L'odore dell'Autunno alle porte dava alla festa di fine Estate un volto malinconico. Dai vicoletti, una leggera brezza notturna si riversava sull'antica piazza centrale creando qua e là mulinelli di fogliame caduto anzitempo e un tiepido vortice di piacevole frescura a contatto con la pelle dei visi accaldati.
Le coppie, in quell’enorme spazio circondato dagli antichi edifici d’epoca medievale e allestito, per l'evento, a pista da ballo, solevano dissolversi alla fine di ogni canzone per rimescolarsi, come in un enorme mazzo di carte variopinto, a quella successiva. E durante le brevi pause, tra una ballata e l’altra, gli uomini prendevano a farsi largo freneticamente tra le camicie mollicce e le fronti perlate di sudore dei presenti, nel tentativo di raggiungere e strappare la promessa di un ballo alle donne più audaci e "chiacchierate" nei bar del paese. Talvolta qualcuno inciampava cadendo rovinosamente addosso agli altri e tra risa e urla di scherno, zuffe e scaramucce esplodevano assai fragorose per finire allegramente tra brindisi, strette di mani e pacche sulle spalle. Eppure in ognuna di quelle goliardate sembravano sostare, a mezz’aria, piccoli cumuli insanabili di antiche invidie tra parenti, amici e colleghi che ognuno si trascinava dietro a mo’ di vessillo, pronti a sfoderarlo alla prima occasione.

«Guarda là!» esclamò Sabrina indicando con un cenno del mento la folla per abbracciarla tutta nella sufficienza di uno sguardo altezzosamente distratto, richiamando l’attenzione a quella parte di sé che da sempre l'accompagnava sotto le spoglie di un enorme vuoto "dentro", un abisso nell'anima che tutto mastica senza lasciare tracce, ma soltanto ricordi accartocciati e gettati via in un angolo dimenticato della vita.
«Guardale là!» ripeté con un filo di voce verso quella folla ciondolante come spighe di grano acerbe sferzate dal vento primaverile nelle notti di luna piena «sembra la carcassa di un'enorme carogna questa piazza, un verminaio di vacche e tori che si sbattono l'un l'altro come palle da biliardo». E così pensando si sporse di slancio dal palchetto arricciando il naso e strabuzzando gli occhi per aguzzare meglio la vista. Cercava suo marito sceso ormai da tempo in pista per ballare. Avvertì un gran bisogno di qualcosa di forte, qualcosa in grado di offuscarle la mente. « Un drink » esclamò a voce alta e subito tacque guardandosi intorno con la speranza di non essere stata udita e scambiata per una pazza. Desiderava ardentemente una di quelle bevande dal sapore intenso e dai profumi cloroformizzanti in cui spegnere quel lucido solletico della ragione che la rendeva prigioniera di un'anima da scolaretta in un istinto d’autentica mignotta.

Quegli stramaledetti pensieri che sapevano tanto di epica moralità le nascevano dentro spontanei da tempo immemore con lo stesso impeto e la stessa perseveranza della gramigna. Una sorgente oscura, eterea, spiritualmente radicata alle viscere della sua esistenza le impartiva consigli a cui non riusciva mai di opporsi, ma che anzi la rendevano di aspetto sempre troppo serio, composto e misurato. La sua personalità marcatamente introversa da sempre le impediva l'abbandono a qualunque forma di piacere come un abbraccio, una carezza, un bacio, una parola di conforto o di addio o di gettarsi, in questo caso, tra le braccia anonime di un ballo tra la folla. Si sentiva continuamente osservata anche nei luoghi deserti. In lei la felicità aveva le sembianze di miraggi così follemente vacui da sconfinare oltre gli orizzonti di una paralizzante distesa di timidezza mobile in cui finiva sempre per impantanare ogni suo piccolo desiderio fino al collo.

Malgrado il clima festoso, la musica, gli schiamazzi, le risa e l’aria imbrattata del miscuglio di profumi nobili e acqua di colonia proletaria, il suo carattere introverso la fece naufragare assorta nell’oceano placido dei suoi pensieri, lasciandole assumere le sembianze di un essere così distaccato dal contesto che a guardarla si avrebbe avuta la sensazione netta di scorgere un clown tra le prefiche “chiangimorti” di una funzione funebre. Il suo istinto primitivo approfittò allora dell'assenza della ragione per afferrarle le redini del corpo affinché assumesse una posa più rilassata. Sovrappensiero si inarcò leggermente accomodando i gomiti sulla ringhiera in ferro battuto, la cui trama stretta di decorazioni l'aveva colpita fin dal primo istante in cui mise piede in piazza: lo stile liberty le ricordava molto quella nella casa della nonna paterna. Da piccola e fino ai diciannove anni era infatti solita trascorrere il periodo della vendemmia nella magione storica di famiglia e amava affacciarsi dal poggiolo per contemplarne l'enorme terreno antistante coltivato a vite quando baciato dalle tonalità calde dei tramonti autunnali. Non di rado le capitava che nell'atto di protendersi verso il vigneto per meglio scorgere i grappoli d'uva matura, tra il fogliame ancora verde, le passasse alle spalle suo cugino che puntualmente le accarezzava il culo. Le piaceva segretamente quella sfrontatezza che rompeva il muro delle regole morali. Di quel fustacchione moro dagli occhi chiari, sfacciato e sempre abbronzato, dalla barba incolta, ma non così folta da nasconderne i delicati lineamenti, se ne era irrimediabilmente infatuata. Per lungo tempo e fino a quando il giovanotto non venne traferito nella City londinese per occupare una posizione rilevante di un importante istituto finanziario, fu di lui l'immagine impressa nei suoi pensieri che l'accompagnavano nei momenti di intimo erotismo. E durante le lotte scherzose tra i due, lei amava affondare le mani nei capelli di lui perennemente spettinato in uno stile tra il mosso e l’arruffato che gli donava un aspetto sornione, dolce, di uomo appena sveglio dopo un lungo riposo. In quei momenti di lotta gioiosa si toccavano e ne erano perfettamente coscienti; si esploravano ed entrambi ne uscivano vittoriosamente eccitati; si cercavano e si premevano l'uno sull'altra non per aprire varchi e poi riempirli, ma per quella indefinibile soddisfazione di stanare spazi proibiti e depredarli di quella tacita inviolabilità che il legame di sangue impone.
«Chissà dov’è» si chiese provando un pizzico di sobria malinconia.
E il ribollio continuo, costante, martellante di questi pensieri che le ronzavano in testa, le fecero dimenticare lo spazio e il tempo intorno a sé. Ridestandosi ebbe la sensazione di aver trattenuto il respiro così a lungo che si stupì di essere ancora viva.
Sopravvivere a un tale ricordo, uno di quei pochi tratti in salvo dai naufragi della sua anima depressa, comporta, però, sempre un prezzo da pagare. Da quel mondo sognato a occhi aperti era tornata in sé piena di eccitazione, con le mutande inzuppate di bei momenti spremuti fino all’ultima goccia. Avrebbe voluto sentir colare la sua voglia internamente le sue cosce e una lingua rude, maschile e dissoluta prosciugargliela masticandola avidamente.

E qualcosa sentì davvero muoversi lungo i profili interni delle sue gambe in gran parte scoperte. Una sottile pressione le stava risalendo sfacciatamente la china delle sue intime forme ancora perfettamente abbronzate. Si mise subito a sgambettare come un ciclista che, davanti una salita, si alza sui pedali ancheggiando lentamente per scacciare quella piacevole, ma inopportuna presenza. E non fu semplice per lei espugnare la logica supposizione che a giocarle lo scherzo fosse suo marito perché nel frattempo, sul palchetto, si era creato un gruppetto di uomini distinti, vestiti elegantemente, che soltanto con la loro presenza impedivano a chiunque di salire e di sbirciarne all’interno e a lei di muoversi agevolmente. La pressione che le stringeva le spalle era tale che le sembrava le fosse impedito persino voltarsi, ma sentiva, al tempo stesso, che le sarebbe bastato un cenno, uno schiocco di dita e quegli uomini si sarebbero dissolti come neve al sole. Lei però, in quel momento, non volle. Si sentiva al sicuro. Si sentiva protetta da una culla di braccia e toraci maschili. Si sentiva una regina, mentre la curiosità di quelle che aveva intuito essere le dita affusolate di una mano giovanile e possente, era arrivata a lambire il tessuto ricamato delle sue mutande in pizzo.

Sguinzagliò via lo sguardo alla ricerca di suo marito che subito s’incrociarono scambiandosi un sorriso. Il volto di lei mostrava le fattezze contrite di un funambolo che afferra la fune invisibile gettatagli dall’aldilà del cielo quando inizia a oscillare pericolosamente al di sopra delle nuvole della coscienza; la beatitudine di chi resta, invece, condannato a osservare a terra era dipinta sul volto di suo marito: sicuro della solidità del suo mondo saltellava rilassato e divertito.

«La distrazione non ci assolve da tutti i crimini, caro mio!» farfugliò lei sottovoce e tutta d’un fiato mentre iniziava a godere di un’improvvisa instabilità emotiva che prese a muoversi avanti e indietro, a piccoli scatti, lungo il filo teso di quei momenti clandestini che iniziarono a precipitare caoticamente alla rinfusa quando sentì le sue mutande stiracchiarle di lato e un pollice penetrarla fino al palmo con una violenza tale, che se avesse avuto un muro difronte l'avrebbe certamente urtato con il viso. Uno, due e il terzo colpo deciso che s’arrestò conficcato dentro la sua fica e che la fece trasalire di un piacere così forte e violento che dovette distogliere repentinamente lo sguardo dal suo uomo che, nel frattempo, piroettava con una donna che Sabrina non seppe né tanto meno volle riconoscere, perché lo smarrimento apparve così evidente e totale sul suo volto che roteando gli occhi si morse forte le labbra lasciandosi sfuggire un fiotto di gemiti sfacciatamente prolungato. Fu istintivo per lei irrigidire le gambe in uno spasmo incontrollato, divaricarle più smaccatamente e inarcarsi, facendosi scivolare leggermente con il corpo all'indietro… abbastanza indietro che il viso sembrò svanire come risucchiato dal mulinello di uomini che le si erano stretti tutt’intorno.
« Ha un dito enorme » pensò lei « ne voglio ancora » esclamò strozzando le parole in gola « ma cosa dico? Sono forse impazzita? » tornò a pensare proprio mentre sentì un rossore in viso divampare ed estendersi tutt’addosso e tramutarsi in fremiti quando avvertì la bocca di colui che le stava ancora dentro con il pollice, avvicinarsi al suo orecchio. Sentì la sua voce senza chiedersi se fosse la prima volta che la stesse udendo.
« Non ti voltare, ascoltami! » le comandò l’uomo, «non ti voltare mai» aggiunse come un cane che abbaia senza mordere.
L’accento fu strano, forzatamente straniero, ma il comando talmente improvviso e perentorio che lei rimase immobile, confusa e ubbidiente. Mentre in lei tutto taceva, sentiva quel pollice imporle tempi di attesa che le dilatavano i ritmi del pensiero tagliandole quelli del cuore e lo sentiva muoversi delicatamente dentro e poi uscire leggermente e rientrare, roteare su se stesso tra le pieghe della sua fessura già copiosamente bagnata. Avvertiva la sua mano grande, arcigna, ma allo stesso tempo delicata e attenta, incunearsi tra le pieghe della sua gonna preferita, una mini in gabardina di fresco lana. Quella mano le dava una piacevole sensazione di spazio riempito tra le cosce, di vuoto colmato nella sua anima.
«Ascoltami» riprese lui avvicinandosi ancor di più all'orecchio per farle sentire il caldo umido del suo respiro calmo, leggero e rassicurante. Lei, però, lo interruppe quasi come estremo tentativo di riprendere disperatamente controllo di sé «cosa vuoi farmi?» le domandò tradendo quel poco di risolutezza che credeva di poter mostrare, ma che invece, ormai, si era dissolta in un piacere indistinto che si estendeva dalle punte dei capezzoli alle voragini della sua intimità.
«Voglio scoparti ora, qui!» fu la risposta dell’uomo che le afferrò i capelli tirandoseli addosso obliquamente come fossero briglie ancorate al morso di un cavallo. Apparve una smorfia sulla bocca di lei che sapeva di timido dolore, mentre il suo volto sterzava in senso opposto all’uomo puntando alle dita che, dalla sua fica, si ritrovarono a un soffio dalle sue labbra «Succhiale» aggiunse lui «e toglimi il tuo sapore di dosso!»
Lei aprì istintivamente la bocca, ma senza spalancarla. Le dita impregnate del succo sopravvissuto alla devastazione del suo sesso, presero a scavarle il palato, a scoparla nella bocca con una foga e una passione tale che lo schiocco della saliva sembrava impastarsi con l'istinto dell’animale primordiale che sentiva prendere forma dentro di lei. E con estrema sorpresa lasciò che le mutande le venissero calate alle ginocchia da altre mani, mani estranee di un altro uomo ancora e che ora la sfioravano ovunque.
«Abbandonati» riprese l’uomo accanto a lei «su, abbandonati… forza!» le intimò nuovamente sfilando via le dita dalla bocca, ma ancora aggrappate alla punta della lingua da un filo sottile e flesso di saliva che, per un stante, sembrò brillare in controluce prima di tornare a ficcargliele con risoluta veemenza nella fica.

Sabrina iniziò incontrollabilmente a gemere mentre intorno sentì lo spazio espandersi come se il resto della ciurma avesse allargato il cerchio dove lei era l'unica di spalle e piegata verso l'interno e con il viso di nuovo che sporgeva dal balcone. Sentiva i loro occhi addosso scrutare il suo sesso. Immaginava l'intero paese nascosto tra gli anfratti delle mura cittadine, dietro cespugli e finestre spiare la sua nudità, la sua intimità. Per la prima volta avvertì un senso di liberazione: ciò che l'aveva oppressa, quella sensazione di essere sempre osservata, si trasformò da un profondo malessere a un senso di eccitazione così potente da diventare una fissazione. E fissando suo marito, che distrattamente stava ancora ballando in pista, si inarcò quanto più possibile per mostrarsi tutta, per mostrare agli uomini alle sue spalle anche ciò che aveva mantenuto inviolato dai desideri estemporanei del suo consorte: il suo culo. I “no” perentori di lei sbattuti in faccia agli appelli del coniuge di penetrarla dietro, risuonavano ogni volta come l’eco di una sentenza definitiva pronunciata nella loro stanza da letto, l’unica in cui si limitavano a fare l’amore senza possibilità di eccedere negli istinti. Era come se fin dagli albori della loro relazione, la coppia fosse vissuta sotto una coltre di nebbia che mai si dirada. La calma, il grigiore, l’immobilità erano i volti più marcati di ciò che del loro rapporto erano riusciti a salvare al di là delle loro patologiche negazioni. Vivevano di una malattia silenziosa che li incatenava al palo del reciproco rispetto senza concedere a se stessi la possibilità di una seconda vita dalle tonalità sgargianti. E quei rifiuti, quando avvenivano, non erano dettati mai dalla paura di Sabrina di provare dolore fisico bensì sempre dal timore che il piacere che le avrebbe potuto procurare un atto così estremo l’avrebbe poi obbligata intimamente a chiudersi ancora di più in se stessa, come in un profondo imbarazzo verso l’uomo destinato ad accompagnarla alla vecchiaia. «Alla fine sono una donna in un mondo maschilista e di cui mio marito ne fa parte a pieno titolo e merito» si ripeteva tutte le volte che lui dava della “cagna” alle donne estroverse, audaci e libere! E proprio mentre le sembrò di ripensare ad alcune di quelle occasioni, avvertì le mani dell’uomo afferrarle le natiche e aprirgliele alla ricerca della sua più intima cavità su cui sentì colare una goccia calda di saliva che iniziò a scendere e raffreddarsi fino a fermare la sua corsa a ridosso della fica. Sabrina si sentiva un fiume in piena e quando le labbra spalancate dell'uomo, accompagnate da una lingua umida di curiosità si sciolsero in ogni angolo di lei, su ogni increspatura delle sue aperture, era come se potesse sentire, al di là della musica, il crepitio da contatto tra i fluidi salivari di lui e gli umori intimi di lei. Lo sentiva insistere, annaspare, soffocare, premere dietro con la lingua e questo la faceva impazzire mentre le dita le frugavano la fica bisunta di piaceri sgocciolanti a terra. Ritirò il suo viso dal balcone una volta per tutte. Si slanciò ritta in piedi, avendo cura di esporre le sue grazie alle dita che continuavano incessantemente a sfregarle la fica. Sulle prime appoggiò il viso sul torace dell'uomo accanto, senza guardarlo in volto, poi le strisciò la lingua sul mento ruvido di barba e, infine, si lasciò cadere con la bocca all’altezza del suo cavallo cingendogli la vita con le braccia, tanto che le sue mani vennero notate dal marito che aveva appena terminato un altro ballo.
«Scopami» esclamò in balia di un piacere straziante rivolgendosi con lo sguardo a un punto indefinito, inarcandosi per offrire tutto di sé alle sue spalle e con il viso contro il pacco dell'uomo difronte iniziò a mordicchiarne la stoffa tutt’intorno la cerniera lampo.

Li sentiva duri entrambi, me quello dietro di lei sembrava sfidare i limiti del gioco facendole scorrere l’arnese lungo la fessura fradicia di voglia senza entrare. Stava impazzendo in quel delicato sfregamento dei sessi fino a quando non senti le grandi labbra ripiegare leggermente su se stesse, opponendo una lieve resistenza, e poi cedere gradualmente e aprirsi totalmente alla più profonda e totale delle penetrazioni mentre l'umido iniziava copiosamente a colare e bagnare l'idea di una voglia di istinti condivisi. Quei colpi decisi stavano demolendo la sua storia, il suo Essere da sempre tenuto in disparte come un animale malato e contagioso. Voleva di più, voleva liberarlo. Smise allora di giocherellale con la bocca sulla lampo dell’uomo a lei dirimpetto, gli slacciò i pantaloni, rilassò le labbra e con i denti passò rapidamente a mordicchiare la parte in rilievo che premeva dall’interno dei boxer verso le sue labbra. Ora poteva avvertire maggiormente la consistenza di quel membro che sembrava voler uscire e catapultarsi addosso le sue guance, il suo naso, i suoi occhi; l’erotismo di quel lembo di tessuto morbido che odorava di lavanda, le accarezzava il viso separandola dalla voglia di sentire la sua bocca riempirsi fino alla gola e sbrodolare alla fine di ogni affondo. L'uomo dietro di lei, nel frattempo, dopo ogni colpo assestatole sulla fica, lo tirava fuori tutto e tornava a premeva sulla porticina ancora ben serrata del suo culo con la punta della cappella. A ogni tentativo la pressione si faceva maggiore e l'opposizione contraria cresceva in proporzione guidata da spasmi involontari. Sentì suo marito chiamarla e uno degli uomini a copertura di questo improvvisato palcoscenico, placarlo con la scusa che li non c'era nessuna donna. La voce di suo marito che la stava cercando l'eccitò maggiormente e più il tono diveniva disperato e più la sua voglia di essere sbattuta cresceva. Tolse l'ultimo ostacolo di stoffa difronte al suo viso, accennò un sorriso e subito si fece seria prendendolo in bocca e lasciandoselo spingere dentro fino a perdifiato. E non appena avvertì l'ulteriore tentativo di violare il suo culo, ciò che da sempre aveva tenuto al riparo dagli uomini, una vertigine le sembrò stroncare anche l'ultima ragione per cui non avrebbe dovuto cedere a questo piacevole martirio. Una vampa di calore le pervase prima il collo, poi il viso, le mani e infine le avvolse il ventre. Tra le gambe sentì una voragine spalancarsi e da lì colare del liquido denso e caldo in parte raccolto dalle sue mutandine arrivate ormai alle caviglie e in parte raccolto dal membro che lo trasportava, dopo ogni colpo, intorno al buchino posteriore ancora ostinatamente chiuso, serrato, vergine. Voleva sentirsi colpita, scavata e chiavata a colpi di delicata violenza proprio lì, proprio nel culo. Diede un deciso colpo all'indietro. Lo sentì entrare duro, enorme, farsi largo dentro l'inesplorato spazio stretto del suo corpo. Il dolore provocato dall’asprezza della penetrazione sembrò annullarsi con quello dalle sculacciate che ogni tanto l’uomo le assestava sulle natiche. Le cavalcate di entrambi gli uomini furono poderose, dolci, profonde, elegantemente demolitrici e non appena il liquido caldo di entrambi le schizzò dentro quasi all’unisono e ovunque, si lasciò cadere a terra esausta. Sul telefonino distrattamente caduto a terra tra un gemito e un affondo, lo schermo illuminato mostrava il numero di chiamate ricevute da suo marito e delle goccioline in controluce dense e luminescenti, le uniche che non riuscì a ingoiare. Sul suo volto comparvero presto delle lacrime che le bagnarono un sorriso pieno di soddisfazione quasi isterica. Si voltò rapidamente per vedere l’uomo, l’artefice di quel godimento. Lo colse di sfuggita allontanarsi. Sembrò di riconoscerlo, ma fu solo una sensazione, una di quelle a cui non se ne viene mai a capo se non in occasioni postume e fortuite.
Arrivò l’ennesima chiamata. Era ancora suo marito. Raccolse il cellulare, si alzò e rispose. Sistemò il vestito, tirò su le mutande, controllò se gli orecchini erano ancora al loro posto.
-Dove sei? – le chiese suo marito.
-Ovunque –rispose Sabrina finendo di aggiustarsi gli slip e tenendo il cellulare tra la spalla e l’orecchio. Si fece largo tra gli uomini accarezzando affettuosamente il viso di quello che incrociò poco prima di scendere la breve scalinata. Raggiunse il suo consorte. Lui intuì qualcosa, ma il senso di resa fu più forte della ribellione a ciò che ormai era avvenuto benché fosse lontano dall’immaginarlo. L’abbracciò in silenzio. Lei, appoggiandosi contro di lui glielo sentì duro e sorrise con un pizzico di sarcasmo.

Il giorno seguente, si ritrovò a tavola nella magione di famiglia. La vendemmia era alle porte. Tutti i parenti erano presenti tranne suo cugino che Sabrina apprese, in quel momento, esser stato alla festa la sera prima. Fu una notizia postuma… una di quelle che a volte fa venire a capo di una sensazione mentre in altre, lascia il sapore dolce di un dubbio senza fine.
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