Avrebbe dovuto essere la festa di primavera, finestre spalancate e gerani a far ridere i davanzali. Una ricorrenza, la nostra –mesiversario usano i miei studenti- un modo per farsi beffe di chi aveva detto che eravamo poco più d’un selfie.
Cosa fossimo, non ne avevo idea ed in fondo come si fa a dire che forma ha una nuvola?
In quei mesi d’inverno mi aveva sfinito il bisogno di sapere. Ancora non avevo inteso che ogni richiesta è una supplica velata, che domandare fa rima con implorare. E le ginocchia le avevo livide da tanto m’ero piegata in atto di preghiera.
Per un giorno m’ero imposta di travestirmi da Brunilde senza accorgermi che i capelli li avevo tirati all’indietro per rubarti uno sguardo e quando mi sei saltata in grembo ogni proposito marziale s’è fatto coltello da burro.
“Se fa la brava, poi glielo compri un cono a Clementina?”.
Gelato pagato, il nostro è sempre stato un negozio dispari. E’ bastata la pressione di un dito calcato dove attendevo la grazia per farmi tornare ballerina di carillon, corallo rosa che fa il girotondo.
La voce d’un gabbiano aveva portato con sé l’eco di un motivetto di tanti anni fa. Giuni Russo cantava: toglimi il bikini .. , ed è stato delizioso dargli retta. Una folata di bora il pretesto per allungare le mani sotto la lana.
Quell’inquietudine che alcune volte mi opprimeva –dove ti sei fatta brava a sganciare un reggiseno con due dita e scacco al re- lì sulla sabbia era svaporata.
Mi son ritrovata ostaggio dei tuoi palmi che conoscevano i contorni di donna, che seguivano una trama di muscoli intorpiditi e di vene mal lusingate. Me li sentivo addosso che mi scaldavano i seni. Proprio lì in mezzo dove la pelle si fa più scura s’era dischiusa un gemma d’agrume, apice spudorato d’un corpo che ti stava chiedendo di entrare.
Ne avevi carezzato uno e poi l’altro e poi ancora insieme, come fratelli con cui sta male fare differenze. E intanto con lingua da lumaca risalivi il mio orecchio depositando confetti di zucchero
“Puntuti come i limoni, rotondi come i pompelmi, dolci come i mandarini”, ed il demone di Saffo t’aveva condotto al limite dello stucco.
Non ho resistito: “Le mie pere al mercato delle erbe?”.
Come vere massaie s’era dibattuto di tutto il reparto ortofrutta dell’Esselunga: foggia, valore calorico e funzione di ogni verdura di stagione. Per un attimo ho inteso fossi una fan del carciofo ma lo sapevo bene che la vera passione era per la polpa rossa, la bistecca con osso anche screziata di lardo.
“Big ass, dicono i miei, di studenti”.
“Baciami il .. “.
“ .. and saggy tits”.
“Rodigina maleducata e stronza”.
S’era riso come matte e poi erano stati baci sfacciati e dita che stringevano come se non fosse carne quella sotto i polpastrelli ma sasso.
Tale e quale a pentola che sbuffa per un pressione smodata qualcosa devo aver sibilato. Credo significasse: fermati, DioSanto, vuoi mandarmi ai pazzi?
L’educazione l’ha vinta sulla passione, è la natura di Giuliana, lo sai ma dentro s’agitavano aloni che non sapevo ripetere. Con la voce mi lagnavo, come l’avrei spiegata a Gianni domattina la sabbia nel letto, ma non sono mai stata brava a sviare i discorsi.
Come carro da battaglia non hai dato tregua e la mia fede, quella roba dorata su cui ho giurato d’essere leale in eterno a quello che neanche ricordo, è stata tuo bottino di guerra. Te la sei fatta scorrere attorno a quella lingua da geco, l’hai penetrata con la punta, me l’hai fottuta davanti agli occhi mentre domandavi: “Te sa cossa ghe x’è datorno a ‘sto buso?”.
Deglutivo e sbiancavo mentre mi facevo bambina ubbidiente, con gambine conserte, testa china, silenziosa anzi ammutolita. Votata ad una donnetta con l’espressione da contadina inurbata. Devota ad una zitella che pare un triste surrogato di uomo, un palliativo di maschio e qualche volta solo una pecorella smarrita ed invece con quella bardatura da scopata artefatta con cui ogni tanto si trucca è la sola che ha assaggiato il sapore della mia vita non spesa.
Erano questi i confini della nostra storia: bottoni che sgusciavano da asole e poi zip che salivano spedite. Dopo un giro di giostra quante volte è rimasto a mezz’aria il fruscio degli abiti raccolti da terra? Devo scappare, non essere morbosa, andiamo due giorni ad Abano e cose del genere a riempirmi la mente vuota mentre l’inguine era ancora caldo.
Stavo quarti d’ora di fila accucciata in un vano doccia a chiedermi che potevo offrirti se non una donna senza capo ne coda. Rigavo la condensa sul vetro e scrivevo il tuo nome e di seguito il mio ed intanto galleggiavo nel nulla come felce stesa sull’onda
La stessa che mi lusingava lì a Grado intanto mi facevo vela in cerca di vento.
Sentivo la risacca del mare, il sale che appiccicava i capelli e sentivo te, da qualche parte fuori e dentro di me. Avvertivo vibrazioni, impercettibili tanto alta era la loro frequenza. Il cuore pompava più sangue di quanto le arterie ne sopportassero. Ho provato ad allungare il respiro e a dilatare il torace per attutire il battito cardiaco. La temperatura corporea era salita in un attimo trovando sfogo in rivoli di sudore. Gocce addensate ed appese si facevano sfere per schiantarsi sui fianchi.
S’era appena fatta avanti una mano a dividermi le ginocchia oltre ogni decoro, a scostare l’intralcio del cotone e ad aprirmi come un libro fatto di sole figure, di quelli che scorri alla svelta. Stavi cercando la via più breve verso quella cosa che gli ingenui chiamano cuore. La strada passava dalla pancia, la conoscevi e non c’è stato bisogno di tante cerimonie.
Avevi dita come occhi a scrutare e che tutto hanno veduto. E’ straordinario come in alcune donne la pelle sia la cosa più profonda e come nulla dica come il contatto tattile. Dita come denti, hanno morso la pelle, prima il liscio, poi il crespo, sin dove l’asciutto lascia spazio all’umido.
“Come gli garbo, a Giuliana: con l’indice, piano, dolcemente per sentirti gemere o con tutta la mano, a sangue, facendoti urlare?”.
Cretina, quando lo capirai che per farmi godere come si deve ti basterebbe un terzo di quell’indice santo. Cretina e troia che non sei altro, avrebbe letto un muto sulle mie labbra accostate.
Fra cielo e terra non esiste nient’altro che lo sfregamento delle epidermidi, era questa al fine la piccola verità del mondo? La foia che si desta solo se il sentimento va a cuccia? L’avevano lasciata intendere le vecchie parenti che m’hanno tirato su, che una ragazza si fa donna fino in fondo solo quando l’hai fottuta fino al midollo. Solo allora si sente il suo odore, quello che segue le curve del corpo, che s’insinua fra le pieghe dei glutei.
Non c’è voluto molto prima che iniziassi a ruotare il bacino, per venirti incontro, per partecipare all’evento persuasa nell’intimo che amata e scopata fossero più che sinonimi. Le gambe le avevo serrate non per pudore ma per rinchiuderti nella mia personale voliera. Mia, solo mia, sempre mia.
In quel frangente anche dentro Clementina qualcosa ha traballato.
Arrancavi in quella febbre liquida come fossi in mezzo alle sabbie mobili. Stavi affondando in una voragine, attratta dalle correnti sotterranee che mi salivano dal ventre. In cerca di un approdo hai trovato qualcosa che ha opposto resistenza, che si è rizzato. Gli abitatori della laguna l’avrebbero battezzato Rialto. Ti ci sei aggrappata per non affogare, vittima della paura di cascare nel vuoto. L’hai graffiato, lo scoglio, sino a ferirti la cute.
Non mollarlo, per nulla al mondo, mi ripetevo ed ho pregato il cielo, ad occhi bassi, come donna di chiesa.
Sospesa a mezz’aria fra timore e tremore l’ho avvertita la stretta lì su per l’addome. Somigliava ad un crampo ed è stato il sollievo.
Sono corda di viola, chiave di baritono e quando è esploso il mio di acuti è stato timbro scuro su respiro corto, una A strascinata ed a seguire una sola consonante muta. La carne flessa all’estremo s’era smollata di botto, come quando mi pisciavo nel letto da piccina. Avevi dato la stura a smanie incastrate da troppo. C’erano sudore clorato, senso d’inadeguatezza, succhi di donna e armistizio transitorio con l’angoscia di me stessa allo specchio. Liquori ed ardori che s’erano sciolti ungendoti sino alle nocche
Era questo l’epilogo dei nostri rendezvous, un Amen, ite missa est, andate in pace.
Dopo un paio d’ore eravamo a Vicenza.
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Aggiunto: 4 anni fa
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Lesbo
«Barbosa e melenso»