Era un bel pomeriggio di metà autunno, e stavo come al solito svolgendo il mio lavoro di tutti i giorni. Un lavoro un po’ noioso, per la verità: rispondere alle telefonate, scrivere lettere, tenere aggiornata l’agenda con gli appuntamenti dei superiori… Insomma, tutto quello che compete ad una brava ed efficiente segretaria.
Il lavoro era molto intenso in quel periodo: il capo stava cercando di conquistarsi le simpatie di alcuni nuovi clienti, e se l’affare fosse andato in porto, la società ne avrebbe ricevuto un enorme beneficio, non solo a livello economico, ma anche come prestigio… Insomma, la sua immagine nel mondo del mercato avrebbe compiuto un enorme salto di qualità.
E fu così che dopo innumerevoli contatti telefonici, molti dei quali avevo curato io personalmente, fu fissato un appuntamento presso la nostra sede, che, da subito, apparve a tutti come quello decisivo per condurre in porto l’affare con successo. L’incontro doveva tenersi nella settimana seguente, e tutti in ufficio eravamo enormemente emozionati in attesa dell’evento: ne intuivamo l’estrema importanza e così cominciammo a prepararci per accogliere i nostri nuovi clienti nel migliore dei modi: tutte le stanze dell’ufficio furono riordinate e ripulite, furono acquistati nuovi quadri, nuovi poster, insomma, tutto quello che poteva servire per rendere più vivaci e accoglienti quelle stanze, altrimenti piuttosto grigie… Fu perfino sostituito il vetro di una delle porte interne, che era scheggiato da una vita e che nessuno, per anni, aveva mai pensato a riparare. Tutto doveva essere perfetto per il gran giorno, che ormai stava per arrivare…

Quella mattina mi svegliai prestissimo, circa un’ora prima del solito: arrivare in ritardo sarebbe stato un errore imperdonabile, e anche il capo si era raccomandato fino alla nausea… Per una settimana non fece altro che ripetere a tutti i suoi dipendenti quanto teneva a quell’incontro e quanto tutti noi dovessimo impegnarci affinché tutto filasse liscio come l’olio; era diventato particolarmente ansioso, e nessuno lo sopportava più, ma d’altronde il suo atteggiamento era più che comprensibile, e così non potemmo fare altro che dare fondo a tutte le nostre riserve di pazienza.
Ma torniamo a quella mattina: dopo essermi fatta la doccia ricordo che usai quintali del mio profumo preferito prima di tornare in camera ed indossare la mia migliore camicetta ed il mio migliore tailleur, fresco di stireria. Era un completino rosa con giacca abbastanza leggera e una stretta minigonna di taglio classico… insieme al bianco della camicia risaltavano molto bene sui miei capelli neri e lisci e sulla mia pelle ancora abbronzata (ho la fortuna di avere una carnagione olivastra che mantiene a lungo la tintarella estiva). Naturalmente un aspetto impeccabile era fondamentale quel giorno. Per fare più colpo infatti indossai anche un paio di collant in lycra nera che mi slanciavano le gambe… mi facevano un po’ caldo, per la verità, perché nonostante fosse autunno le temperature arano ancora alte, ma data l’importanza della posta in gioco accettavo anche quel piccolo sacrificio. Dopo una breve colazione con un caffè ed uno yogurt, per completare l’opera mi misi un paio di scarpe coi tacchi alti e presi la borsetta, e prima di uscire volli guardarmi allo specchio…
Non per vantarmi, ma ero veramente uno schianto! Il capo sarebbe stato orgoglioso di me: ci aveva chiesto per quel giorno di curare al massimo anche il nostro aspetto, ovviamente, e devo dire che per quanto mi riguardava non avrei potuto fare di meglio… Quando scesi di casa per avviarmi verso la fermata dell’autobus, poi, ebbi anche un moto d’orgoglio: “Eh, no,” pensai, “oggi niente autobus: prenderò il taxi!” E così feci. Mi bastò aspettare pochi minuti perché ne passasse uno libero e, con un gesto della mano, lo feci fermare e montai in macchina.
Ebbi così la conferma che il mio aspetto doveva essere davvero vincente, perché anche il tassista, quando salii, mancò poco che non si lasciasse scappare un fischio di approvazione e dopo, durante il tragitto, passava più tempo a sbirciare nello specchietto retrovisore per ammirarmi piuttosto che a guardare la strada davanti a lui. A cose normali, sarà per la mia timidezza, una situazione del genere mi avrebbe messo un po’ in imbarazzo, ma non quel giorno: avevo addosso una carica incredibile, e quegli sguardi mi fecero provare soltanto una soddisfazione enorme.
Soddisfazione che fu ancora più grande una volta entrata in ufficio: tutti i colleghi mi riempirono di complimenti e il capo poi, se non fosse stato perché cercava di mantenere il contegno necessario per affrontare nel modo giusto una delle giornate più importanti della sua vita, scommetto che sarebbe addirittura corso ad abbracciarmi, nel vedermi in così perfetta forma. Raramente ero stata così orgogliosa di me stessa, anche se devo riconoscere che gran parte del merito restava di madre natura, che mi aveva fatto il piacere di donarmi un fisico da modella, senza il quale sarebbe stato difficile suscitare in tutti quell’impressione.

Dopo circa un’ora e mezzo, puntualissimi, arrivarono i clienti. Erano quattro uomini, di cui uno era chiaramente il capo (anche se sarebbe stato meglio chiamarlo “boss”, dato che, dall’atteggiamento e dal modo in cui era vestito, pareva quasi il capo di una cosca mafiosa…), altri due avevano il classico aspetto dei contabili, mentre il quarto, per come si muoveva e per la sua prestanza fisica, doveva essere una guardia del corpo. Non sapevo che fossero stranieri… in quei giorni avevo dovuto stare dietro a tante di quelle cose che incredibilmente, non mi ero assolutamente preoccupata di informarmi sulla nazionalità dei clienti, e anche durante i numerosi contatti telefonici non ci avevo mai posto l’attenzione. A sentirli parlare si capiva che venivano dall’Europa dell’Est, probabilmente dalla Russia. Pensai allora che ci sarebbe stato bisogno di un interprete: io sapevo parlare bene inglese e francese, ma di russo non sapevo niente… e poi mi pareva strano che il capo non mi avesse avvisato. I miei dubbi però sparirono quando vidi che uno dei contabili, che infatti ebbe il compito di condurre le reciproche presentazioni, parlava l’italiano perfettamente.
Dopo i consueti convenevoli, il capo fece accomodare i nuovi clienti nella stanza delle riunioni, tirata a lucido per l’occasione, dove si chiusero e cominciarono le trattative. Noi dipendenti ovviamente restammo fuori, pronti ad intervenire in caso di bisogno. Anch’io fui fatta entrare un paio di volte su richiesta del capo, anche se una di queste fu semplicemente per ordinare qualcosa da bere per i partecipanti alla riunione. Quando portai loro quello che avevano chiesto, ricordo che il “boss” dei russi, rivolto verso di me, pronunciò qualcosa di incomprensibile, sorridendomi in modo gentile. Pensavo che si trattasse solo di un ringraziamento, e accennai un sorriso di risposta, ma il contabile che faceva da interprete, girandosi verso di me, disse: - Il capo le fa i complimenti per la sua bellezza! -
Sinceramente fui colta un po’ di sorpresa, e cominciai ad arrossire. - Grazie… sono veramente lusingata! - furono le uniche cose che riuscii a dire, balbettando un po’, dopodiché uscii dalla stanza. In realtà ero proprio imbarazzata: a differenza degli altri complimenti ricevuti durante la mattinata, quelli del boss non mi avevano fatto per niente piacere… Sarà che forse, a pelle, mi aveva dato quell’impressione di capo mafioso, ma ricordo che la sensazione che provavo in quei momenti era quasi di disgusto!

Il resto della giornata fu abbastanza noioso: la riunione andò avanti per ore, fino all’ora di pranzo, quando il capo invitò i suoi preziosi ospiti ad un ristorante di sua fiducia lì vicino, dove aveva prenotato a sue spese giorni prima, raccomandandosi con i gestori che per quel giorno preparassero in abbondanza tutte le loro migliori specialità. Nel pomeriggio poi, tornarono tutti in ufficio, per mettere a punto gli ultimi accordi. Le cose andarono per le lunghe, tanto che ad un certo punto il capo uscì dalla stanza e, tranne che ai suoi collaboratori più stretti, disse a tutti di tornare pure a casa, tenendosi però a disposizione perché, per una qualsiasi esigenza, avrebbe potuto richiamarci in qualsiasi momento.
Approfittando dell’occasione, visto che era primo pomeriggio, mi sarebbe piaciuto sfruttare quelle ore di libertà per fare qualche giro per i negozi del centro, ma lo stress di quei giorni cominciò a farsi sentire, ed avvertii il bisogno di riposarmi un po’: così tornai subito a casa e, appena entrata, mi sdraiai sul divano e caddi in un sonno quasi istantaneo.
Dormii molto profondamente, e fui svegliata qualche ora dopo solo dallo squillo del telefono. Andai a rispondere e vidi che, senza che avessi potuto rendermene conto, era già arrivata l’ora di cena. Sollevai la cornetta e sentii la voce del capo: - Scusa il disturbo, cara, ma siamo quasi alla fine dell’affare ormai, e perché si concluda bene ho bisogno del tuo aiuto. Per telefono non posso spiegarti per bene cosa devi fare… Torna in ufficio, per favore, lì ci sono già gli altri, ti spiegheranno tutto loro. - E poi aggiunse: - Lo so che è una bella scocciatura… Vi chiedo un po’ di pazienza, e poi vedrete che da questa faccenda otterremo dei grandi vantaggi per la società e per tutti noi! -
Il tono della voce era entusiasta, ma anche estremamente paterno, e perciò mi venne spontaneo di rispondergli nel modo più rassicurante possibile: - Nessun problema, non mi disturba: sono felice di poterla aiutare! - Ed era vero, perché in quel momento mi sentivo anch’io responsabile della buona riuscita dell’affare, e il pensiero di dover tornare in ufficio così tardi non mi pesava affatto; al contrario, mi inorgogliva da matti…
Prima di riattaccare il capo ebbe tempo per un ultimo consiglio: - Ah, mi raccomando, rimettiti quel completino che avevi stamani: ti donava da morire e hai fatto davvero un’ottima impressione a tutti… -
- Non si preoccupi, capo: non mi sono ancora cambiata. Arrivo subito… - Controllai che il trucco fosse ancora a posto ed uscii di casa, piena di entusiasmo.
Per far prima presi la macchina: non la usavo mai per andare in ufficio, a causa del traffico, ma a quell’ora non ci sarebbero stati grossi problemi. E infatti mi bastarono pochi minuti per arrivare a destinazione: lasciai l’auto nel garage sotterraneo dell’ufficio, che per la prima volta da quando lavoravo lì trovai praticamente vuoto (c’erano solo altre due auto oltre alla mia e un furgone), e salii in ascensore.

Arrivata al piano dell’ufficio, come mi aspettavo, trovai le porte aperte e le luci accese. Non sapevo chi altro fosse stato richiamato, oltre a me, ma stranamente, in quel momento, tutte le stanze sembravano deserte. Eppure, se l’ufficio era aperto, qualcuno ci doveva essere…
Cominciai a girare nelle stanze per vedere se trovavo qualcuno. Incredibile, non c’era ombra di anima viva… Cominciavo ad avere un po’ di paura, perché non riuscivo a capire cosa stava succedendo. E poi l’ufficio deserto, a quell’ora, con tutte le luci accese, effettivamente metteva addosso un certo senso d’angoscia. Ma non durò molto…
Sentii improvvisamente un rumore alle mie spalle, e mi girai di scatto, spaventata. - Ah, siete voi! - esclamai con sollievo, trovandomi di fronte ai due più stretti collaboratori del capo (quelli che, a detta di tutti, erano i suoi “vice”). - È un pezzo che stavo cercando se c’era qualcuno… si può sapere dove eravate? -
- Veramente siamo sempre stati qui… - risposero.
- Ma se ho guardato in tutte le stanze e non ho visto nessuno!? Beh, comunque non importa… Sono venuta qui perché mi ha chiamato il capo: cosa devo fare? - Replicai, un po’ contrariata.
- Oh, niente di particolare… ora ti facciamo vedere! - E, detto questo, uno dei due, passò dietro di me e si chinò per aprire lo sportello di un mobile.
Anch’io mi voltai, per vedere cosa stesse prendendo, e quando si rialzò, mi accorsi che aveva in mano delle corde. - E quelle a che ci servono? - domandai.
- Ora lo capirai… un attimo di pazienza! - Rispose l’altro, che era restato alle mie spalle.
Non feci a tempo a girarmi verso di lui che sentii afferrarmi le braccia e stringerle dietro la schiena. - Ehi, ma… che fai!? - protestai, colta di sorpresa.
- Non ti preoccupare: è per la buona riuscita dell’affare… - fu la sua risposta.
Continuavo a non capire, e quella sua frase detta in tono ironico mi sembrò solo una battuta di pessimo gusto… Per istinto fui subito presa dalla paura che volessero violentarmi e provai una sensazione di terrore come mai avevo sentito prima di allora: due persone che conoscevo bene, che vedevo tutti i giorni al lavoro, e di cui pensavo di potermi fidare…
L’altro, quello che aveva preso le corde, venne verso di me, si chinò e cominciò a legarmi le caviglie. - Ma si può sapere che state facendo? Non voglio! - urlai, sempre più spaventata.
La stretta dell’uomo alle mie spalle si fece ancora più energica. Stavo cercando di liberarmi le braccia, ma fu inutile perché la presa era troppo forte. - Stai tranquilla, non ti faremo del male… -
Oh, Dio! La classica frase che uno stupratore dice alla sua vittima… Il sospetto stava diventando una certezza. Ormai ero completamente in preda al panico: ero da sola contro due aggressori, molto più forti di me, e nessuno avrebbe potuto aiutarmi o sentire le mie grida, perché il palazzo era completamente occupato da uffici, e a quell’ora erano tutti vuoti, com’era logico.
Dopo le gambe, cominciarono a legarmi anche le braccia dietro la schiena. La disperazione mi stava assalendo, non avevo più la forza per reagire, e stavo per scoppiare a piangere all’idea di quello che mi aspettava. Cercai allora, per quanto mi era possibile, di restare calma e lucida, e di parlare con loro per riportarli alla ragione: - Ragazzi, - li implorai, con la voce rotta dalle lacrime, - ma che volete fare? Siete pazzi? Vi rendete conto di cosa state facendo? Pensateci, vi prego… Non dirò nulla, neanche al capo… -
Ormai ero completamente immobilizzata, e quello che mi stava davanti cominciò ad accarezzarmi il viso delicatamente, quasi per rassicurarmi. - Ma che cosa hai capito? - disse. - Credi davvero che vogliamo violentarti? E poi, si vede che il capo non lo conosci ancora molto bene… -
Quest’ultima frase mi lasciò un po’ interdetta… Non riuscivo a capire cosa volesse dire, ma non ebbi il tempo di replicare perché lui, nel frattempo, prese un grosso pezzo di nastro adesivo e, incurante delle mie proteste, me lo appiccicò sul viso, tappandomi la bocca prima che riuscissi a chiedergli qualche spiegazione.
Continuai a fissarlo con gli occhi pieni di paura e di domande, e lui, quasi avesse capito il significato del mio sguardo, mi disse: - Non ti preoccupare, fra un po’ comprenderai tutto. - Poi, rivolto all’altro: - Bene, questa è sistemata: portiamola via! - E così mi caricarono sulle spalle e uscirono dall’ufficio, spegnendo le luci e chiudendo le porte.
Scesero in garage senza dire una parola. Gli unici rumori che si sentivano erano i loro passi e i miei mugolii di protesta, ma quei due procedevano senza dargli nessun peso. Cercavo anche di dimenarmi, ma era tutto inutile, i nodi delle corde erano troppo stretti. Arrivammo al furgone che avevo visto prima di salire, e mi chiusero nel retro, dopodichè partimmo.

Ero letteralmente terrorizzata: ero stata rapita, senza che riuscissi a capire perché, e ora mi trovavo sola, dentro il bagagliaio di un furgone, legata e imbavagliata. Viaggiammo per circa un’ora, ma non so dire dove mi portarono, perché non potevo vedere il percorso. Doveva essere comunque abbastanza lontano, e su una strada di campagna piena di curve, perché durante il tragitto mi sentii sballottata da tutte le parti. Arrivati alla nostra meta i due scesero e vennero ad aprire il portellone posteriore del furgone.
- Viaggiato bene? - mi chiesero ironicamente. La battuta non mi era piaciuta per nulla, e ormai la paura aveva lasciato posto alla rabbia, così avrei voluto rispondere con tutto il risentimento che covavo dentro di me, ma il nastro adesivo che mi copriva la bocca fece uscire fuori soltanto una specie di ringhio che li fece divertire molto, a giudicare da come si misero a ridere.
Uno dei due mi prese in braccio togliendomi dal furgone, e fu in quel momento che mi resi conto di essere stata portata piuttosto lontano, in quella che doveva essere una sperduta villetta di campagna. La paura che volessero davvero violentarmi mi assalì nuovamente: in quel posto così lontano avrebbero potuto farmi tutto quello che volevano, tenendomi prigioniera e poi magari… No, mi rifiutavo di pensarci: non sarebbero arrivati fino a quel punto! Il panico però si stava impossessando di me ancora una volta…
Entrammo in casa, e mi posarono sdraiata su un divano. Mi stavo già preparando al peggio, ma quei due, invece di passare all’azione, entrarono nella stanza accanto, lasciandomi sola a chiedermi quale fosse il significato di tutto questo. La risposta non tardò ad arrivare: qualche minuto più tardi sentii una voce che veniva dall’altra stanza, ma che non apparteneva a nessuno dei miei due sequestratori. - Ah, siete proprio dei maleducati, - diceva, in tono ironico, - ma vi sembra questo il modo di trattare una signorina? -
Possibile? No, non mi sbagliavo, questa era proprio la voce… ma sì, la voce del capo! E infatti qualche secondo dopo averla riconosciuta, ecco che proprio lui mi apparve davanti, guardandomi sorridente: - Ciao bella, come stai? -
Lo fissai incredula, con gli occhi pieni di meraviglia, facendomi scappare un mugolio più intenso di tutti gli altri emessi fino a quel momento… Allora quella frase, “si vede che il capo non lo conosci ancora molto bene…”, ora cominciava ad avere un significato: era stato lui ad organizzare il mio rapimento! Già, ma perché? Perché aveva fatto tutto questo? E poi non stava seguendo l’affare della sua vita, quello che avrebbe dovuto cambiare le sorti della società? Mentre mi facevo tutte queste domande fu lui in prima persona a darmi le risposte, e furono risposte che non avrei mai voluto sentire…

- Su, che aspettate? Slegatela! - ordinò il capo ai suoi vice. Finalmente tornai libera, e potei togliermi il nastro adesivo che mi chiudeva la bocca. Per un attimo provai una sensazione di sollievo, ma non durò molto.
- Scusa per i metodi un po’ brutali, - continuò, rivolto verso di me, - ma quando ti ho detto che saresti stata fondamentale per la buona riuscita dell’affare non mentivo… abbiamo proprio bisogno di te! -
- E c’era bisogno di farmi venire qui così? - replicai, arrabbiata, massaggiandomi i polsi, sui quali si vedevano i segni lasciati dalle corde.
- Beh, se non avessimo usato le maniere “forti”, non penso che avresti accettato di collaborare… - aggiunse, sedendosi di fonte a me.
Non riuscivo a capire: perché mi sarei dovuta rifiutare di collaborare alla buona riuscita di un affare che avrebbe portato dei vantaggi a tutta la società, e quindi anche a me? Guardai il capo con uno sguardo pieno di interrogativi, e la spiegazione arrivò subito dopo…
- Ecco, il problema è che quando il nostro cliente ti ha visto, è restato molto colpito dalla tua avvenenza, - le parole del capo non promettevano niente di buono, - e così ha espresso il desiderio… come dire… di passare una notte con te! -
Che cosa!? Quella specie di brutto porco schifoso! Non avevo torto a dipingerlo come un boss mafioso: solo ad un animale del genere poteva venire in mente un’idea così assurda! Era ovvio che mi sarei rifiutata: credevano forse che fossi disposta a recitare il ruolo del giocattolo a disposizione dei clienti? Non aspettai un attimo a ribadire il mio rifiuto totale e categorico, facendo anche intendere al capo quanto mi sentissi indignata per il fatto che lui stesso non avesse subito detto di no ad una proposta così oscena.
- Vedi, è proprio questo il problema: - riprese il capo, - lo so che quello che ti è stato chiesto può sembrarti un po’ fuori del normale, … -
Che faccia tosta! Aveva il coraggio di definirlo solo “un po’ fuori del normale”.
- …ma ora non posso permettermi che il rifiuto di una ragazzina capricciosa mandi a monte un affare da milioni di euro! - Il suo tono si stava facendo più irritato… - Un’occasione del genere non mi si ripresenterà più per tutta la vita, te ne rendi conto!? -
Che cosa voleva dire con quelle parole? Non si sarebbe mica permesso di… - E a me che cosa me ne frega? Per quanto mi riguarda se li possono tenere tutti, quei loro soldi schifosi! - replicai, sempre più inviperita.
Il capo si calmò per un attimo, e il tono di voce tornò pacato, quasi rassegnato: - Bene, vedo che è davvero impossibile arrivare ad una soluzione pacifica. D’altronde me lo immaginavo che non ci sarebbe stato modo di convincerti… Non sarei mai voluto arrivare a questo punto, ma ormai mi ci trovo costretto. Mi dispiace, credimi… -
A queste parole i due vice mi si fecero incontro, minacciosi. Mi alzai di scatto dal divano, indietreggiando. - Fermi! Non vi permettete… - Le mie parole, com’era ovvio, furono del tutto inutili, e i due continuarono ad avvicinarsi; le loro intenzioni erano palesi.
Sapevo benissimo di non avere via di scampo, ma l’istinto mi portò comunque a reagire: mi girai di colpo e cominciai a correre verso l’uscita. - Prendetela! - furono le ultime parole del capo che riuscii a distinguere.
Riuscii appena a varcare la soglia, precipitandomi nell’aia antistante la casa… sarebbero stati più veloci di me comunque, figuriamoci quella volta, che portavo i tacchi alti! Fu un attimo: il primo mi abbrancò facendomi cadere violentemente a terra e bloccandomi col suo peso, il secondo arrivò subito dopo con le corde. A distanza di pochi minuti dalla riconquistata libertà, stavo già per essere legata di nuovo… Stavolta però furono ancora più energici, e per fare meglio il loro lavoro mi tolsero la giacca in modo da passarmi una corda anche intorno al busto, che tenesse più ferme le braccia. Anche le gambe mi furono legate, oltre che all’altezza delle caviglie, pure sopra le ginocchia. Mi era proprio impossibile muovermi: cercai anche di dimenarmi, mentre quei due stringevano i loro nodi… come se fosse servito a qualcosa!
Ormai ero quasi rassegnata: purtroppo sapevo cosa mi aspettava, e non protestai nemmeno più di tanto. Però, quando tirarono fuori un fazzoletto, cercando di ficcarmelo in bocca, opposi un po’ di resistenza, serrando i denti più forte che potevo… e, in effetti, dovettero fare un po’ di fatica per farmela riaprire. Alla fine, però, la stanchezza ebbe la meglio su di me, e dovetti cedere: il fazzoletto mi fu spinto a forza dentro la bocca, e poi finirono di imbavagliarmi con una spessa striscia di stoffa che mi legarono stretta dietro la nuca.
Mi sollevarono di peso, riportandomi dentro casa. Il capo mi guardò, con un sorriso beffardo: - Povera sciocca! Credevi davvero che ti avremmo lasciato scappare? Sai come si dice: il cliente ha sempre ragione… e quindi avrà quello che ha chiesto! Anzi, meglio ancora: sapendo che con te saremmo dovuti ricorrere alle “cattive”, gli avevo detto che ti avrebbe ricevuto in “confezione regalo”… -
Confezione regalo? Che voleva dire? Mi ci volle poco per saperlo: in un angolo della stanza vidi un robusto scatolone di cartone, e capii che sarebbe stato il mio nuovo alloggio per le prossime ore. E infatti mi posarono lì dentro, abbastanza delicatamente, per fortuna, e poi chiusero il coperchio, lasciandomi completamente al buio. Scommetto che la scatola fu avvolta con un grosso foglio di carta da regali e adornata con qualche nastro o coccarda… Ormai non potevo fare altro che rassegnarmi: ero diventata a tutti gli effetti un regalo per il “boss”… quel porco di un russo!

Nonostante fossi chiusa nella scatola potevo sentire bene quello che succedeva intorno a me: il capo chiamò al telefono il suo cliente, dicendogli che il problema era risolto e che presto avrebbe avuto ciò che desiderava… Bastardo! Mi stava trattando come un oggetto, senza un briciolo di dignità. Appena avessi potuto, gliel’avrei fatta pagare… anche se, vista la situazione del momento, non avevo assolutamente idea di come avrei fatto.
Il “pacco regalo”, con me dentro, fu caricato sul furgone e, dopo un po’, giunse a destinazione. Capii che ci eravamo fermati e che mi stavano facendo scendere, ma, ovviamente, non avevo la più pallida idea di dove potessi trovarmi. Magari nella hall di un albergo… Certo, perché no? Da qualche parte dovevano pur dormire quei russi! Cominciai allora a dimenarmi più forte che potevo, mugolando il più possibile contro il mio bavaglio: se ci fosse stato qualcuno nelle vicinanze si sarebbe accorto che dentro quella scatola era tenuta prigioniera una persona!
Il pacco fu posato per terra, ma le mie speranze di salvezza si rivelarono subito del tutto infondate: potei distinguere chiaramente la voce di uno dei miei “accompagnatori” mentre parlava, suppongo, con uno dei collaboratori del boss: - Ecco il regalo per il vostro capo: come potete vedere ha posto un po’ di resistenza, ma ora è tutto a posto…! - Niente da fare, ero in una casa privata, come poi ebbi modo di rendermi conto più tardi.
- Bene, sono sicuro che il capo resterà molto soddisfatto per la vostra gentilezza. Grazie e buonanotte! - rispose l’altro, col suo accento dell’Est.
- Buonanotte… e buon divertimento! -
I miei mugolii non erano serviti a nulla neanche stavolta… non potevo far altro che prepararmi a subire i “giochi” di quello sporco maniaco! Sentii che la scatola fu sollevata di nuovo: pensai che mi stessero portando nella camera del boss, e pochi minuti dopo ebbi la conferma che stavolta, purtroppo, non mi sbagliavo.
Quando la scatola si riaprii mi trovai di fronte lo sguardo allupato di quel porco… mi guardava con due occhi vogliosi che non promettevano niente di buono, almeno per me! Mi afferrò con le sue brutte braccia pelose per tirarmi fuori; io provai a ribellarmi, ma, in quelle condizioni, non potei fare più di tanto, e lui non ci mise molto ad avere la meglio sulla mia resistenza.
Mi posò sul suo letto, e fu la cosa più delicata di quella sera, dopodiché dette sfogo a tutti i suoi peggiori istinti: cominciò ad infilarmi le mani dovunque, e a me più che mani parevano proprio gli artigli di un orco. Cominciai a dimenarmi e mugolare ancora più forte, per manifestare il mio disprezzo nei suoi confronti, ma questo, naturalmente, non fece altro che eccitarlo ancora di più. Continuava a tenermi una mano sotto la camicetta, e a palparmi il seno senza sosta… i miei capezzoli erano già diventati duri e turgidi, e allora cominciò a spogliarmi con una foga incredibile: sbottonò la camicetta, quasi strappandola, e mi tirò giù il reggiseno con violenza. Le sue mani ruvide e la sua bocca bavosa che accanivano sulla mia pelle mi facevano provare una sensazione di assoluto ribrezzo, e più mi faceva schifo e più lui continuava, leccandomi sul collo e succhiandomi i capezzoli.
Lo odiavo, sentivo di non aver mai odiato nessuno come lui, lurido maiale! Mi faceva schifo il suo sguardo, le sue mani… non sopportavo più neanche la sua barba ispida, che mi pungeva la pelle! E dire che mi erano sempre piaciuti gli uomini con la barba…
Ma il peggio non era ancora arrivato: come temevo, puntò verso il basso, aprì la minigonna, e infilò le mani dove non avrei mai voluto che le infilasse… E quando finì con le mani cominciò con la lingua… Furono dei minuti orribili: penso di non essermi mai sentita così umiliata in vita mia! Fisicamente provavo piacere, certo, ma il fatto che tutto questo mi venisse inflitto contro il mio volere, senza il minimo rispetto nei miei confronti e, soprattutto, senza che potessi far niente per evitarlo, stava facendo sorgere dentro di me un sentimento bruttissimo, un misto di rabbia, frustrazione, sconforto, e non so cos’altro…
Pregai soltanto che quel momento finisse prima possibile, e, incredibilmente, così fu: proprio quando pensavo che il boss avrebbe portato a termine la sua “opera” nel modo più logico, invece si fermò, forse appagato di quanto aveva fatto fino a quel momento. E infatti si rialzò dal letto, avvicinandosi ad uno specchio a muro, come per ricomporsi, ed io finalmente ebbi il sollievo di non sentirmi più addosso le sue viscide mani. Ma non fu quella la fine del mio tormento, anzi…
Si avviò verso la porta, la aprì e fece entrare due suoi collaboratori (due guardie del corpo, penso), a cui disse qualcosa che io ovviamente non potei capire. Questi allora si avvicinarono a me e, mentre li guardavo con aria interrogativa ma anche spaventata, mi caricarono sulle spalle e mi portarono fuori dalla stanza. Il boss ci richiuse la porta alle spalle, salutandoci con un tono perfido che non mi piacque per nulla.

Fui portata in un’altra stanza, dove c’era una terza persona, e fui fatta stendere su un letto. Restai lì per qualche ora: speravo che ormai si sarebbero limitati a tenermi prigioniera per il resto della notte, ma fui troppo ottimista, e non ci volle molto per rendermene conto: dopo un po’ uno dei tre, che non ce la faceva più a resistere, si avvicinò al letto e cominciò ad accarezzarmi e a leccarmi i seni. Gli altri due, come sbloccati, lo imitarono, accanendosi sul resto del mio corpo e penetrando nella vagina, prima con le dita e poi con la lingua. I miei mugolii di protesta, come al solito, passarono praticamente inascoltati.
I tre però vollero andare più a fondo del boss: finito di “giocare”, mi slegarono le caviglie e le ginocchia, ma solo per legarmi di nuovo sul letto a gambe larghe. Non mi ci volle una gran fantasia per capire le loro intenzioni… E infatti fecero lo stesso anche con le braccia: alla fine mi ritrovai legata sul letto, a faccia in su, bloccata per i polsi e le caviglie, in una posizione a croce.
Nei brevi istanti in cui i miei arti furono liberi tentai invano di ribellarmi, pur sapendo di non avere via di scampo: erano in tre contro una, cosa avrei potuto fare? Beh, quantomeno, se volevano immobilizzarmi per poi approfittare di me, si sarebbero dovuti impegnare. Non molto, per la verità: riuscii appena a mollare qualche schiaffo e qualche calcio, piuttosto deboli (d’altronde ero legata da parecchio tempo, e le braccia mi facevano un po’ male…), che non sortirono nessun effetto, se non quello di indispettire ancor di più i miei aguzzini, che strinsero le corde ancora più forte per assicurarsi che non potessi in alcun modo liberarmi.
Ormai ero pronta, non avevano altro da fare che finire di spogliarmi: mi tolsero la minigonna e mi strapparono letteralmente le mutandine. Sopra avevo ancora la camicia aperta, con i seni di fuori, e per essere più liberi mi levarono definitivamente anche il reggiseno. Dopo un po’ anche la camicetta e i collant fecero una brutta fine…
Mi ritrovai su quel letto completamente nuda e alla mercé di tre omacci che stavano per dare sfogo fino in fondo ai loro istinti. Mi sentii ancora più impotente di prima, quando ero nelle mani del boss… Quei tre non si risparmiarono: tirarono fuori i loro grossi uccelli e mi violentarono a turno, con una foga incredibile… Non sapevo che i russi fossero così ben dotati (o forse fui io particolarmente “fortunata”): abusarono di me ripetutamente, senza che io potessi ad opporre la benché minima resistenza.
Ormai avevo ceduto, sia fisicamente che psicologicamente: dal momento che non potevo più far nulla per oppormi al loro volere, tanto valeva che mi rassegnassi a subire le loro violenze, cercando di non pensare che lo stavano facendo contro la mia volontà. E, in effetti, quel mio atteggiamento si rilevò il più giusto per quella situazione e, dimenticando in quale modo fossi stata trattata e come fossi finita lì, riuscii anche a godere di quei momenti e a viverli, non dico piacevolmente, ma almeno senza l’orrore che invece i aveva fatto provare il boss. I tre, poi, mi sembravano incredibilmente instancabili… forse il fatto di darsi il cambio permetteva loro di riprendere fiato e di “ricaricarsi”. Io, in compenso, ero ormai allo stremo delle forze.
Quando, alla fine, anche loro si stancarono, vollero però la ciliegina finale: il primo mi slegò le mani, avvicinò il suo uccello alla mia faccia, e mi tolse il bavaglio… io non volevo proprio, ormai non avevo più le forze, ma lui fu più duro, e mi costrinse a prenderglielo in bocca. Ebbi un sussulto di orgoglio, e per un attimo mi venne quasi la voglia di staccarglielo a morsi per vendicarmi di quello che mi avevano fatto, ma ebbi troppa paura: per ritorsione chissà cosa mi avrebbero fatto… magari anche ucciso, dopo indicibili torture! No, tutto sommato meglio sottostare per un ultima volta al loro volere… Gli feci il pompino che voleva, dopodiché, com’era ovvio, fui costretta a farlo anche agli altri due.
Fu la mia ultima fatica. Le guardie del corpo, visibilmente soddisfatte, cominciarono a rivestirsi mentre io, esausta, stramazzai sul letto. Mi legarono e imbavagliarono di nuovo, ma anche se non l’avessero fatto, in quel momento non sarei di certo potuta scappare… Ero troppo stanca, e ricordo solo che mi addormentai quasi all’istante.

La mattina dopo fui svegliata da un tumulto di voci. All’inizio mi sentivo ancora completamente frastornata, ma poi cominciai rendermi conto meglio di quello che stava succedendo. Doveva essere passata da poco l’alba, a giudicare dalla luce che vedevo entrare dalla finestra. Sentii alcune frasi in italiano che venivano da dietro la porta della camera dove mi trovavo, e fra le altre mi parve di riconoscere quella del mio capo. Non mi sbagliavo: dopo poco infatti me lo vidi apparire di fronte; entrò in camera quasi euforico… quel bastardo!
Mi venne incontro sorridente, sedendosi sul letto accanto a me. - Sei stata grande! - esordì. - Grazie a te abbiamo appena concluso l’affare nel migliore dei modi. Il boss era più che soddisfatto… direi addirittura entusiasta! Devi essere stata fantastica stanotte: si vede che lo hai fatto proprio divertire… Brava! Sono orgoglioso di te! -
Maledetto schifoso! Se non fossi stata legata penso che in quel momento avrei sfogato contro di lui tutta la rabbia che avevo accumulato durante la notte… usata come oggetto di scambio per i suoi luridi affari! Me l’avrebbe pagata, non sapevo come, ma giuravo che me l’avrebbe pagata!
- Comunque non posso far altro che dare ragione al boss, - proseguì, - sei veramente bella, mia cara: non c’è da stupirsi che, vedendoti, il nostro amico russo abbia voluto divertirsi un po’ con te… non sai quanto lo invidio! - E, mentre diceva queste cose, cominciò ad accarezzarmi prima i seni e poi giù, giù, fino alle gambe… Dopo il bastardo anche il porco si metteva a fare! Se avessi avuto la possibilità di ucciderlo non avrei esitato un attimo, tanto era l’odio che provavo per lui in quegli istanti.
Ormai ero pronta a tutto, dopo quello che avevo passato quella notte, ma per fortuna tutto finì lì: il capo si rialzò e uscì dalla stanza. Poco dopo entrarono di nuovo i suoi collaboratori, quei due “simpaticoni” che la sera prima mi avevano catturato per ben due volte nel giro di poche ore. Dato che ero ancora mezza nuda mi avvolsero in un lenzuolo e mi caricarono in spalla, portandomi sul furgone, che ormai cominciavo a conoscere anche troppo bene.

Il furgone partì dalla casa dei russi, e in poco tempo giungemmo a destinazione. Mi fecero scendere e fu in quel momento che mi accorsi di essere stata riportata nel garage sotto l’ufficio. Era ancora mattina presto: oltre al furgone c’era solo la mia macchina, come l’avevo lasciata la sera prima. Mi portarono su in ufficio, sempre legata e imbavagliata. Ormai le corde cominciavano davvero a farmi male, e anche il bavaglio mi stava soffocando. Per fortuna, entrati in ufficio, che ovviamente era ancora deserto, mi liberarono, stavolta definitivamente.
Nessuno disse una parola, e anch’io non avevo assolutamente voglia di parlare. E poi mi sentivo in imbarazzo: ero ancora mezza nuda, e non avevo il coraggio di guardarli in faccia, visto quello che mi avevano fatto. Comunque mi dettero della biancheria nuova, insieme ad una camicetta e al mio vestito originale, che per fortuna, era stato recuperato. Mi rivestii in fretta, sempre in silenzio, e quando fui pronta mi sedetti, ancora stanchissima, su una delle poltroncine dell’ufficio.
Furono degli istanti infiniti: nella testa mi turbinava un’orda caotica di pensieri e parole. Avrei voluto scagliarmi, e non solo verbalmente, contro quei mostri che avevo davanti, ma, forse per la stanchezza, forse per un senso di vergogna e di umiliazione per quanto avevo passato, forse per chissà cosa, continuai a stare zitta e a tenere lo sguardo basso, quasi avessi paura di incrociare i loro, che comunque, al momento si stavano comportando come me, come se si sentissero pentiti per quello che avevano fatto.
A spezzare il silenzio fu nuovamente il capo, che non aveva viaggiato con noi in furgone, ma ci aveva seguito con la sua macchina, ed era arrivato in ufficio solo in quel momento. - Salve a tutti, ragazzi, e buona giornata… - salutò. - Su col morale, abbiamo appena concluso un affare eccezionale per la nostra società; vedrete che ne verranno guadagni enormi per tutti! -
Non prestai neanche troppa attenzione a quello che diceva: ero infuriata, e lo guardai con due occhi carichi di odio. Entrò nella sua stanza, e allora io scattai in piedi per seguirlo. Non sapevo cosa avrei fatto, ma sentivo che era giunta l’ora della resa dei conti, e lo avrei fatto pentire per tutto quello che mi era successo.
Entrai decisa anch’io nella sua stanza, pronta a sfogare la mia rabbia su di lui, quando mi guardò serio e, senza neanche darmi il tempo di aprire bocca, disse: - Brava, proprio te stavo aspettando. Chiudi la porta e siediti… dobbiamo parlare! -
Feci come mi aveva chiesto… d’altronde anch’io ero entrata per parlare, ma non certo in tono amichevole, e non aspettai molto per farglielo capire: - Ora me la paghi, brutto pezzo di merda! - E, mentre mi avvicinavo alla sua scrivania, cominciai a fissarlo con lo sguardo assetato di vendetta.
- Ehi, calma, non mi sembra il caso di alzare i toni! Lo so, sono stato scorretto nei tuoi confronti… ma, te l’ho detto, senza il tuo apporto l’affare non si sarebbe concluso. -
- Non me ne importa niente dell’affare! Vaffanculo tu, i russi e questo fottutissimo affare! - ormai ero un fiume in piena.
Il capo se ne rese conto e dovette dar fondo a tutta la sua dote di sangue freddo per controbattere. - Cara, quando ti spiegherò, sono sicuro che capirai! Forse non ci credi, ma quello che abbiamo fatto porterà degli enormi benefici anche per te… -
- Non me ne frega un cazzo dei benefici! - Dovevo essere veramente arrabbiata, di solito non mi esprimo in modo così volgare. - Lo sai cosa mi hai fatto? Mi hai rapita, segregata e fatta violentare! Ce n’è a sufficienza per un ergastolo! Cercati un buon avvocato, perché quando riceverai la mia denuncia, vedrai che ti servirà… -
- Denunciami pure se vuoi… - rispose, con una calma insospettabile. - Io sono stato un delinquente a comportarmi così, lo riconosco: se verrò condannato avrò quello che merito, e tu avrai portato a termine la tua vendetta nel migliore dei modi. Ma ora fammi parlare. Dopo avermi ascoltato deciderai cosa fare e, prometto, accetterò qualsiasi tua scelta, compresa quella di denunciarmi alla polizia. Giuro che non mi tirerò indietro… -
E così cominciò la sua spiegazione: - Vedi, il problema è che la società navigava da tempo in cattive acque, e se non trovavo delle nuove forme di guadagno, ben presto sarei stato costretto a chiudere l’attività e, di conseguenza, a far perdere il lavoro a tutti voi. Poi, improvvisamente, un colpo di fortuna: è arrivata la possibilità di concludere questo affare con questi russi… Forse ancora non hai idea di quanti soldi ci faranno intascare: sono milioni di euro! Ti rendi conto? La fine di tutti i nostri problemi… Di più! D’ora in poi, visto che l’affare è concluso, potremmo vivere di rendita per un po’… -
- Tutti i soldi di questo mondo non valgono la mia dignità! - risposi fiera. - Quello che mi avete fatto è vergognoso, inqualificabile… -
- …e poi considera che quest’affare potrà fare da traino per altri uguali. - continuò il capo. - Potremo ingrandirci, e diventare finalmente ricchi! E per fartelo capire, ecco la tua ricompensa per quello che hai fatto in questi giorni… - Prese una valigetta da sotto il tavolo e me la avvicinò. Conteneva sicuramente dei soldi, e non pochi, avrei detto.
- Bastardo! Ora cerchi anche di comprarmi col tuo sporco denaro… -
Incurante delle mie parole la aprì. Io restai a bocca aperta: non avevo mai visto in vita mia tanto denaro tutto insieme… C’erano mazzette con banconote da 100, 200 e perfino 500 euro!
- Non ti scomodare a contarli: sono 500.000 euro, te lo dico io… -
Mezzo milione di euro! Una cifra impressionante… Fui assalita dai pensieri di quello che avrei potuto fare con tutti quei soldi: mi sarei tolta di mezzo immediatamente un po’ di problemi, e avrei anche potuto realizzare qualche sogno che covavo da tempo… Stavo cedendo alla tentazione, ma poi la mia dignità riprese il sopravvento. Ero combattuta, ma allo stesso tempo decisa…
Il capo se ne accorse, e allora tagliò corto: - Beh, ormai quello che avevo da dirti te l’ho detto. La decisione ora spetta solo a te… Vedi un po’ cosa preferisci fare: denaro o denuncia? Altre possibilità non ci sono… -
Lo fissai con un ultimo, intenso sguardo e, da come reagì, capii che non si era reso conto se fosse uno sguardo di intesa o di sfida. Ma la decisione giusta da prendere, ormai, appariva chiara e netta nella mia mente, e da quel momento non ebbi più esitazioni…

FINE
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Categorie: Bondage e Sadomaso