Precipitata, come accade agli aerei male in arnese, affondata, come una grossa portaerei a battaglia navale. Crollata, come Giuliana in mezzo alla neve di gennaio.
Ci passavo pomeriggi interi a camminare per le campagne in mezzo ad una distesa senza forma e confini. C’ero solo io in giro a piedi ad allungare una fila di orme che l’occhio presto perdeva di vista. Pestavo dentro stivali di gomma sino a non sentire più le dita e prossima allo stremo delle forze mi lasciavo andare a corpo morto sopra quel gelo che mi premeva dentro e fuori.
A casa sono stati monosillabi per più d’una settimana e in qualche caso –Gianni- le parole avevano preso forma di grida. Ma erano tutte voci senza importanza che volteggiavano come moscerini nella brezza. Uno si alzava in volo, poi un altro, un altro ancora che ronzava ad un orecchio, poi il successivo. E tutti che sussurravano qualcosa, senza che riuscissero a prendere consistenza, insistenti ed indifferenti.
La più piccola delle gemelle m’ha chiesto se avevo intenzione di divorziare.
Ho pensato che ce la potevo fare a rientrare nei ranghi, ad acquattarmi dentro un po’ di luoghi comuni e provare a tenere a bada la vita. Avevo le mie bambine, i miei articoli sulla rivista parrocchiale, un marito che portava a casa uno stipendio, due pesci rossi, cose, insomma, che speravo m’aiutassero a non fare naufragio.
In attesa dell’oblio.
Giovedì in rientro dal lavoro prima di salire mi sono attardata a svuotare la cassetta della posta: una bolletta, dei volantini ed in fondo qualcosa di metallico. Faceva tintin. Erano le chiavi di casa tua ed attaccato c’era un ciucciotto da neonato della Chicco. Un capezzolo di gomma che in un attimo m’ha sprofondato nell’emozione mai sopita. La sensazione dei seni di Giuliana e di Clementina in guerra, che sfregavano l’uno contro l’altro ha fatto irruzione violenta, ai limiti del brutale. La pelle di cappone s’è espansa come quando si scuote un cavo teso e l’onda arriva lontano.
L’ho pure vellicato colle dita quel ninnolo da lattanti sperando assurdamente che reagisse come fanno le cose vive.
Qualche ora più tardi, saranno state le 17, ho sentito una voce dall’andito, era Marilena: “Mamma, mamma, c’è giù la tua collega che ti cerca, quella col nome triste”.
Manco il tempo di comporre i capelli con i sentimenti ed eri sull’uscio di casa mia con quell’espressione da ‘zo e man dal banco, che a merce costa’, da bell’oggettino da regalo di quelli che il cartellino col prezzo lo guardi dopo che hai deciso di acquistarlo.
“Tornate a fare i compiti, voi due, avanti marsh”. E senza aggiungere parola m’hai seguito in bagno dove avevo appena aperto l’asse da stiro.
Il primo schizzo è stato puro acido: “Che vuoi?”.
Immaginavo una risposta prestampata, tipo: averti incontrata è stato un dono del cielo che non meritavo proprio, che sciocca sono stata a sparire, perdonami amore e cose del genere.
Ed invece solo: “Come va?”.
Le parole stavano lì sospese come bolle di sapone blu e rosse ma non riuscivo a trovarla la frase che m’affrancasse da te. In realtà non avevo idea dove mi stessero conducendo, i discorsi. Era come camminare su una lastra di ghiaccio, barcollando, ad ogni passo avrei potuto scivolare ed essere portata via da acque irose.
Mi affannavo, mi imbrogliavo in ciarle come una maestra che non aveva nulla da insegnare ed intanto lacrime di sudore si stavano mischiando a vapori di stiratura.
Poi, per usare un’espressione cara all’insegnante di italiano, ho smesso di menare la lingua, quando
ho sentito che mi rovistavi il didietro. Ed è stato come se qualcuno avesse girato la chiave di accensione ed ingranato la marcia.
La mano mancina dopo essere scesa sino al margine della vestaglia è risalita a cercare il contatto diretto con la cute.
Sottovoce: “Ti sto dando noia?”.
So che ti eccita sentirti chiedere, quasi simulassi disgusto: “Tesoro, che fai?”, ma in quel attimo m’è uscito solo un grugnito.
“Sai che somigli alla Piggy dei Muppets?”.
Un altro brontolio, ancora meno articolato del primo.
‘‘Va meglio così?‘‘.
Ho mosso il capo in segno di approvazione mentre le mutande erano quasi sul pavimento a strozzarmi le caviglie. Eccola lì la giumenta, con le pastoie ai talloni ad impedire ogni velleità di fuga.
Ero una slot-machine e la dicitura sopra la feritoia indicava: insert coin. Le falangi, osso coriaceo e leggero, le hai infilate dentro di me, a secco, sino in fondo al più nascosto dei miei buchi. La scarica è stata poderosa ed ha portato con sé voluttà, male, fiato mozzo, calore, confusione, frenesia, mescolanza di emozioni subitanee.
Quando mi son girata per farti ulteriore spazio ero scalza e mezza nuda ed era oramai pronto il piatto della casa, l’unico sul menù: tette penzolanti e glutei abbondanti, carne pingue da saziarci un battaglione e buccia d’arancia come piovesse.
In quei frangenti esistevano solo occhi atroci che mi spellavano viva ed appena sotto zanne che spuntavano in mezzo ad una zazzera bruna, bianche e scintillanti. Nient’altro aveva importanza.
I denti, dal Cretaceo, si sono evoluti. Creati per scuoiare, per rodere, per tritare il cibo, si stavano avventando sulla polpa con scopi del tutto nuovi. Ad incontrare ad una ad una le costole che pareva volessero esplodere fuori dalla cassa toracica, la parte molle attorno ai fianchi, l’incastro della gamba con il bacino. Sull’interno coscia hai lasciato un morso. Era un tatuaggio terreo, il marchio inconfessabile del fatto che fossi tua concubina.
A forza di rimuovere il superfluo, di limare i contorni eri arrivati all’anima di Giuliana. Rimaneva solo una forma geometrica, un bozzetto appena accennato: tratti sottili che s’incrociano, le due curve delle cosce e quella del grembo. Margini di uno spazio vuoto velato da una macchia di china nera.
Una specie di sibilo basso come se soffiassi aria compressa tra gli incisivi faceva strada alla mia attesa. Aspettavo solo di essere azzannata lì dove la carne era più molle, bestia innocente nel significato originario di ‘in-nocens’, che non può nuocere. Era ed è questa la mia vocazione più autentica, una passività famelica, ai limiti dell’ingordigia, un assillo inappagato da placare in ogni modo. La mia cifra di femmina oppressa dalla cupidigia dei sensi, sicura come l’oro che la gente si dividesse in due: da una parte chi scopa, dall’altra chi si fa scopare.

Appena hai calcato gli incisivi mi son trovata paralizzata dall’intensità dell’emozione. Prossima al deliquio, quasi priva di vigore tanta deve essere stata la forza che ha premuto sulla ramificazione nervosa.
Ho avuto l’impressione che le pareti piastrellate ondeggiassero come se quello stanzino di disbrigo avesse preso il volo e dondolasse al vento. Un piumino di pioppo, in altro sopra Vicenza.
Erano, invece, i polpacci che si stavano facendo pongo incapaci di offrire appoggio ed hanno obbligato le mani a cercare resistenza sugli stipiti di legno bianco. Li sopra con segni di matita lunghi un decennio ho lasciato testimonianza delle mie bimbe che si stavano facendo fanciulle. 126 cm Nadia per la sua ottava candelina, un cuore da parte mia ed uno smile di suo padre.
Erano le mie creature e respiravano appena oltre la parete.
Che slandra che sei Giuliana, mi echeggiava dentro una voce pallida, sull’orlo del precipizio che s’era spalancato appena sotto il ventre
Non era malinteso senso della decenza o il timore d’una donna trascurata di farsi beccare fra le mura di casa. Il sentimento era ben più profondo, quasi abissale, come quando mio padre, di fronte alle piccole perversioni di ragazzetta sbottava: “Vergognate che xè ora!”. Un turbamento intimo, di certo incoerente ma fortissimo quasi che essere femmina significasse il tradimento schifoso dell’unico capolavoro della mia vita, la maternità.
Degenere, marchiata da turpitudine, attigua al disumano, una Violetta delle più disgraziate, ecco cos’ero. E dentro lievitava la segreta angoscia d’aver trasmesso cromosomi corrotti.
Prossima allo smarrimento, per la prima, unica ed ultima volta mi sono negata a Clementina.
No mas, credo d’aver detto
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Categorie: Lesbo