Quando Mario mi venne addosso e cominciò a succhiarmi le tette, come spesso aveva fatto quelle sere d’estate, uno strano formicolio mi prese dall’inguine, attraverso il ventre, fin quasi allo stomaco e violenti strizzoni mi fecero quasi temere un malore; ma era soltanto la mia sessualità che si scatenava; me ne resi conto non appena lui appoggiò il palmo aperto di una mano sul monte di venere e con un dito andò a solleticare, nella fessura della vulva, il clitoride già gonfio e quasi dolorante; l’orgasmo che mi esplose non lo avevo mai registrato prima; superava in intensità, in ampiezza, in durata qualunque cosa avessi provato fino a quel momento: senza un perché, ebbi la sensazione che fosse arrivato il momento di fare le cose perbene fino in fondo e che, quella sera, sarei stata sua per sempre.
Quando si distese lungo su di me, pressandomi col corpo gli arti corrispondenti, diventai un brivido solo che agitava tutte le parti del mio corpo, dalle braccia alle gambe, dal seno al ventre e, soprattutto, all’inguine e all’apparato genitale; sentii che anche Mario fremeva con la stessa intensità e che tentava coi baci più profondi e sensuali che poteva, di frenare quel bollore che ci animava tutti e due; allungai una mano fra noi due, per arrivare alla massa di carne che mi premeva sull’inguine e mi trovai a prendere in mano un randello, che mi apparve addirittura più grosso della stessa mazza, quando l’avevo presa in mano per masturbarla o in bocca per una approssimativa fellatio, che avrei imparato a praticare tempo dopo; quel batacchio che mi riempiva la mano debordando da ogni parte era mio, lo sentivo vivo e palpitante chiedere quasi ospitalità al mio corpo; lo appoggiai tra le cosce, bene accosto alla vulva, e mi ci strusciai un poco voluttuosamente.
Mario inserì anche lui una mano, prese la verga e ne diresse la punta verso la fessura della vulva, semplicemente spostando il filo di stoffa del tanga che avevo indossato: la progressione del sesso, che penetrava in me, mi dava continue e incessanti emozioni di piacere che fulminarono il cervello; vidi nero e poi sentii scoppiare nella testa fuochi d’artificio che si trasformarono, negli occhi chiusi, in girandole di colori mai visti; il bruciore nella vagina, quello che segnava la rottura dell’imene, fu un momento quasi fuggevole, che avvertii con grande intensità e comunicai a lui urlandogli ‘amore, sono tua’ che scatenò la sua bestialità e lo indusse a spingere quasi con violenza l’asta fino in fondo all’utero, al limite estremo di contenimento; lo abbracciai con passione e mi spinsi con forza contro il suo ventre fino a che la mia vulva fu appiccicata ai suoi testicoli; ebbi due orgasmi consecutivi, di cui il secondo decisamente definitivo; poi schiantai languida sotto di lui, quasi raccogliendomi per essere tutta sua; purtroppo, ci disse male: non ci eravamo protetti, era venuto dentro di me e qualche settimana dopo arrivò la diagnosi temuta; ero nel periodo di massima fertilità e la copula aveva prodotto l’inseminazione che significava maternità e necessità di provvedere in tempo al matrimonio.
Mario per fortuna aveva già avviato la sua attività di piccolo imprenditore edile ed era in condizione di mantenere la famiglia; il problema ero io, che mi ero appena iscritta all’Università e avevo ancora quatto anni di studio per la laurea in Lettere; ma la tenacia di Mario, quel carattere meraviglioso di cui mi ero innamorata, sostenne le sue decisioni e le sue scelte, sia nell’assumersi la responsabilità della maternità precoce, sia nel garantirmi che avrei potuto studiare senza problemi o preoccupazioni di sorta: anziché essere un ostacolo al nostro amore, la mia frequenza all’Università divenne una sorta di gioco a cui partecipavamo tutti e due, affrontando serenamente le diverse sessioni d’esame, che superai di corsa tutti quanti ed arrivai nei termini previsti a laurearmi, non solo, ma anche, per una serie di fortunate coincidenze, a superare un concorso abbastanza arduo che mi avviò immediatamente all’insegnamento, addirittura in una scuola media della nostra città.
Intanto Mario si era tuffato anima e corpo nell’attività della sua azienda e vedeva di giorno in giorno crescere i risultati del lavoro, il reddito, ma anche l’impegno; per i quattro anni di Università, non mi riuscì mai di fermarmi a riflettere sulla nostra vita quotidiana e quasi non mi accorsi di come le nostre esistenze prendevano vie completamente diverse, io presa dalla smania di partecipare a vicende culturali della città non sempre o non del tutto coerenti con la mie reali necessità; e Mario immerso fino ai capelli nei giochi di lotta per conquistare commesse e incarichi, per partecipare a concorsi e costruire edifici e strutture sempre più impegnativi; soprattutto nei rapporti personali, quelli sessuali per primi, le distanze si facevano nette; praticamente, l’entusiasmo, il senso di avventura e la tenacia che avevano reso Mario un mito per me diventavano adesso la memoria di un passato che gli rimproveravo; la produttività e l’impegno nel lavoro che per anni mi avevano consentito di fare il mio percorso ora diventavano l’ostacolo alla nostra serenità di vita; quello che era peggio, poco mi curavo di Cristiano, nostro figlio, che lasciavo affidato alle babysitter senza assumerne responsabilità e delegando ogni cosa a suo padre.
La frequentazione assidua degli eventi culturali in città mi portava inevitabilmente ad assentarmi quasi tutte le sere per una cena, un incontro, un dibattito, una conferenza o una qualsiasi occasione pubblica; Mario non mi fece mai nessuna obiezione, forse perché ingenuamente credeva alla mia convinzione che la mia presenza fosse imprescindibile, come se da me dipendesse la cultura del Paese; poche volte mosse delle obiezioni sulla eccessiva frequenza di queste occasioni che mi portavano a disinteressarmi completamente della casa, di lui, ma soprattutto, di nostro figlio; arrivai a minacciare di lasciarlo e andare via, se cercava di frenare il mio entusiasmo culturale; mi invitò ad uscire e a non rientrare più, limitandomi a rinunciare a qualsiasi pretesa sul suo lavoro e sulla sua vita; mi fermai in tempo, prima di decidere la rottura, ma era chiaro che mancasse solo la spinta finale, un innamoramento, un rapporto alternativo, un adulterio insomma; e non tardò ad arrivare.
Quasi per caso, una presenza alle manifestazioni diventò quasi fissa, ed era quella di un giovane imprenditore, che conoscevo come avversario di Mario in alcuni concorsi; aveva la stessa età di mio marito ma sembrava animato da una fantasia creativa assai più alta e nobile, sembrava si si occupasse di filosofia e di poesia anche se rivelava pecche enormi, mi corteggiava con un garbo ed una eleganza che mi solleticavano assai più delle distratte osservazioni di Mario; sapevo che rischiavo di cedere alle sue lusinghe, eppure non feci niente per frenarmi ed anzi lo incoraggiai abbastanza apertamente, con uno scambio serrato di impressioni e di note che mi portarono ad accostarmi pericolosamente; la sera che, approfittando di un particolare motivo musicale che stava suonando l’orchestrina nel bar dove ci eravamo fermati, in un separè, per bere un cognac, mi baciò lievemente sulla bocca, non ebbi la forza né di respingerlo né di dissuaderlo; la sera tornai a casa col cuore in subbuglio e fui tentata per un attimo di parlare con mio marito, forse per cercare in lui l’appoggio ad impedirmi di commettere una sciocchezza; quando lui mi propose le solite lamentele sul figlio solo e sui suoi problemi di lavoro, decisi che lo avrei lasciato.
Immediatamente il giorno seguente, feci in modo da incontrare Giorgio da sola e accettai di andare con lui a bere un bicchiere al bar di un hotel fuori città, per non dare adito a pettegolezzi: capivo perfettamente e sapevo che la scelta dell’hotel era il preludio chiaro a qualcosa che sarebbe accaduto e, quando mi prese per un braccio e mi accompagnò all’ascensore per salire al piano dove aveva riservato una camera, non feci nessuna obiezione: ‘alea iacta est’ il dado è tratto, pensai sentendomi classicamente eroina come Cesare al Rubicone.
Appena varcata la soglia della camera, Giorgio mi avvolse in un bacio stordente, al quale mi abbandonai con tutto il languore che avevo accumulato in giorni e giorni di attesa e che finalmente potevo esprimere concedendomi a lui con tutta me stessa, facendogli sentire tutta la dolcezza del mio corpo ormai maturo e pieno nelle forme più pronunciate; mi impossessai della situazione e lo presi a carezzare voluttuosamente dappertutto, dalla testa riccioluta attraverso il volto maschio fino alla bocca carnosa e sensuale; poi cominciai a spogliarlo e mi impossessai dei suoi capezzoli che succhiai e mordicchiai scatenando la sua libidine più viva ed accesa: stentava a trattenersi ed ebbi l’impressione che fosse più volte sul punto di arrivare al’orgasmo; allora decisi di lasciare fare a lui per non trovarmi di fronte ad una demoralizzante eiaculazione precoce.
Fortunatamente, ci sapeva fare ed anche molto; mi cominciò a spogliare del giacchettino e della camicetta, cavò via il reggiseno e si lanciò come un poppante affamato sulle mie tette che manipolò a lungo con passione, entusiasmo e sapienza: il modo di succhiare i capezzoli mi provocava brividi lunghi e intensi, la maniera di leccare le aureole e le mammelle mi faceva continuamente vibrare di passione; quando si staccava per un attimo era solo per manipolarle e per giocarci passandole sul sesso ancora imbrigliato nel vestito; allora gli abbassai insieme pantaloni e boxer e tirai fuori la sua bestia: non era più grossa di quella di mio marito; la stazza era la stessa, per grossezza e per lunghezza; e certamente Mario sapeva farmi godere molto di più e molto più a lungo; ma il tempo delle belle copule era passato ed ora mi restava quasi solo il ricordo (a almeno così a me pareva) e a farmi sragionare era invece la rabbia che avesse perso l’attenzione prevalente che concedeva a me più di qualunque altra cosa, figlio compreso.
Mi abbassai a prendere in bocca quel serpente godurioso e lo leccai tutto, dalla radice alla punta: il piacere maggiore era strappargli gemiti ed urletti quando passavo la lingua su certi punti che, una volta individuati, feci diventare l’obiettivo della mia fellatio e il tormentone della copula; dopo che lo ebbi tormentato a lungo con la mia leccata, ingoiai la mazza per una buona metà e cominciai a succhiare con foga; mi dovette spingere a forza la fronte indietro, per non concludere troppo presto e mi spinse supina sul letto, spogliandomi anche di gonna, calze e perizoma; Mi venne sopra e si fiondò sulla mia vulva che cominciò a lappare a lingua aperta: la capacità di passare con la lingua a spatola su tutta la superficie dal monte di venere al coccige mi provocò intense vibrazioni e piccoli orgasmi a ripetizione; gli esplosi in bocca due o tre volte, ciascuna con spruzzo violento di squirt che gli inondò il viso, sorprendendolo meravigliosamente, ed ingoiò con lussuria.
Finalmente mi venne sopra e lo sentiti immediatamente nell’utero: non pensò per un attimo a possedermi con tutto il corpo come mi ero abituata con Mario: mi ripromisi di insegnargli a copulare a modo mio, perché ormai ero decisa a non lasciare l’evento come unico episodio; mi montò abbastanza a lungo ed esplose in una ricca e densa eiaculazione con la quale mi inondò utero e vagina, facendo sbordare lo sperma anche oltre le labbra della vulva, tanto fu intensa; ci fermammo a riposare e lui lentamente riprese vigore; mentre ancora si riprendeva mi chiese.
“Ed ora?”
Mi limitai a guardarlo.
“Dimmi tu … “
“Vieni a stare con me?”
“Va bene. Telefono a mio marito per avvertirlo che non torno più da lui.”
Così, semplicemente, per telefono, comunicai a Mario che la nostra storia era arrivata al capolinea; non fece una piega; mi chiese di Cristiano; gli dissi che non potevo tirarmi dietro una tale zavorra; se ne occupasse lui; non disse sillaba, attaccò e il nostro matrimonio finì; passammo l’intero pomeriggio a copulare come scimmie e proseguimmo per qualche anno, cinque per l’esattezza, poi all’improvviso ne ebbi abbastanza anche di lui e me ne andai a stare da sola in un appartamento che avevo comprato in centro, su un progetto che avevamo avviato con Mario, per rendermi alquanto più indipendente, quando ancora i nostri dialoghi erano improntati alla fiducia reciproca e al’intenzione di armonizzarci, più che di rompere; l’assurdo di tutta la vicenda fu che, anni dopo, quando mi chiedevano quale fosse lo stato dei miei rapporti con Mario, non ero in grado di rispondere perché non mi risultava che avessimo fatto istanza di separazione legale né si era mai accennato al divorzio, per cui rimasi sposata a lui forse per sempre.
Subito dopo il mio annuncio che sparivo dalla sua vita, mio marito si diede un gran da fare per dare una sistemazione adeguata a nostro figlio; ma la sua particolare condizione lavorativa, che lo obbligava spesso a spostarsi da un cantiere all’altro, l’impossibilità di affidare il bambino alle cure di familiari, la diffidenza naturale per le babysitter, che non potevano garantire l’assistenza per 24 ore, lo obbligarono a scegliere un collegio tra i più qualificati della Svizzera, dove Cristiano, che aveva in quel momento solo cinque anni, si ambientò immediatamente come a casa sua, affidato alle suore ed a maestre competenti e eleganti; quasi non si rese conto di vivere in collegio, almeno fino ad una certa età; io, purtroppo, per i primi anni non trovai né il tempo né la volontà di andarlo a trovare, pressata anche dal mio convivente che non sopportava l’idea che avessi un figlio dal rapporto precedente; dopo i primi anni, vergognandomi come una ladra, non andai mai a trovarlo e me ne dimenticai.
Mario si occupava intensamente del figlio che spesso andava a trovare e che ogni estate portava con se al mare; in questo, aveva un aiuto validissimo in un suo collaboratore, Nicola, che aveva praticamente cominciato con lui, gli era devoto quasi sacralmente ed era anche, in qualche modo, innamorato di me, anche se si manteneva rispettosissimo al di qua dei limiti imposti dall’amicizia e dalla quotidiana frequentazione; non potevo escludere che appassionarsi alla cura di Cristiano equivalesse per lui, in qualche modo, essere anche vicino a me; nel corso degli anni, avevo anche migliorato la mia posizione lavorativa ed ero passata all’insegnamento nel locale liceo e, successivamente, avendo vinto il relativo concorso, ero stata nominata Preside dello stesso Istituto e, con mio grande orgoglio, accolta a pieno titolo nella cerchia dei cittadini notevoli: quando decisi che con Giorgio non c’era più niente da spartire, mi ritirai nel mio appartamentino a recitarmi il ruolo della dirigente autorevole in città, libera ed autonoma.
Anche Mario, però, aveva fatto un brillante percorso, ampliando la sua azienda, assorbendone altre e conquistandosi un posto di prestigio nell’Associazione degli industriali della regione, con mio sommo rammarico perché non potevo essere invitata alle importanti cerimonie organizzate da quel sodalizio, famose in tutto il territorio e puntualmente evitate dal mio ex marito che non si curava neppure di offrire una risposta o un commento agli inviti che puntualmente riceveva, preso com’era dall’esigenza del fare, contro l’inutile apparire; di mio figlio mi ero completamente dimenticata e solo per vie traverse e senza nessuna ricerca venni a sapere che si stava per laureare brillantemente, che aveva assunto la cittadinanza svizzera, che viveva e lavorava in quel Paese, stimato e riverito da molti; anche lui, ormai apparteneva ad un passato che io cercavo in ogni modo di dimenticare, talvolta senza riuscirci.
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Non è stato semplice, trascorrere praticamente tutta la vita in collegio: ci sono entrato che avevo cinque anni, quando mia madre, non ho mai saputo perché, lasciò mio padre e sparì, non ho mai capito dove, lasciandomi affidato a lui che non aveva nessuna probabilità di prendersi cura di me; fece l’unica cosa sensata che poteva fare: scelse in Svizzera il collegio più adatto e migliore possibile e mi affidò alle suore perché mi educassero; trascorsi con le suore tutta l’infanzia e l’adolescenza finché, al compimento del diciottesimo anno, mi hanno dovuto metter fuori ad organizzarmi la vita.
Non stavo male, in quell’ambiente asettico e rigido: ero entrato che neanche sapevo organizzare un mio pensiero logico e tutto si svolse come in un film già visto; il grande rammarico mio era che tutti i ragazzi più o meno spesso ricevevano la visita e l’abbraccio di una mamma alla quale erano profondamente legati; io vedevo mediamente ogni mese mio padre, sempre attento e premuroso: gli volevo un bene dell’anima; con lui trascorrevo le vacanze estive, quasi sempre in una villa al mare che probabilmente possedeva e dove giocavo volentieri coi figli del custode e coi ragazzi del vicino paesello; a venirmi a trovare assai più spesso, o anche a venirmi a prendermi per portarmi da mio padre per qualche giorno, era Nicola, un grande amico di mio padre che doveva volere a lui un bene dell’anima e quell’affetto riversava pari pari anche su di me; lui fu l’unico che, un paio di volte, di lasciò scappare qualche annotazione su mia madre che, a suo dire, era una donna bellissima e ammiratissima solo un po’ ‘scapestrata’ ma non aggiunse niente per giustificare il giudizio.
Quando arrivai tra i quindici e i sedici anni, le tempeste ormonali presero me come qualunque ragazzo della mia età e il desiderio di conoscere e toccare una donna o addirittura fare l’amore divenne una costante quasi ossessiva; i più grandi del collegio riuscimmo ad organizzare una ‘spedizione’ per ‘andare a prostitute’: non so quanta complicità ci fosse, da parte del prete, padre spirituale del convento; ma la raffinata abilità di condotta dei dirigenti me lo fece sospettare; comunque, riuscimmo a superare il cancello e quello che aveva organizzato la cosa ci portò ad un sentiero tra i campi dove un donnone ci stava presumibilmente aspettando; a turno ci accostammo e apprendemmo la prima lezione di sesso della nostra vita.
Quando toccò a me, mi avvicinai persino con terrore e sfiorai a malapena uno dei capezzoli che occhieggiava dall’abito discinto e assai improbabile della femmina; accostai la bocca e presi a succhiarlo.
“Tua mamma non ti ha allattato?”
“Io non conosco la mia mamma, non l’ho mai vista … “
“Ho capito, angelo mio; vieni da mamma tua e succhia tutto quello che vuoi: sono tutta tua … “
La prostituta amorevole aveva colto nel segno la mia personale vicenda e si regolò secondo il buonsenso: mi diede da succhiare alternativamente i due capezzoli per un tempo notevole e, contemporaneamente, guidò una mia mano alla vulva spampanata come una rosa sfiorita da giorni; intanto, lei afferrava il mio sesso estraendolo dal pantalone e lo ammirava apertamente.
“Sorbole, che bel soldatino abbiamo qua, già pronto sull’attenti; amore, vuoi concludere dentro di me?”
Feci di si con la testa, allontanando malvolentieri la bocca dal capezzolo che stavo succhiando, mi tirò a se e mi sentii scomparire con tutto l’inguine nel suo corpo grasso e flaccido; ma mi sembrò di toccare il paradiso, quando il mio pene avvertì le pareti, umide e flaccide, della sua vagina che abbracciavano il mio sesso e lo spompavano in un niente; esplosi nel mio primo vero orgasmo da copula e mi abbattei su quella massa di carne calda, umana, amorevole, bellissima in quel momento per me, sentendomi scoppiare nel cervello fulmini, saette e tutti i colori dell’arcobaleno; mi risvegliò lei con qualche carezza sul viso e con un bacio in fronte.
“Su, amore mio, ha superato la prova; vedrai che sarai un ottimo amante.”
“Grazie anche per aver finto di essere mia mamma!”
Lei sorrise e mi mandò via con uno scapaccione; fu l’ultima follia di quella mia esperienza, la vita in collegio, che aveva occupato gran parte dell’esistenza da me vissuta; pochi mesi dopo, al raggiungimento della maggiore età, mi fu raccomandato di attrezzarmi per uscire dal collegio ed entrare nella vita reale; avevo ricevuto varie offerte di lavoro congrue con i miei studi universitari e ne scelsi una: con quello che mi pagavano potevo tenere un tenore di vita medio - alto, senza contare che sarebbe bastato chiedere soldi a mio padre e non avrebbe esitato un attimo a darmi quanto potesse servirmi; ma da subito stabilii con me stesso che avrei cercato di farcela con le mie forze senza ricorrere ad aiuti facili ma poco decorosi, se volevo costruirmi una vita indipendente dal portafogli di mio padre; lui capì, fu d’accordo e mi pregò di chiamarlo se solo avessi avuto accenni di necessità, perché non voleva caricarsi della colpa di abbandonarmi.
Vissi alcuni anni, pochi per la verità, nel paesetto dove aveva sede il collegio ed ottenni anche la cittadinanza e la nazionalità svizzera, perché per quasi quindici anni avevo vissuto lì; mi impegnai nel lavoro, forse al di là delle necessità, e in breve raggiunsi un certo riconoscimento della proprietà, per l’applicazione e per la competenza, che nasceva soprattutto dal tipo di laurea che stavo conseguendo.
La svolta fondamentale, quella destinata a sconvolgere tutta la mia esistenza, si verificò inattesa, poco prima del mio ventiquattresimo compleanno; a sorpresa, vennero a trovarmi mio padre e Nicola, ambedue con l’aria di chi ha delle notizie importanti da riferire; mi chiesero di pranzare insieme e, dopo il pranzo, mio padre mi comunicò che aveva costituito, muovendosi ai limiti della legalità, diversi castelletti bancari all’estero, uno in Svizzera e altri sparsi un po’ dappertutto; in particolare, in un Paese del Sudamerica aveva acquistato un edificio che aveva adibito a sua abitazione e creato i presupposti economici per vivere una pensione dorata per il resto dei suoi anni.
Mi meravigliai non poco, perché sapevo che, avendomi avuto a vent’anni circa, aveva non più di quarantaquattro anni, un’età in cui si produce al massimo, non ci si pensiona; mi confessò che si sentiva stanco di come la vita lo aveva bistrattato; gli presi la mano sapendo bene che il riferimento primario era a me e a mia madre; mi rassicurò che io non ero il problema, forse piuttosto la soluzione; per quanto riguardava la ex moglie mi suggerì di non cercarla per evitarmi noie e delusioni; poi concluse però che dovevo fare come volevo io e che potevo contare su Nicola se avessi avuto voglia o bisogno di rintracciarla; ad ogni modo, il motivo per cui mi aveva voluto parlare era che, prima di andarsene in pensione, doveva decidere se disfarsi dell’Impresa o se passarla di mano; se doveva disfarsene, aveva già molte offerte, specialmente di multinazionali, e poteva chiudere in un giorno; tutto il ricavato sarebbe andato a me che ne avrei fatto quel che volevo, alienando anche alcuni immobili, dei terreni ed alcuni beni mobili in cassaforte; se doveva dare ascolto a Nicola, che si batteva per non fare morire l’attività, l’unica ipotesi che poteva formulare era che io accettassi di sostituirlo nella proprietà e nella direzione di tutto il colosso che il lavoro aveva prodotto.
Sapeva quali studi stessi completando e che ero in grado di valutare immediatamente la proposta; si fidava di me e si affidava anche a Nicola per la scelta migliore; gli proposi di fermarsi una notte e di aspettare che mi consultassi con l’A D della Ditta dove lavoravo; l’indomani avrei deciso se salutarli ed augurargli buon riposo o se tornare in tre in Italia, nel quale caso io mi facevo carico con Nicola dell’eredità di mio padre, tutta intera; fissarono la camera e andarono a riposare, perché il viaggio era stato lungo; io andai in Ditta e chiesi di parlare con l’A D che già aveva rivelato una particolare simpatia per me; gli posi il problema e lo vidi sbarrare gli occhi.
“Il signor Mario Rossi è suo padre? Lei non sa che da anni corteggiamo quella Ditta per avere una sponda in Italia e creare un pool sovranazionale in grado di collocarsi ai vertici nella corsa agli appalti e ai contributi europei? Finora non avevamo trovato risposte soddisfacenti forse perché o non si fidano di noi o non hanno fiducia in se stessi e non vogliono spingersi troppo oltre; egoisticamente, non posso che suggerirle di prendersi in carico l’attività di suo padre: se proprio pensa di non farcela a reggere, noi non siamo oggi in condizione di pagare la somma che quell’Impresa vale sul mercato, ma in qualche modo un aggiustamento lo si trova; se invece ritiene di poter affrontare la sfida di dirigere una grande Azienda, stia pur certo che saremmo pronti a sostenerla con suggerimenti e personale adeguato: insomma, mi faccia dire fuori dai denti che lei, come proprietario, è una garanzia per le maestranze, per l’attività e per il futuro della Ditta: non stia a pensarci, accetti e dica a suo padre di godersi la vacanza anche da parte nostra.”
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Aggiunto: 4 anni fa
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Incesti