Prima parte
Ore 19:30
Sedeva sulla sua sedia difronte a me. Mi soggiogava, mi sovrastava Si ergeva sul suo piedistallo e la sua ombra si proiettava sul mio corpo prono, gettandomi in quello stato di soggezione che sgretolava ogni ragionevole resistenza con cui cercavo di oppormi alla sua malia. Era la mia Padrona. Avevo deciso così. E non c’era nulla che io potessi fare per negare il mio desiderio di appartenere a Lei, o dissimulare l’intensità delle emozioni che provavo, sentendomi alla sua mercé. Riusciva a farmi sentire un suo subordinato, dando a questo concetto, un significato differente e ben più ricco, di quello che afferiva ai nostri semplici e ovvi rapporti coniugali. Sapeva indurmi a riconoscere la sua superiorità, ad amare l’idea che, al suo cospetto, dovessi essere sempre umile e servile come un vassallo in presenza della propria sovrana. E il mio valore era commisurato alla mia capacità di compiacerla, di essere il suo utile diletto.
Nulla era mai stato detto esplicitamente. Eppure quella realtà era palese in ogni sguardo, in ogni atto e parola, anche la più banale e innocente. Teso come la corda di un violino, fremevo e attendevo, con un timore riverenziale, che quella realtà si svelasse e che lei decidesse di indurmi a confessare ciò che ero e sentivo. Nel suo sguardo trionfante, nei sorrisi compiaciuti e nell’allegra arroganza con cui mi trattava, pareva che plasmasse la mia mente e che rendesse ancor più feroce e necessario, il mio desiderio di cedere e di rimettermi a lei. La temevo, la riverivo, talvolta avrei voluto fuggire, ma sempre tornavo da lei, col capo chino, godendo del sorriso con cui accoglieva la mia implicita sottomissione e del modo in cui sapevi educare e far crescere il mio fervore, come se fosse un fiore, piantato nel suo giardino, che attendeva i primi raggi di sole, per poter sbocciare.
D:“Mi piace la tua condiscendenza. Spero tu conosca il significato e la ricchezza di questa espressione che, comunemente, viene interpretata come un atteggiamento di superiorità e sopportazione, nulla a che vedere con il modo in cui tu mi appari, il modo in cui tu sai e desideri apparirmi, malgrado le tue finte e sempre deboli, resistenze”.
Mi disse e snocciolò le proprie osservazioni, visibilmente soddisfatta del mio turbamento. Le piaceva giocare con me in quel modo, alludere prepotentemente alla mia remissione, infliggendomi sottili e deliziose umiliazioni, cui non sapevo sottrarmi e che spesso, mi ritrovavo ad attendere e invocare. Il bar era deserto. Eravamo rimasti soli. I verdi occhi di lei, simili a pozzi scuri e profondi in cui sentivo di precipitare, erano illuminati dal bagliore di un sorriso capriccioso e arrogante che assediava la mia anima e m’induceva a riconoscere e accettare la sua superiorità, al pari di un umile vassallo al cospetto della propria sovrana. Osservai il suo volto maestoso, la fierezza e la grazia della sua figura imperiosa che sedeva di fronte a me e s’imponeva soggiogando i miei sensi e i miei pensieri. Ero in suo potere, ero il suo gioco, il suo trastullo, lo ero stato fin dal momento in cui aveva deciso di assumermi alle sue dipendenze. C'era voluto del tempo, e finalmente adesso aveva cominciato a giocare con me, a leggere e intuire i miei fremiti e le mie emozioni. Il suo sguardo aveva saputo penetrarmi e cogliere l’essenza di ogni mio movimento, di ogni parola che pronunciavo e del modo in cui vagavano i miei occhi. Aveva capito ciò che ero, ciò che desideravo, ciò che avrebbe potuto fare di me.
Fu quasi per gioco che la mia bisessualità divenne per noi la chiave di volta che, in un nostro codice intimo, racchiudeva significati inconfessabili. Più volte l’ avevo pregata invano di poter assistere ad un suo gioco erotico, finché un giorno ridacchiando lei mi minacciò di usarmi, caso mai, insieme al suo lui. Lei non era sicura di voler osare tanto. Da un lato era eccitata all’ idea di poter dispormi di suo in un modo così estremo. Farmi violare, impadronirsi della mia intimità, privarmi della virilità, rendermi così succube da trasformarmi per qualche minuto addirittura in femmina, solo per un semplice suo capriccio. Che vittoria assoluta sarebbe stata! Tuttavia non era combattuta come all'inizio. Quando aveva scoperto la mia vera personalità e per mesi c'erano stati solo litigi e quasi la fine del matrimonio. Invece oramai era consapevole di potermi imporre qualsiasi cosa e che io non avrei disatteso la sua richiesta. Ciò di cui non era convinta era ora di desiderarlo davvero.
Così, cullò dentro di sé quella fantasia per parecchio tempo, senza decidersi di passare alle vie di fatto. Aspettava il momento buono, ma non tanto da parte mia, quanto da se stessa. Voleva l’ ispirazione, sentire qualche vibrazione che avrebbe, al momento opportuno, riconosciuto come quella giusta.
D: "Mi piace renderti ridicolo sai, mi fa godere. E sappi che prima o poi capiterà che ti mostrerò in queste condizioni anche di fronte ad altre persone, meglio che ti abitui all’idea".
Io:“Sì”
Adorava farmi domande, per obbligarmi a rispondere. Era un modo semplice ed altrettanto efficace per manifestare il proprio potere. Entrambi ne eravamo consapevoli ed eccitati.
D: “E lo sai che cosa significa? Che cosa ho intenzione di fare?”
Il suo sguardo estremamente malizioso mi ri-mandò immediatamente a quei discorsi di tanto tempo prima, quando non voleva accettare per niente.
Ma,dagli sguardi e soprattutto dalle risatine, che avevano qualcosa di decisamente irriverente, sembrava che le sue intenzioni fossero quelle più scabrose. Questa volta non risposi, ma lo sguardo e l’ espressione del mio volto furono eloquenti.
Si alzò dal tavolino e si incamminò muta verso lungo il viale del bar, in direzione di dove era parcheggiata la nostra auto, assolutamente certa che la avrei seguita. Sorrise nel ritrovarmi già con la portiera aperta pronta per farla salire, muto e sottomesso.
D:“Avanti spostati, che cosa fai lì impalato?” In realtà adorava vedermi impacciato, insicuro, timoroso di lei, in attesa di un suo comando persino per respi-rare. Ma le dava anche un piacere atavico redarguirmi, sgridarmi, riprendermi, insomma farmi sentire sempre in difetto.
Io: “Sì, scusami amore!”
E mi affrettai a spostarmi per farla montare, rimanendo ad aspettare per chiudergli la portiera.
Era così intensa ed eccitante osservarmi lì fermo, succube ed innamorato, pronto a subire senza indugio qualsiasi suo capriccio. In auto poi, mi guardò con il suo sguardo di prepotenza che io avevo sempre incoraggiato a palesare.
D: “Chi sei tu?”
Io: “Il tuo cameriere”.
D: “Il mio servo!”
Mi corresse dandomi un leggerissimo schiaffo alla nuca.
Io: “Sì, il tuo servo…”
D: “E qual è il tuo dovere?”
Io: “Servirti ed obbedirti!”
Sentiva un calore nel ventre. Le rispondevo sempre bene e sapevo come renderla orgogliosa. Tuttavia però lei non volle accontentarsi. D: “Servirmi, obbedirmi… e poi?”
Non sapeva cosa rispondere. Arrivò subito una bruciante sgridata.
D: “E poi?”
Cercai di immaginarmi quale fosse la risposta che lei voleva sentirsi dire.
Ma l’ attesa mi procurò altre tre rapide, sgridate in sequenza.
Io: “E poi obbedirti sempre… essere il tuo servo, il tuo schiavo…”
No, no. Non andava proprio bene! Le piaceva avermi portato in crisi, vedermi così in difficoltà, agitato e nervoso, quasi nel panico. Era eccitante vedermi barcollare disperato in cerca di una risposta, di una parola, che non riuscivo a trovare. Significava avere pieno dominio su di me. Però ora voleva sentirlo dalla mia bocca, quelle parole che s’ era immaginata. Quelle paroline che, mentre avanzavamo verso casa, aveva sognato che io le sussurrassi, in un febbrile trasporto d’ amore. Ebbe un moto di rabbia e mi assestò un’ altra scarica di sgridate e schiaffi, rigandomi le guancia di striature rosse. In preda ad un dolore acuto ed insopportabile, credetti di aver trovato la risposta corretta.
Io: “Accettare tutto da te!
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