La ragazza che amavo, della cui purezza non avevo mai dubitato fin dalla prima elementare, era una troia. Non meno delle altre puttanelle del liceo che frequentavamo, quelle ragazze sboccate e sgradevoli che fumavano marijuana nei bagni e che indossavano scarpe di plastica lucida e tute da ginnastica. Solo che lei era Gloria, la mia Gloria.
Lei indossava camicette ricamate e ballerine di vernice nera; sorrideva sempre, a tutti, perché era una brava ragazza che amava la vita. E ora era nuda. Nuda sullo schermo del mio telefonino. Inginocchiata davanti al cazzetto circonciso di qualche stronzo figlio di papà, a cui lei lo aveva appena succhiato.
Quando vidi quella fotografia capii che la mia Gloria non era più mia, capii che non lo era mai stata, e che mai lo sarebbe diventata.
I suoi occhi mi guardavano, brillavano e mi tormentavano. Ora i suoi occhi comunicavano un misto di vergogna e malcelata soddisfazione, e io non riuscivo a guardare quegli occhi, né riuscivo a distogliere lo sguardo.
Solitamente impeccabili, in quella foto i bei capelli di Gloria erano profanati, devastati, impiastricciati di sperma biancastro. Lo sperma che apparteneva allo stesso tizio che aveva scattato quella foto e che me l’aveva spedita, forse perché conosceva la mia adulazione nei suoi confronti, forse per vanteria o per megalomania, o forse solo per noia.
Il poter ammirare un corpo nudo tanto fantasticato ma non poterlo toccare e una cosa che può far impazzire un uomo, figuriamoci un ragazzo. Il suo corpo era lì davanti a me, più perfetto che in qualsiasi fantasia; era lì, e io non potevo toccarlo.
Cancellai la foto dal telefono tre volte, e la riscaricai altrettante. A un certo punto non ebbi neanche più il bisogno di guardarla. Chiudevo gli occhi e quell’immagine appariva davanti a me, in tutta la sua gloriosa decadenza.
Gloria aveva due seni piccolini, ben proporzionati, tondi e pieni, di un rosa pallido e delicato. I capezzoli erano di una tonalità diversa, non erano più scuri, semplicemente più rosa. Pensai di non aver mai visto in tutta la mia vita capezzoli più rosa di quelli, di non aver mai visto un rosa più reale di quello. Al di là dei suoi capezzoli, la cosa che mi colpì maggiormente furono i suoi fianchi. Sporgevano di molto, come se Gloria si fosse sforzata per fare in modo che fossero ben visibili nella fotografia.
Mi immaginavo di toccare quei fianchi e quei seni, di baciare quella bocca. Più lo immaginavo e più mi sentivo morire dentro, impotente come un carcerato durante un cataclisma. Qualcuno poteva toccare la sua carne, aveva il suo permesso, e quel qualcuno non ero io.
Ammiravo quella carne e quella freschezza, ammiravo quella femminilità tracotante, e in fondo, anche se è dura da ammettere, ammiravo quello stronzo che se la scopava; lo avrei ucciso, certo, tuttavia lo ammiravo.
Volevo toccare Gloria, volevo inchinarmi davanti a lei come davanti alla mia regina. Eppure, allo stesso tempo, desideravo punirla. Desideravo umiliarla.
Alla fine persi il conto delle seghe che mi feci con quella foto durante quel week-end. Ad ogni orgasmo raggiunto il desiderio di vendetta saliva, si moltiplicava, così come il senso di colpa.
Il lunedì mattina entrai in classe prima di tutti gli altri, raggiunsi il mio banco e fissai gli occhi su quello di Gloria, due file davanti al mio. Lei varcò la soglia di corsa, sul suono della campanella dei ritardatari; sedendosi si voltò verso di me e mi sorrise. Lo faceva tutte le volte che era in ritardo ma quella volta io non contraccambiai il sorriso. Per una frazione di secondo il suo volto si incupì, poi si voltò verso la cattedra, senza dare troppo peso alla cosa.
Nella mia mente lei era nuda. Anche adesso, in classe, nel mondo reale. Era seduta due metri davanti a me, seguiva la professoressa con lo sguardo e prendeva appunti, si comportava in modo normalissimo, certo, eppure era nuda. I suoi fianchi carnosi sporgevano ai lati della sedia, pallidi giovani e perfetti. La sua schiena bianca veniva sfiorata dolcemente dal movimento soffice e irregolare dei suoi capelli sciolti. Sarà stata solo la mia immaginazione, eppure fui certo di riuscire a sentire l’odore della sua fica.
Volevo masturbarmi, fui a un passo dal farlo. Mi sarei alzato, lo avrei tirato fuori e avrei iniziato a menarmelo come se nulla fosse. Avrei camminato lentamente verso di lei, incurante degli sguardi sbigottiti di insegnante e compagni di classe. Sarei arrivato davanti a lei giusto in tempo per venirle in faccia. Quell’orgasmo mi apparteneva, nessuno avrebbe potuto portamelo via; era stato l’universo a propormelo, e io lo avrei preso, prima o poi, in un modo o nell’altro.
A circa metà della prima ora Gloria si voltò verso di me; abbozzò un sorriso, io rimasi impassibile. Si voltò una seconda volta pochi minuti dopo, e una terza poco prima che suonasse la campanella. Alla fine non sorrideva più, eppure non sembrava neanche arrabbiata. Nel suo viso intravedevo qualcosa che non aveva a che fare con niente di ciò che conoscevo. Lo vedevo, ma non lo capivo. Se all’epoca non fossi stato ancora così inesperto sarebbe stato diverso, ma ero vergine, e mi arrovellai a lungo il cervello nel tentativo di capire cosa diavolo le passasse per la testa.
Sul suono della campanella che sanciva la fine della prima ora la professoressa ci comunicò che l’ora successiva sarebbe stata buca, e ci pregò di non fare troppo chiasso poiché non sarebbe arrivato nessun supplente.
Quando la professoressa se ne fu andata Gloria si voltò ancora una volta verso di me, ma io mi ero già alzato per uscire dall’aula.
I corridoi erano deserti. Monocromatici, malinconici e completamente senza speranza. Un pugno nello stomaco. Dentro lo stomaco. Lo avvertivo chiaramente. Andava su e giù, a destra e a sinistra, con forza, contorcendomi il ventre e contorcendomi l’anima. Non ci sarebbe stata alcuna vendetta, non ci sarebbe stato alcun orgasmo. Quelle cose le fanno altre persone, con altri caratteri. Io sapevo di essere destinato a un futuro più misero, più passivo. La mia vita sessuale sarebbe stata una barzelletta triste, e non potevo farci niente: questione di indole. Ero certo che tutto fosse finito ancora prima di cominciare, e che solo un miracolo avrebbe potuto salvarmi.
Il miracolo si manifestò subito, sotto forma del dolce peso di una mano femminile che si posava sulla mia spalla.
Era lei.
Il miracolo.
La fissai, freddo come il grigio siderale di quei corridoi d’istituto superiore. Ma lei non aveva motivo di prendersela a male. Mi guardò con la dolcezza con cui si guarda un bambino che fa i capricci.
“Dovevo immaginarlo” disse. “Non avrei dovuto spedirtela quella foto.”
Sgranai gli occhi.
“Chi è lui?” borbottai.
“Ha importanza?”
Per me ne aveva.
Gloria non me lo disse. Mi prese una mano e sgranò le mie dita come fossero gli avemaria di un rosario, separò anulare e medio dalle altre dita e se le infilò in bocca. E nel momento esatto in cui il sangue iniziò a precipitare verso il mio basso ventre, il mio cervello si annebbiò, e tutto cominciò a rallentare.
Il bambino dentro di me aveva paura come un condannato a morte condotto al patibolo, l’uomo che stavo per diventare era impaziente e scalpitante, in attesa di nascere.
Gloria mi trascinò in bagno.
“Hai paura?” disse.
Non risposi.
“Non ne hai motivo. Sei pronto.”
“E se dovesse arrivare qualcuno?”
Gloria ci pensò un’attimo.
“Potranno guardare o partecipare. Decideremo poi.”
Per un attimo immaginai la scena; avrei voluto dire qualcosa, aprii la bocca ma non uscì nulla.
Gloria si inginocchiò e mi abbassò i pantaloni.
“E se dovesse arrivare un professore?”
“E se dovesse arrivare un professore…” ripeté lei, scandendo bene le parole, “potrà guardare o partecipare. Dipende dal professore.”
Sorrise, io probabilmente impallidii ma la cosa finì lì, avevo troppe cose a cui pensare, e pochissimo sangue nel cervello.
Gloria tirò fuori la punta della lingua e la fece atterrare con grazia sulla parte superiore della mia cappella, tesa e violacea e ancora vergine. Portò le mani dietro la schiena e poi schiuse la bocca, piano, accogliendo dentro di sé ogni centimetro del mio membro, e il mio cazzo duro scomparve totalmente dentro di lei. Spalancai la bocca per lo stupore, come un bambino davanti al più elementare gioco di prestigio. Gloria non fece nulla per qualche istante: si godeva passivamente la mia presenza dentro di sé; poi alzò lo sguardo. Quello fu il momento. Non ero più il me di pochi attimi prima. Ero Dio, e Gloria era l’universo che roteava e precipitava alla velocità della luce attorno a me, pur rimanendo immobile.
Gloria iniziò a pompare, avanti e indietro, senza mani, sempre più velocemente, sempre più voracemente. Poi, poco prima che capitolassi, si fermò. Si allontanò piano. Un filo di saliva luccicante e densa collegava la punta della sua lingua alla punta della mia cappella.
Gloria tentò di riavvicinarsi ma le dissi di no.
“Alzati!”
Lei sorrise. Era contenta di non avere più a che fare con un bambino spaurito. Ora ero un uomo, e lei non poteva essere più soddisfatta di se stessa.
Gloria si alzò e io mi chinai in avanti. Le abbassai la gonna, senza fretta. Stavo per affondare le mie mani in quei fianchi, in quella carne. I miei polpastrelli scalarono lentamente il suo corpo e le mie mani si persero in quel vicolo cieco, fatto per metà della seta della sua camicetta, e per l’altra metà della sua carne nuda.
Quel contatto! Quel contatto che non può essere descritto con parole terrene… Quel contatto dava un senso a tutta l’esistenza, quel contatto era la vita stessa.
A un tratto qualcosa di totalmente inedito catturò la mia mente. Un odore. Un odore che non avevo mai sentito in vita mia, più dolce della dolcezza stessa… era la sua fica: il vero odore della sua fica. Il mio voltò si inabissò nel suo tenero ventre, mentre le mie mani si aggrappavano alle sue chiappe, e le massaggiavano con sacralità, e le strizzavano con forza.
“Devo averti” dissi, “devo averti completamente.”
Lei mi sorrise, dall’alto verso il basso.
Ora era lei Dio, e io non ero altro che uno dei suoi tanti giocattoli; ero completamente in suo potere, ma per mia fortuna lei era un Dio buono.
“Un giorno” disse, “un giorno sicuramente, ma oggi avevo in mente qualcos’altro”
Gloria si inginocchiò nuovamente e mi diede un bacetto sulla bocca, un bacetto casto, tenero; mi fece cenno di alzarmi e io mi alzai. Prese il mio membro in bocca un’ultima volta, coccolandolo lentamente e amorevolmente tra la lingua e il palato. Non smise di guardarmi negli occhi fino a quando non le venni addosso. Ed eccola, di nuovo lì. Di nuovo sporca, di nuovo colpevole, di nuovo angelo caduto. Lei era colpevole per tutte le donne del mondo; io ero colpevole per tutti gli uomini del mondo.
Gloria era di nuovo la mia Gloria. Il mio sperma le colava giù dalla fronte e dalle guance, e lei non era più una troia.
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