Il sogno ti porta lontano …
Il tepore della biblioteca dell’Università mi avvolgeva con una meravigliosa sensazione di benessere: confrontato con l’esterno, quell’ambiente sembrava veramente da sogno e mi ci crogiolavo felice, dimenticando quasi il motivo principale per cui ero lì: non tanto la ricerca di quei volumi e di quei documenti utili alla ricerca che stavo conducendo sule origini della mia provincia di origine, documenti e volumi che solo in una così grande e fornita biblioteca avevo qualche speranza di rintracciare, quanto piuttosto la possibilità di incrociare, ancora una volta, la sirena che mi aveva attirato in quella biblioteca dopo che, in varie occasioni, l’avevo incrociata che passeggiava per i porticati dell’Università e, avendola seguita, avevo scoperto che frequentava quella stessa biblioteca per ricerche che forse attenevano agli esami che stava preparando.
Io non avevo più problemi di esami, almeno da quattro anni: mi ero già laureato con lode ed avevo anche vinto un concorso che mi aveva nominato professore in un Istituto cittadino: a poco più di venticinque anni, potevo considerarmi, se non arrivato, almeno ‘stabilizzato’ come era di moda dire in quei tempi; e guardavo anche con una certa tenerezza i ragazzi che ancora scalpitavano per arrivare alla laurea e, forse, dopo, non avrebbero avuto ilo stesso percorso agevole che era toccato a noi usciti prima dall’Università; la ragazza che mi intrigava era uno di questi e si vedeva che era fortemente impegnata nelle ricerche, non avevo ancora capito se per la tesi di laurea o per un esame molto impegnativo.
Ero emozionato forse un po’ troppo, considerando la mia età e la particolare situazione in cui mi ero cacciato: morivo dalla voglia di vederla comparire, ma sapevo anche che, come al solito, non avrei trovato poi il coraggio di farmi avanti con una qualsiasi dichiarazione: il fardello di un antico riserbo, la paura (contadina) di sfigurare di fronte ad una bellissima ragazza, tutto insomma mi bloccava la lingua e il corpo; non ero capace, quando mi capitava vicino, nemmeno di accennare un saluto o un qualsiasi approccio per farle intendere che non era un caso se mi incontrava continuamente sulla sua strada; quella mattina, quando la vidi entrare e dirigersi, come al solito, allo schedario per la ricerca dei volumi, mi feci coraggio e mi avvicinai, con la scusa della stessa ricerca; quando le fui vicino, riuscii ad abbozzare un sorriso e a sussurrarle a fior di labbra un ‘buongiorno’ che mi fece avvampare fino alla radice dei capelli.
Si aprì però, in quel modo, una crepa nella mia timidezza e cercai anche, lavorandoci, di farla diventare un varco per aprirmi con lei; quando tornammo al tavolo di lettura, la aiutai a sistemare i tomi che aveva richiesto e mi collocai dall’altra parte, proprio di fronte a lei, per avere agio di guardarla tutta da una posizione di favore; non riuscii a concludere molto, quella mattina, preso com’ero a riempirmi occhi e cuore della visione della mia dea che finalmente potevo ammirare da tanto vicino; mi rendevo anche conto, per la verità, che era oltremodo stupido, per un uomo di ventisei anni ormai professionalmente avviato, mettersi a tremare d’emozione di fronte ad una ragazza, per quanto bella e, all’apparenza, quasi inarrivabile; ma rimandavo, per tutto, d un’educazione spartana ricevuta in u ambiente provinciale dove valori, norme e principi erano le linee direttive e, tra le tante cose, prevedevano anche un riserbo ed una delicatezza che spesso sfociavano nell’idiozia, specialmente se applicati in un ambiente disinvolto e promiscuo come quello universitario.
Io comunque cercavo in ogni modo di non forzare la mia naturale tendenza al riserbo, alla pacatezza, all’attesa paziente; e aspettavo fiducioso che qualcosa venisse a rompere il cerchio delle resistenze che si frapponevano ad un dialogo aperto e chiaro; lei ruppe l’incanto vergando su un foglietto che poi mi passò ‘ho voglia di una sigaretta; andiamo nel chiostro?’; se un re mi avesse invitato a corte, avrei sentito meno vivo l’entusiasmo per l’invito; misi in ordine le mie cose lasciandole in attesa, le porsi un braccio e ci avviammo all’uscita, recuperando sul percorso i cappotti, essendo il chiostro aperto.
Mentre passeggiavamo lungo il porticato interno, trovammo il modo per rompere il ghiaccio presentandoci, ‘ciao, Ombretta’ ‘piacere, Giorgio’, che rappresentò, nella mia logica, il passo avanti più importante che potessimo fare nella reciproca conoscenza; col tempo, poi, a mano a mano che ci incontravamo con maggiore disinvoltura e si parlava più serenamente di noi stessi, precisai che mi ero laureato appena cinque anni prima in quella stessa università e che ero già riuscito ad inserirmi nell’insegnamento in forma quasi definitiva; inevitabilmente, si informò molto su aspetti particolari della mia esperienza in vista di quello che l’aspettava; lei infatti era agli ultimi esami (il più tosto era quello che stava preparando) e contava di concludere entro la sessione d’esami estiva o, al massimo, in quella autunnale.
Prendemmo così l’abitudine di incontrarci quasi ogni giorno, nel pomeriggio. spesso facevo volate indicibili per arrivare in tempo, dopo la scuola e per tutto l’inverno ci rifugiavamo difilati nella biblioteca che ci garantiva anche il tepore dell’ambiente, che non guastava; quando cominciarono i tepori primaverili, ci spostammo verso i cortili con chiostri e fontane, dove si respirava un’aria più raccolta,altrettanto calma ma non obbligatoriamente silenziosa come nelle sale di lettura e, volendo, ci si poteva anche concedere il lusso di un sigaretta: Milioni di volte fui tentato di azzardare un approccio più avanzato, prendendole una mano o passandole un braccio sulle spalle; ma puntualmente venivo frenato da uno strano mio pudore che non aveva niente a che fare con la sua possibile reazione: probabilmente,se avessi osato, non si sarebbe neppure negata; se si fosse risentita, al massimo dovevo scusarmi per avere frainteso; ma non avevo il coraggio di osare e puntualmente mi ritiravo nero con me stesso per non riuscire a realizzare nemmeno un piccolo tentativo per arrivare a realizzare il sogno più alto di quel momento, baciare Ombretta.
La ‘tragica altalena’ andò avanti per tutta la primavera ed io non riuscii a trovare la forza per compiere il gesto di abbracciarla e di baciarla, anche a tradimento: ogni volta che pensavo di farlo, le mani mi sudavano, la temperatura saliva, sentivo la gola seccarsi e il respiro mancarmi, andavo in debito d’ossigeno e ci mancava poco che avessi una crisi; puntualmente, appena ci incontravamo davanti all’Università, la prima, istintiva cosa che facevamo era andare a cercare il cortile meno frequentato, meglio quello dove c’erano anche delle panchine dove sederci a parlare dei massimi sistemi senza dare alle chiacchiere nessun costrutto se non il desiderio di stare vicini e di ‘respirarci’: specialmente quando, all’inizio della primavera, i cuoi vestimenti si fecero più leggeri e lasciarono respirare il corpo desiderato e mai nemmeno intravisto, il calore che promanava dal suo seno mi investiva in pieno con il profumo del suo intimo che emergeva tra le vampe del suo calore: mi inebriavo di quell’odore di personale, di privato, di riservato a pochi; ma non trovavo il coraggio di allungare una mano.
Molte volte arrivavo a soffrire quasi fisicamente, a sentire le pulsioni del corpo accavallarsi e spingersi tutte nella stessa direzione e dovevo impormi di rientrare in me, nel ruolo che avevo scelto, e di essere l’amico fraterno che si occupava dei suoi disagi di studio, non di quelli sentimentali; ma soffrivo intensamente e la sua vicinanza non faceva che stimolarmi sofferenza: non sarei stato meglio, lo sapevo bene, se avessi denunciato il mio malessere e avessimo deciso di smettere di vederci o di stare troppo vicini; separarci e allontanarci non era neanche lontanamente proponibile: io volevo stare vicino ad Ombretta, amarla in silenzio, senza neppure dirglielo, desiderarla persino ma in totale purezza e non contaminarla neanche con il pensiero: fu amore puro, il mio, almeno fino a quella mattina di sole.
* * *
… Poi qualcosa ti fa sbattere il viso contro la realtà
L’avevo cercata a lungo in tutta l’Università, quella mattina; ma non c’era stato verso di rintracciarla da nessuna parte; era ormai l’ora dell’aperitivo, quando gli universitari sciamavano tutti allo stesso bar per i riti del mezzogiorno: da lontano, vidi nel bar che frequentava il suo gruppo di amici che si erano ritrovatori quasi tutti, le ragazze civettuole e vagamente sfacciate, i ragazzi supponenti e maschi; di lei, nessuna traccia; rassegnato a non vederla, mi appollaio sullo sgabello altissimo davanti al bancone e mi faccio dare un bicchiere di whiskey, forse per affogare la delusione; due ragazze si vengono ad appoggiare accanto a me, una seduta sullo sgabello a fianco al mio e l’altra in piedi tra noi due: mentre consumano il loro aperitivo, si lanciano nei soliti pettegolezzi.
C’è movimento sulla porta e ad un tratto la vedo entrare; ma non è sola; le sta a fianco e la tiene per un gomito, guardandola con amore infinito, un bel ragazzo della sua età al’incirca con un fisico palestrato ben evidente e solido; si scambiano un lieve bacio sulle labbra e devo poggiare il bicchiere sul bancone, perché rischio di versare il liquido, tanto mi trema la mano; mi accendo una sigaretta, con l’intento di darmi un tono e aspiro con eccessiva forza; mi si annebbia per un attimo il cervello; tra le nebbie sento il colloquio tra le due mie vicine.
“Hai sentito che Ombretta è andata all’ospedale per l’ecografia?”
“Perché?”
“Non sai? Non si è protetta ed è rimasta incinta; pare che la gravidanza non presenti problemi.”
“Chi è stato?”
“Ma come? Flavio: chi vorresti che fosse; è da un anno che fanno sesso e stavolta hanno sbagliato qualcosa.”
La mano mi trema visibilmente, al punto che la sigaretta mi cade e si va a spegnere nel whiskey; scendo dallo sgabello e vado verso la porta, quasi in trance: i due bloccano l’uscita e mi devo fermare; li guardo con odio feroce, lui se ne frega, lei abbassa gli occhi e un poco la testa; si spostano a farmi spazio; esco: fuori non lo so, ma dentro stavo piangendo.
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