Era un desiderio che da tempo stavo coltivando. A trentaquattro anni, mi dissi, forse la passione è maturata al punto giusto da poter essere espressa nel migliore dei modi. Sia ben chiaro: di chiavate all’insaputa di mio marito me n’ero fatta un sacco. Praticamente ero la puttana del reparto frutta al centro commerciale cittadino. Non mi importava chi fosse il collega con cui dovevo fare sesso, se fosse giovane o no, se fosse brutto o piacente. Volevo farmeli tutti e questo feci, ripetendo più volte il giro.

Tra i maschi si vantavano delle loro prestazioni con me, ma ero cosciente che erano davvero scarsi: due botte e schizzata tra le cosce.

Nostro figlio, il nostro unico figlio, non sono ancora nemmeno sicura sia di quel minchione di mio marito. Uomo che ho sposato solo perché avevo appreso mi avrebbe lasciata libera di fare quel che volevo e mi avrebbe dato una posizione.

Essendo la caporeparto, i sottoposti se la tiravano di essersi fatta “il capo”, o meglio: la moglie del capo. Mio marito, l’ameba, è proprietario (grazie agli sforzi e al lavoro del padre) di tre mini market sparsi per la città. In questo, il più grande, dirige le cose.

Lui è più piccolo di me di sette anni. Non ha mai creduto possibile che una donna piacente come me, avesse interesse per uno come lui.

Anche da fidanzati gliene ho messe di corna. Con chiunque. Facevo in modo che a fottermi duro fossero persone della sua cerchia di amici o conoscenti, persone a lui vicine in qualche modo, che potessero riferirgli gli atteggiamenti da zoccola traditrice della sua donna.

Questo non mi bastava più. Il passo successivo sarebbe stato quello di farmi ficcare da più cazzi in tiro possibile, davanti a lui. Non avevo intenzione di chiederglielo, di sapere se fosse d’accordo o meno. Avevo progettato tutto.

Poco lontano da dove vivevamo, in un luogo nemmeno tanto appartato, c’era un prato, un parcheggio abbandonato, per essere precisi, in cui le persone si incontravano per scopare. Uomini e uomini, donne e uomini, scambi, trans. L’idea era quella di andare lì in macchina, scendere e farmi prendere da chi lo desiderasse, anche, soprattutto, senza preservativo, mentre lui guardava, con me che ricambiavo fissandolo negli occhi. Non volevo però si insospettisse: doveva essere una “sorpresa”. Non potevo, perciò, vestirmi con abiti troppo corti, scollati o truccarmi pesantemente. Una camicetta, la giacca e un jeans sarebbero stati perfetti. Avrei guidato io, così da non sbagliare strada e fare in maniera che non potesse non portarmi dove volevo. Insomma: dovevo porlo di fronte al fatto compiuto!

Giunti sul posto sarei scesa, avrei abbassato di poco i pantaloni, mi sarei messa prona con le mani sul cofano davanti e avrei atteso che, a uno a uno, i cazzi avrebbero cominciato a entrare e uscire, sporcandomi di sborra dopo ogni ficcata, sicuramente breve e insoddisfacente, ma non era godere delle minchie dure di quei porci che mi interessava, volevo godere nel vedere umiliato, cornuto e sicuramente eccitato, quell’impotente di mio marito mentre la moglie, e in quell’occasione ne sarebbe stato certo, veniva sbattuta forte da altri, come già in passato era avvenuto, e delle voci glielo avevano fatto sapere.

Ero un po’ nervosa, quella sera, lo ammetto. Un conto è immaginare tutto così come dovrebbe filare, un altro, poi, è la verità, gli eventi che si verificano in base alle nostre azioni.

Mi attizzava l’idea sentire la pancia graffiata dalle capocchie di perfetti sconosciuti, le tette strette fino a farmi male, ma, non avendo una sfera di cristallo, non potevo prevedere la reazione di mio marito. Avrebbe fatto una scenata? Se lo sarebbe menato? Avrebbe fatto a botte con quei tizi? Avrebbe riempito di botte me? Tutte incognite che potevano verificarsi. Nulla era scontato.

Mi vestì in maniera semplice, come prefissato nel mio piano. Passai sulle labbra un po’ di rossetto rosso. Lui era sotto la doccia. In quell’istante mi balenò un’idea niente affatto male. Attesi che uscì. Era nudo. Il cazzetto gli ballava ridicolo tra le cosce. Oltre le statue disseminate in giro nel mondo, mio marito era l’unico ad aveva il pisello più piccolo dei coglioni. Comunque, attesi che si vestì e una volta che ebbe terminato, senza dirgli nulla, mi inginocchiai, lo guardai negli occhi e glielo tirai fuori, cominciando a succhiare la lumachina che, come sempre o quasi, non si drizzò. L’imbecille spingeva, dandomi dei colpi col bacino, come se in bocca mi stesse ficcando il cazzo duro di un cavallo. Nemmeno lo avvertivo. Ero stata soffocata da ben altri calibri!

Lui per godere godeva e questo doveva accadere. Glielo portai al punto giusto. Non lo finì, non lo feci sborrare: mi serviva eccitato.

Tirai indietro la testa, lasciandogli il rossetto sulla cappella. Lui me la strusciò sulla bocca, sbafandomi quel che rimaneva del rossetto. Lo lasciai fare e non mi ricomposi passando un’altra volta il lipstick.

Quell’espressione da puttana da strada mi aveva fatto bagnare i pantaloni. Ero senza mutande e tra l’interno coscia apparvero delle macchie di umido. Mio marito se ne accorse e cominciò a segarsi. Dovetti fermarlo, cosciente che avrebbe sborrato a fontana da lì a qualche secondo. Se così fosse successo, il mio piano sarebbe saltato completamente. Mi veniva da ridere sapendo quello che stavo per fargli e che lui non se ne rendeva conto. Credeva di essere un uomo, ma non era neanche capace di farselo venire in tiro per soddisfare la moglie, che doveva concedersi ad altri, incapaci e impotenti come lui (uomini di merda), per sentirsi quantomeno desiderata.

Mi rialzai e gli bloccai la mano, quando provò a passarla sulle labbra, come a volermi dire di tornare a mettere un altro po’ di rossetto. Capì che non volevo e fu lì, glielo lessi nello sguardo, che intuì appena appena ciò che avevo in mente: qualcosa fuori dal normale. Non poteva nemmeno lontanamente ipotizzare che sarebbe stato uno spettatore ferito a morte e allo stesso tempo eccitato come uno stallone da monta, nel guardare e basta sua moglie ficcata a sangue da altri mezzi uomini.

Rossella, la babysitter, arrivò puntuale come al solito. Notò, non poté farne a meno, la sbavatura sulle mie labbra. Il sorriso da cretina che aveva stampato sul viso, scomparve in un istante. Suppose che avevo sparato una pompa a mio marito e credeva non mi fossi accorta di come ero conciata. Povera stupida! Se mi girava avrei attaccato al muro pure lei e le avrei messo in bocca la figa pelosa, costringendola, tra le lacrime, a leccare e bere ogni goccia che mi avrebbe fatto fuoriuscire.

Mi sentivo su di giri. Un paio di volte avevo anche tirato su col naso un po’ di cocaina, ma quella sera la sensazione che provavo era qualcosa che non conoscevo. Ero bagnatissima e il bello doveva cominciare.

Ebbi una sola accortezza: quella di non baciare sulla fronte nostro figlio, come sempre facevo prima di uscire. Non ci riuscì. A tutto c’è un limite. Il suo visino felice mi riportò alla realtà e tremai al pensiero che le mie azioni, un giorno, avrebbero in qualche maniera potuto nuocergli. Già le voci (veritiere) sul mio conto non erano certo lusinghiere, ma a me non interessava, il brutto sarebbe stato se per causa dei miei atteggiamenti da puttana, mio figlio sarebbe stato umiliato e maltrattato in futuro, dovendosi vergognare di me, sua madre.

Incrociai la mia immagine allo specchio posto sul mobile della cameretta del piccino. Bastò quello per cancellare ogni esitazione. Appresi in quel medesimo istante come mi sarei fatta combinare e a fanculo ogni cosa!

Uscimmo. In ascensore attaccai mio marito alla parete e gli strinsi i coglioni. Lo bloccai col peso del mio corpo, schiacciando il seno contro al suo petto e fermandomi con la mia faccia a pochi centimetri dalla sua. Gli facevo male e gli piaceva. Lo lasciai in pace solo quando la porta dell’ascensore si aprì.

Mi sedetti in macchina dal lato del conducente. Non proferì parola. Gli piaceva questo mio improvviso e inaspettato modo di fare. Gli sarebbe piaciuto meno tra qualche minuto.

Lungo il tragitto non mi disse nulla, neppure quando si accorse che prendevo una strada che non portava al centro città.

Nel percorso che ci avrebbe condotti allo spiazzo, si intravedevano auto ferme poco oltre il ciglio della strada ormai sterrata, segno che eravamo fuori da quella che chiamiamo civiltà e che ci eravamo addentrati nel mondo della perdizione.

Parcheggiai dove c’erano più veicoli. Azionai gli abbaglianti e scesi dalla vettura, mettendomi di culo, con le mani poggiate sul cofano davanti, in bella vista. Non tardarono ad arrivare tre uomini. Dei panzoni di oltre cinquant’anni. Avevano la minchia moscia di fuori. Se la menavano, senza riuscire a farlo indurire. Presi con entrambi le mani i loro cazzetti, mentre il terzo me lo appoggiava contro le natiche. Feci un po’ di volte su e giù, velocemente, e la sborra mi colò sulle mani, densa. Mio marito era pietrificato. Aveva la bocca aperta e non sapeva cosa fare. Certo fu che non fece nulla per impedirmi di comportarmi come stavo facendo.

Fatti sborrare i primi due, feci la stessa cosa col terzo. Anche qui un paio di colpi su e giù con la mano e la sborra mi finì sulla pancia. Nemmeno il tempo di arrivare e ne avevo fatti fuori tre.

Altri due si avvicinarono con la minchia tesa. Questi erano messi piuttosto bene. Uno, il primo, però, sborrò non appena mi inginocchiai per spompinarlo, facendomi schizzare la sua sborra calda sulle tette. Non aveva un bello schizzo. Al secondo riuscì a succhiarglielo per qualche secondo dopodiché, mi sborrò dritto in gola. Mi fece strozzare e vomitai. Non mi piaceva il suo sapore, mi faceva schifo. Avendo capito che in quel punto c’era un puttana in calore, uomini e donne si apprestarono, chi ad assistere e chi a partecipare allo spettacolo.

Iniziarono a entrare e uscire dalla figa, che era un lago, i primi cazzi mezzi mosci di tizi che, senza preservativo, ficcavano e sborravano, come in una catena di montaggio. Qualcuno me lo infilava in bocca, altri me lo mettevano in mano, chi mi palpava le tette mentre mi avevano ormai messa supina sul cofano. Mio marito aveva finalmente cominciato a farsi una pugnetta. Andava veloce col braccio. Non volevo venisse prima che avessi finito gli uomini a diposizione.

Mi sentì ancor più eccitata quando mi accorsi che in tanti mi stavano riprendendo col cellulare. Realizzai che sarei finita su internet. La cosa mi faceva al contempo paura e piacere.

Fino a quel momento non avevo mai immaginato che la mia pancia potesse contenere tutto quello sperma.

Andai avanti per un paio d’ore. Due ore di chiavate da sconosciuti. Probabile che qualcuno mi ficcò anche più di una volta.

Quando mi lasciarono in pace. Non riuscivo a stare sulle gambe. Spinsi col ventre e fece uscire un bel po’ di sborra dalla figa. Mi scivolò tra le cosce. Fu in quell’istante che udì gemere mio marito. Aveva sborrato pure lui. Ero sporca e mi sentivo sporca. Adesso che l’eccitazione era passata, mi vergognavo nel dover tornare a casa in quelle condizioni ed essere vista e giudicata dalla babysitter. Ero ridotta davvero male, peggio di una puttana negra da strada.

Salendo in macchina vidi per la prima volta una piena erezione di mio marito che, nonostante avesse appena svuotato i coglioni, ancora ce lo aveva in tiro. Me lo infilò anche lui. Senti del dolore. Mi avevano aperta fino a pochi secondi prima e un altro cazzo nella patata faceva male. Spinse duro, facendomi sentire che anche lui era un uomo. Gli scivolava dentro con facilità, bagnata com’ero dalla mia eccitazione e dalla sborra di tutti quelli che mi avevano sbattuta.

Me ne restavo inerme a farmi ficcare. Non mi venne in pancia ma sulla faccia, chiamandomi puttana e dicendomi che era lui che comandava. Mi sbatté quella che fino poche ora prima era stato un cazzetto di ridicole dimensioni mai completamente dritto, sul viso, facendomi avvertire che mi stava punendo, bastonando, sottomettendo. Il cazzo ce lo aveva lui e lo avevo capito. Fu l’ultima volta che lo umiliai. Da quel giorno feci tutto ciò che mi ordinava: ero divenuta la sua cagna fedele.
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