Non mi importava più di niente.
Passavo i miei pomeriggi a masturbarmi guardando pessima pornografia, di quella pornografia maleducata, che tratta le donne per quello che sono: oggetti.
Quella che fu la mia ragazza per quasi un decennio, la stronza, se n’era andata per sempre. Andandosene, oltre ai miei dvd di Twin Peaks, si portò con sé anche il mio cuore, lo stesso cuore che qualche tempo prima avevo solennemente e stupidamente deciso di donarle.
All’epoca studiavo cinema a Londra. Avevo già girato alcuni video musicali per una band di amici che iniziava ad andare piuttosto forte su youtube, e io mi sentivo già arrivato. Era solo questione di tempo, ben presto avrei cominciato a lavorare con tutti i grandi; con loro mi sarei dato alla pazza gioia fumando la migliore erba del mondo e bevendo champagne dalle tette rifatte di qualche puttana di lusso. Non vedevo l’ora. Dai video musicali sarei passato alle grandi produzioni hollywoodiane, e la mia fama sarebbe stata così grande che la stronza non avrebbe fatto altro che rosicare per tutto il resto della sua piccola, stupida vita.
Un giorno un mio professore della scuola di cinema mi telefonò in preda al panico, mi pregava di raggiungerlo agli studi della Warner perché aveva bisogno con urgenza di sostituire un fonico per una grossa produzione. Disse che mi avrebbe dato una valanga di crediti formativi, e che mi sarebbe stato riconoscente per il resto della sua vita.
Nonostante in quei giorni la mia voglia di vivere fosse pari a zero, l’idea di entrare negli studi della Warner dalla porta principale mi allettava, così accettai.
La produzione in questione era niente po’ po’ di meno che l’ultimo capitolo dell’adattamento cinematografico della saga di Harry Potter. Io quel giorno sarei stato il fonico di presa diretta (ovvero il tizio che tiene in equilibrio il microfono peloso fissato sulla lunga asta) perché il vero fonico si era preso una qualche intossicazione alimentare.
Ero un po’ troppo vecchio per apprezzare veramente quella roba buonista coi maghetti, tuttavia mi piaceva l’idea di lavorarci. Conoscevo perfettamente la sua portata e il suo prestigio, e già fantasticavo su come avrei evidenziato quell’esperienza professionale nel mio curriculum, o come l’avrei usata in un qualche pub come leva per il rimorchio.
Una volta ricevuto il mio pass e varcato la soglia degli studi notai subito una cosa che non ti insegnano a scuola, neanche alla scuola di cinema: un grande set assomiglia molto a una corte: c’è una netta divisione tra i signori (attori, regista, produttori…) e la servitù (macchinisti, truccatori, elettricisti…). Io là dentro mi sentii da subito come l’ultimo dei servi, come lo sguattero: il servo che serve i servi.
La regina del set, naturalmente, era Emma Watson. L’amabile, dolcissima Emma Watson. L’esempio virtuoso e inimitabile di un’intera generazione.
La prima scena che girai andò bene, tenevo il microfono come un vero fuoriclasse. Hermione disse la sua battuta sagace, Ron sgranò gli occhi e si voltò verso Harry. Il regista gridò “Stop” e vista l’ilarità della scena ci furono delle risatine e un timido applauso da parte degli addetti ai lavori. Devo ammettere che mi faceva un ceto effetto essere così vicino a quei ragazzini famosi.
Non riuscivo a smettere di fissare Emma. In lei c’era qualcosa che la faceva somigliare ad una zingara. Era dotata di quel tipo di fascino, scuro e luminoso insieme, a cui pochi uomini sanno resistere. Al di là del suo aspetto gitano, nulla del suo carattere ricordava una zingara. Emma sorrideva sempre, a tutti, perfino alle comparse, inoltre cercava di chiamare tutti per nome, anche se era un’impresa a dir poco titanica in un set di quelle dimensioni.
La prima volta che vidi il suo volto privo di sorriso Emma stava guardando proprio me. Aveva già incrociato il mio sguardo un paio di volte, sempre sorridendo, ma ora aveva un’espressione perplessa, quasi contrariata. Fu proprio quello sguardo a causare l’ingrossamento iniziale della mia cappella.
Dovevo andare in bagno, altrimenti non ne sarei più uscito. Sì, ma dove diavolo si trovava il bagno?
Siccome la troupe doveva girare dei controcampi senza sonoro mi fu concesso il permesso di allontanarmi per qualche minuto.
Trovai una grande roulotte appartata che somigliava molto a quella di un circo. Mi fermai a contemplarla, riesumando antichi ricordi.
Durante l’estate dei miei dieci anni un circo si stabilì nel mio quartiere. Fu la prima e ultima volta. I soldi per il biglietto non ce li avevamo, ma io e i miei amici imparammo presto dei trucchi per intrufolarci di nascosto. Un giorno, in cambio dei pochi spiccioli che avevamo in tasca, una zingara che diceva di fare la domatrice di leoni ci fece vedere la sua fica. Era la prima volta che ne vedevo una.
Entrai nella roulotte, fingendo tranquillità. Se fosse arrivato qualcuno avrei mentito, improvvisando qualcosa.
Quella roulotte era grande e lussuosa in modo esagerato, non aveva niente a che fare con la roulotte di un circo di quartiere, quella era una roulotte da star del cinema. Su una mensola trovai una fotografia di Emma vestita da Hermione.
La mia mano cominciò a scendere verso i pantaloni ma fu subito interrotta dal suono della porta che si apriva alle mie spalle.
Era Emma.
“Che ci fai qui?” le chiesi.
“Cosa ci faccio io? Cosa ci fai tu?” replicò lei, “questa è la mia roulotte.”
“Già, perdonami. Ero solo in cerca di un bagno.”
Mi avvicinai alla porta per uscire ma lei rimaneva ferma, impedendomi di passare, fissava il vuoto e meditava.
“Perché continui a fissarmi in quel modo?” disse infine.
“Quale modo?”
“Non intendo adesso, ma prima… sembra quasi che tu mi volessi spogliare con gli occhi!” disse, arrossendo un poco.
Sorrisi tra me alla battuta che mi venne in mente, poi pensai che già che c’ero potevo pure rischiarmela, dopotutto quello non era neanche il mio vero lavoro e il giorno dopo non mi avrebbero richiamato comunque.
“Tutti quanti ti spogliano con gli occhi, bambina. Tu sei Emma Watson.”
Emma provò a fingere incredulità, ma era una pessima attrice, e lo sapevamo entrambi. Alla fino scoppiò in una risatina che suonava come un misto di imbarazzo ed eccitazione.
“Sai…” disse poi seria. “So che ti suonerà strano, ma a volte mi sembra che le persone abbiano paura di me… i ragazzi soprattutto.”
“Non è strano” replicai, “pensando a tutte quelle cose femministe che dici in giro.”
Emma apparve seriamente urtata questa volta. Ma io non mi spaventai.
“Comunque io non ho paura di te, e posso dimostrartelo.”
“E come?”
“È semplice” dissi, mentre l’uccello riprendeva a gonfiarsi nelle mie mutande. “Ti piace il cazzo?”
“Scusa cosa?!”
“Il cazzo, hai presente? Il pisello, la mazza, il piffero…” Mi abbassai i pantaloni. “Ti piace o non ti piace? È una domanda semplice. Non c’è una risposta esatta.”
Emma arrossì e si voltò di scatto verso la porta della roulotte.
Pessima mossa.
Mi avvicinai a lei senza fare rumore, premetti il mio cazzo duro su i suoi glutei sodi. Lo presi in mano e iniziai a usarlo come un martello, brandendo piccoli colpi affettuosi, a destra e a sinistra, con dolcezza.
Lei si voltò verso di me. Non sapendo dove guardare, tenne gli occhi chiusi.
“Dovrei urlare” sussurrò.
“Puoi scegliere” replicai io, “urlare subito per la paura, o urlare tra un po’ per il piacere.”
Emma alzò lo sguardo su di me. Faceva di no con la testa, ma i suoi occhi dicevano tutt’altro.
Emma aveva gli occhi più belli che si siano mai visti su una ragazza di questo sistema solare, nonostante non fossero né azzurri né verdi, ma solo castani. Le pupille vibravano, come quelle di un cucciolo che si è smarrito ed è pietrificato dalla paura dell’ignoto. In quel momento mi convinsi che lei fosse ancora vergine. Glielo chiesi e lei disse di no con la testa. Io rimanevo tuttavia un po’ dubbioso.
“Dimostramelo, bambina.”
Guardò in basso e iniziò a fissare il mio fratellino che se ne stava lì ad aspettare, sull’attenti. Si passò la lingua sulle labbra in un gesto involontario ma inequivocabile. Le sue ginocchia si piegarono e lei raggiunse la posizione. Guardò verso di me, dal basso verso l’alto, implorante, come se sentisse il bisogno di un permesso per procedere.
Io le sorrisi e lei iniziò a succhiare, con naturalezza ma anche con molta classe e dignità, bisogna ammetterlo. Emma si comportò come una vera signora, per lo meno all’inizio. A un tratto si lasciò andare, all’improvviso; mi afferrò le chiappe e me le strizzò con forza. Sobbalzai. Emma, nonostante la sua bocca fosse riempita dal mio cazzo, riuscì a sorridermi, con gli occhi.
Ora i suoi occhi non erano più quelli di un cucciolo smarrito, ma quelli della gran vacca che era. Una vacca di classe, femminista e delicata come poche altre, certo, ma comunque una gran vacca.
Le donne non erano oggetti. Pensavo. Perlomeno non sempre, lo diventano solo in alcuni momenti, nei momenti giusti, per poi tornare qualcos’altro, qualcosa di più dignitoso, a cui vale la pena di aprire le portiere e regalare fiori.
“Più in fondo” ordinai. “Infilalo tutto dentro, per tutta la lunghezza.”
Emma obbedì. O almeno ci provò.
Poverina… Mi sentii subito un po’ in imbarazzo per la piccola Emma. Più lei provava a mandarlo giù, più lui rimbalzava fuori. Non posso dire di avere un cazzo mostruoso, tuttavia le sue difficoltà erano evidenti. Che tenerezza che faceva quella ragazza! Non riuscivo a smettere di sorridere. Sapendola una ragazza grintosa e obbediente, capii che non avrebbe smesso di tentare fino a quando non le avessi dato il permesso di lasciar perdere.
“Un giorno ci riuscirai”
Emma si scostò leggermente e mi sorrise, poi si alzò in piedi. A quel punto mi fece cenno di seguirla. Io esitai per un istante e lei mi afferrò l’uccello, come fosse una maniglia, e iniziò a tirare.
Passammo attraverso una tenda e mi ritrovai nella parte della roulotte adibita a camera da letto.
Emma si abbandonò sul grande letto sfatto e cominciò a spogliarsi, appariva perfettamente a suo agio in quella situazione. Io la contemplavo, grato all’universo per la situazione in cui mi aveva messo ma anche un po’ incazzato: sapevo che avrei potuto raccontare quella storia un milione di volte, e un milione di volte sarei stato creduto un contaballe mitomane.
Finii di spogliarmi ed iniziai ad abbassarmi verso di lei.
“Non nella fica” sussurrò lei, “capisci…”
Capivo. Perfettamente.
Emma allargò le gambe lentamente, si spinse entrambi i talloni dietro la testa, uno dopo l’altro, e alla fine assunse la forma di un vassoio. Cominciò a dondolare ritmicamente avanti e indietro. Ed io pensai che quella doveva essere la forma esatta di Dio, se solo fosse esistito.
“Sfondami” sussurrò, “sfondami il culo.”
Ed io per poco non mi misi a piangere, non tanto per la gioia che quella proposta mi causava, ma per la bellezza di quella piccola parola, pronunciata in un modo tanto innocente da quelle dolcissime labbra.
Emma cominciò a fare pressione con le dita, e il suo ano si schiuse delicatamente come un fiore di carta giapponese gettato nell’acqua, mentre il mio uccello iniziava a farsi strada, risoluto e inesorabile.
Iniziai a spingere, sempre più forte e sempre più in profondità, e dalla bocca socchiusa di Emma uscivano soavissime e delicate note di piacere.
Le mie mani facevano presa sull’incavo delle sue ginocchia ed Emma continuava a mantenere entrambi i piedi dietro alla nuca, dondolando come una culla, avanti e indietro. Ritto su di lei la contemplavo in tutta la sua totalità, in tutta la sua struggente bellezza. La scrutai dalla cima della testa alla coda, anche se la coda non era sua, ma era la parte di me che la penetrava.
Ora spingevo dal basso verso l’alto, e ammiravo la sua vulva che si stropicciava e si arrossava per via dell’azione del mio pompare da sotto.
Le note di piacere che Emma emetteva aumentarono, accrescendo il mio eccitamento e invitandomi a incrementare il ritmo.
A un tratto una nota più alta, più lunga, più simile a un lamento supplichevole. Era il suono della sua capitolazione. La sua essenza sgorgò dolcemente dalla sua vagina verso il basso, sotto forma di liquido trasparente, verso le lenzuola candide, verso il mio uccello.
Quello era il momento, il mio momento. Era tutto pronto per il più grande orgasmo della mia vita, l’istante che avrei ricordato per sempre, quello per cui ero nato. Io ero un vulcano pronto ad eruttare, e niente al mondo avrebbe potuto fermarmi.
Un rumore sordo, ripetuto, insistente. Cercavo di capire ma il mio cervello faticava a dare un senso a quel rumore. Il rumore si ripeté, sempre più violento. Qualcuno bussava con forza alla porta della roulotte. Quando me ne resi conto mi bloccai di colpo, guardai Emma, lei appariva tranquilla, noncurante.
Mi guardò dritto negli occhi con quella calma tipica di chi sa di avere la situazione sotto controllo.
“Tornate tra dieci minuti!” ordinò perentoria, mentre io riprendevo lentamente a fare avanti e indietro dentro di lei.
“Non c’è fretta” disse.
Avrei tanto voluto venirle in faccia, o ancora meglio in quei suoi bellissimi occhi da zingara, rendendoglieli più rossi delle labbra della sua fica… ma Emma con quel suo visino ci lavorava, e mi dovetti accontentare di venirle nel culo.
Con la mano destra mi aggrappai al suo fianco sinistro, con l’altra le strinsi dolcemente il collo; le passai lentamente la lingua su tutto il volto, partendo dal mento e salendo su fino agli occhi, mentre assestavo gli ultimi colpi di bacino in quel suo culo bianco e perfetto.
Sul set non ci tornai più, naturalmente. D’altronde come potrebbe uno sguattero tornare a scopare i pavimenti, dopo essersi scopato il culo della regina?
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