembravano annodati piuttosto bene e, per fortuna, lui non pareva intenzionato a mettersi a strattonare.


“Padrona essere tu?” La sua voce riempì la stanza, con un tono tra il curioso e l’allarmato.


Io ero come paralizzato ai piedi del letto, visto che ero schizzato subito in piedi nel panico.


“Padrona che fare? Tu essere ancora qui?”


Non potevo indugiare troppo per non farlo agitare. Ero in ballo e dovevo ballare. 


Quel poco di buonsenso che ancora mi restava mi suggerì di non lanciarmi in patetiche imitazioni di voci femminili e mi limitai a sussurrare uno “shhhh”, intimandogli di fare silenzio. 


Lui obbedì e io, rinfrancato, ripresi da dove avevo lasciato. La mia lingua guizzante in un attimo si accanì di nuovo su quel cespuglio meraviglioso, ma notai che, quando passai alle palle, ebbe un vero e proprio grido di piacere. La strega era stata capace di farlo vibrare di libido, io lo avrei fatto urlare.


Con la bocca spalancata gli inghiottii tutto lo scroto, gustandomelo come un frutto succoso, divertendomi di tanto in tanto a mordicchiarlo, cosa che lo mandava ancora di più in estasi.


Magnus gemeva e finalmente ero io a procurargli tutto quel piacere. Nell’accanirmi così sulle palle, non mi ero quasi accorto che l’asta era ormai esplosa in tutta la sua vigoria e, quando alzai lo sguardo, vidi che svettava di gloria vicino alla mia guancia. 


Che dovevo aspettare ancora? In un attimo le mie labbra furono intorno a quella cappella che pareva un fungo pronto a scoppiare e, dopo averlo infilato in gola il più possibile, mi lanciai nello spompinamento più desiderato della mia vita.


Mentre procedevo nella mia opera, vidi che le mani del bel manzo svedese iniziavano a tremare e poi stringersi a pugno, tanta era l’eccitazione che gli percorreva il corpo. Di certo avrebbe voluto cingermi la testa per accompagnare il ritmo della mia bocca, ma per fortuna i lacci parevano ben saldi, così da impedirgli di ritrovarsi tra le mani i miei capelli a spazzola, invece della chioma fulgida della sua padrona.


Quando finalmente venne, fu come se avesse ceduto una diga che aveva compresso tutta quell’energia per troppo tempo. I primi fiotti mi schizzarono direttamente in gola, rischiando di farmi tossire e rovinare tutto, ma ci voleva ben altro per vincermi. Con l’avidità di un bambino che si lancia su un gelato, mi gustai quella meravigliosa crema scandinava, continuando a succhiare anche quando non ne usciva più.


In tutto questo, mentre lui godeva come un toro in calore, mentre con la mano sinistra gli reggevo l’asta che continuavo a leccare, con la destra mi torturavo i gioielli di famiglia, fino a venire nelle mutande quasi in sincrono con lui, reprimendo il più possibile i gemiti.


“Ti ringrazio padrona” fu tutto ciò che riuscì a dire, sfatto dal piacere.


Cose da matti! Quella stronza aveva avuto il coraggio di andarsene via senza farlo godere, quando io avevo passato gli ultimi mesi della mia vita in silenzio sull’uscio della sua camera da letto, sognando di poterlo venerare e dargli tutte le sacrosante soddisfazioni che si meritava.


Gli diedi giusto il tempo di tirare un attimo il fiato e ricaricare l’arma e di nuovo mi avventai su quell’arnese succoso, deciso a cominciare il secondo round.


Mentre succhiavo come se non ci fosse un domani, una voce nella stanza ci fece trasalire. Io rischiai dalla paura di recidergli il cazzo con un morso, mentre lui si irrigidì come paralizzato.


“Magnus!”


Mi girai di scatto verso la porta e intravidi nell’oscurità lei, la megera, la padrona con un pacchetto di sigarette in mano. Allora non era andata via, si era solo assentata per un po’.


Magnus riconobbe la sua voce e iniziò ad agitarsi. 


“Padrona, essere tu? Chi con noi essere stanza?” Dallo spavento aveva perso anche quel poco di italiano che sapeva.


La donna, formosa e imponente, svettante sui suoi tacchi ben oltre il metro e ottanta, mi scrutò inizialmente con sguardo gelido. Le sue pupille brillavano come quelle dei gatti, quando la luna vi si riflette dentro.


Era arrivata la fine. Magnus era gentile, ma quando si incazzava sapeva far paura. Mi avrebbe di certo stritolato in quei bicipiti da bisonte svedese, e stavolta non sarebbe stato bello subire la sua potenza come nelle mie fantasie.


Prendendomi di sorpresa, però, la padrona mi rivolse un sorriso divertito e compiaciuto. Credo di esserle stato subito simpatico.


“È Victoria, una mia carissima amica. Ti avevo detto che con me non ti saresti annoiato. È una sorpresa tutta per te. E adesso basta domande, schiavo. Accetta tutto senza fiatare.”


Magnus si tranquillizzò e l’amazzone mi riservò adesso un sorriso aperto e complice. Si avvicinò al letto con la stessa silenziosità di quando era rientrata a casa cogliendoci di sorpresa e infilò all’improvviso le sue unghie nell’ombelico di Magnus, che inarcò la schiena dallo spavento, oltre che dal dolore.


Quando la vidi che si avventava coi suoi denti bianchissimi e splendenti sui poveri capezzoli dello stallone, non me lo feci ripetere due volte. Mi fiondai sulla verga che intanto si era rifatta tosta all’inverosimile, come a reclamare la mia zona d’azione, il mio pezzo esclusivo. Poteva avere tutto il suo corpo da torturare e martoriare, purché mi lasciasse la mia parte preferita, l’unica alla quale fossi veramente interessato. 


Passammo così una buona oretta a lavorarcelo, come una vera squadra implacabile. Lei se lo torturava tutto per bene, assicurandomi così una mazza sempre in tiro e io gli davo la giusta soddisfazione che una tiranna come lei gli avrebbe altrimenti negato.


Magnus assecondava la mia testa con amplessi del suo basso ventre, cercando il più possibile di strofinarmi la cappella sul palato, cosa che evidentemente lo faceva impazzire e io facevo di tutto per dargli appena questo piacere, spostando la bocca sul più bello, quando sentivo che stava per esplodere. La lezione della padrona iniziava a dare i suoi frutti anche su di me. Vicino a lei mi sentivo più sicuro e più stronzo.


Quando ci accorgemmo che era talmente sfinito da rischiare di portarlo al collasso, con uno sguardo complice decidemmo che era arrivato il momento di salutarci.


“Victoria adesso va via” fece la padrona col suo solito tono imperioso “salutala col miglior bacio che tu abbia mai dato.”


L’avevo ingiustamente considerata una stronza e invece non c’era limite alla generosità di questa donna. Con fare quasi commosso mi avvicinai alla bocca di Magnus e serrai le mie labbra sulle sue, che ricambiarono col bacio più bello e romantico della mia vita. Dopo essermi succhiato le sue palle fino all’ultima goccia, mi succhiai anche la sua lingua più a lungo che potei, ben conscio che sarebbe stata la prima e ultima volta. 


Nell’andarmene in camera mia, passai vicino a quella donna che, dovetti ammetterlo, era bellissima e fui quasi tentato di abbracciarla, tanto le ero riconoscente, ma lei mi prevenne con uno dei suoi sorrisi smaglianti a trentadue denti e una strizzatina alle mie palle, che mi fece sghignazzare.


La mattina seguente attesi a lungo che Magnus si alzasse dal letto per fare colazione insieme, ma visto che tardava, iniziai a sbattere le uova e gli preparai un portentoso zabaione, di quelli che resuscitano anche i morti.


Entrato in camera sua lo trovai sveglio, disteso a letto a fissare il soffitto. Troppo stanco per riuscire ad alzarsi.


“Ti ho fatto lo zabaione, Magnus” gli dissi con tono allegro, andandoglielo a posare sul comodino. 


Lui mi fissava con occhi inquisitori. 


“Tu non fare colazione con me?”


“No” gli risposi uscendo dalla stanza, col sorriso più bastardo di cui fossi capace, mentre lui continuava a seguirmi con lo sguardo serio. Devo ammetterlo, la padrona aveva fatto proseliti e io ero ormai un suo fiero allievo.


“Ho già mangiato a sazietà per questa mattina. Un cornetto enorme con tanta, tanta crema.”


 


Tratto dalla raccolta “Mas(chili)turbamenti” di Sylar Gilmore, edito da Eroscultura Editore

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