La prima mesata era trascorsa e, non si sa come, s’era riuscite a dare un minimo di regolarità alla nostra frequentazione.
Era da ridere pensare a come Giuliana Zorzolo figlia-madre-moglie-professionista stimata fosse riuscita a mettere in piedi una doppia vita scavando tra le pieghe di un’esistenza scandita da rigidità quasi militare.
Un buco fra la prima e la quarta ora, un appuntamento dall’estetista disdetto, ritagli di tempo tra le figlie da governare e tutto, ed eccola la cosa veramente curiosa, per andare a letto con la Ceccatto, l’insegnante di sostegno.
Sono sempre stata convinta che i capelli vadano disciplinati come fossero figli ed il portafoglio nella tasca posteriore dei jeans non lo porterei neanche sotto tortura. Non ce l’ho lezpop.it fra i preferiti e non ho idea di che voglia dire mettere un anello al pollice. Lo giuro, non sono una lesbica, non ne ho le inclinazioni e neppure i modi. E neanche bisessuale, ad essere sincera
La verità è che ho solo avuto l’avventura di invaghirmi d’una donna. Tempo fa davanti a casa m’hai presentato alla tua vicina come un’amica. Quale amica d’Egitto? Sono la tua squinzia. Punto a capo.
E se il più delle volte non facevo a tempo a chiudere la porta che ti trovavo aggrappata alla labbra in qualche occasione c’è pure stata la parvenza di una coppia normale. Due donne che rincasano nel primo pomeriggio, una parcheggia e quella coi capelli neri sale colle buste della spesa. Metterà l’acqua al fuoco intanto che l’altra controlla il contatore del gas, insomma, un menage quasi scandinavo.
Sì, fame ce l’avevo. Prossima alla crisi di zuccheri avevo appetito di tutte quelle bianche rotondità che con una smorfia promettevi.
Educata dalle suore prima di spezzare il pane attendevo il permesso. Aspettavo il la, che ti sistemassi in poltrona e che ti togliessi le mutande, da sotto la gonna scozzese. Era un gesto perfetto, compiuto senza alcuna incertezza. Qualcuno distratto avrebbe pensato che ti stessi stirando un lembo arricciato ed invece era opera da illusionista. Un secondo prima l’avevi addosso ed uno dopo l’armatura di cotone a pallini rossi era volata via. Il piano d’avanzata prevedeva un solo ordine: allargare la breccia, incunearsi nel solco delle labbra vaginali per dividerle. Sono piccole, le tue quasi internate nella pelle, come l’ombelico di fanciulla.
C’ho fatto caso una volta solo dopo che ad un millimetro dall’orgasmo hai alzato la testa da NapoOrsoCapo che ti ritrovi per rivelarmi: “Sai che ce l’hai proprio grande, pare la bocca di Mick Jagger. Una passera monumentale”.
Non ho potuto fare a meno di scoppiare a ridere, ebete quale sono in quei momenti.
E’ stato il mancato orgasmo più buffo della mia breve carriera di baciafiga
C’è stato anche questo, ilarità e dolcezze intrecciate nei nostri giovedì pomeriggio, il fornication day era stato denominato. Potevo stare tutto il tempo a farmi accarezzare le tette e baciare dove capitava. Ed anche a sentire certi sproloqui, tipo: “Giuliana, ti amo” e cose così che pareva diventassero vere solo a dirle. Erano montagne russe e angoscia da vertigine ogni volta che giravi quello sguardo da sedicenne sbadata e impaziente. Ma allora non era così importante. In fondo tutto il mondo era ridotto al mio capezzolo sinistro tra i tuoi denti
Non è però che ci fosse grande spazio per i discorsi, preferivo i giochi e non tutti erano candidi. Il mio prediletto l’avevamo battezzato Enzo Majorca ed iniziava così: “Bruta de muso, larga de buso”. Puntavo i calcagni, alzavo le ginocchia e spalancavo me stessa in attesa ti tuffassi giù dentro quel solco di pelle più scura che aspirava a farsi perla. La contrazione della carne poteva essere istantanea e splendente e non ne avevo mai abbastanza. Ogni volta che prendevi aria, la toglievi a me e mi sentivo strozzata, con il cuore a rimbombare in fondo alla gola.
Quel terzo giovedì di dicembre il viso me lo avevi affondato nella massa pastosa del sedere, tra le pieghe di corpo più che tondo. C’infilavi sporgenze, per annusare, per lisciare, e giocavi ad inventare nuovi accessi. Mi perlustravi per intero senza alcun ritegno e piantavi bandierine dappertutto come fossi il Monopoli. Ero tutta tua e non era stata questione di soldi.
“Si, si dimmelo dove vuoi che .. ”
“Devo essere volgare o delicata?”
“Volgare”, avrei dovuto immaginarlo.
Sono un’ipocrita che ha paura delle parole, che le sa fare, le cose sconce, come m’hanno insegnato all’Azione Cattolica, senza dirle, meglio se guardando la punta delle scarpe. Non ce l’ho mai fatta a ripeterlo a voce alta, quel nome.
Gli angoli della bocca si stavano allargando compiaciuti sino a quando un tic nervoso m’ha disegnato un’espressione poco meno che indecente. Ad ogni distribuzione di saliva –la direttrice era up/down- sul grilletto sentivo il contraccolpo in un punto preciso del capo, appena sotto l’orecchio. Allo stimolo tattile seguiva invariabilmente la risposta chimica. La sensazione s’irradiava con l’esattezza del silicio e saliva a galla. Il labbro sovrastante s’era alzato lasciando scoperti gli incisivi e tutta l’arcata superiore, come di bestia tenuta inchiodata sopra le lenzuola.
La fronte ad un tratto l’ho sollevata oltre l’orizzonte del girovita e lì davanti c’era una lepre con i riccioli. Metodica ed instancabile, come un congegno elettrico, con i denti tenaci a sgranare la pannocchia, sino alla radice e te ne riempivi le guance dei miei chicchi.
Per un attimo le pupille si sono incrociate. Mi hai fissato feroce, ero prigioniera, con la cavezza al collo, come sempre, con te, bestia da letto buona solo per il latte e la monta.
Quando hai ripreso a darci di bocca ho avvertito un sottile disagio salire dalle caviglie. Mi sono sentita scrutata ben più a fondo di quanto sia mai accaduto. Dentro, questa volta a scorgere quello che anche a me stessa era interdetto. Non l’ho mai avuto il fegato di esplorare il mio sogno, per paura che fosse solo nero di seppia, acido espulso quando qualcosa si avvicina troppo o più banalmente involucro di cingomma, carta stagnola che si butta per terra.
A questo sentivo la pena di essermi ridotta, ad essere una bambola di pezza, di quelle vuote dentro che prima di spogliarsi sistema sul comodino la propria rispettabilità: filo di perle, fazzoletto di seta, occhiali scuri di gran marca. Modesti surrogati dell’unica cosa di cui m’importa, oramai. Quel sussulto cupo che mi stava sfigurando i lineamenti, fino a straziarmi. Ero scossa a tal punto da voler scansarmi da quella boccadirosa per eccesso del sentire.
Non mi ha lasciato andare, nessuna pietà. Hai insistito a torturare quella parte afflitta da un piacere sottratto a qualunque buon senso, fino al rossore più acceso, all’irritazione della cute.
I capelli te li tiravo al limite del dolore, per trascinarti giù con me, ad una promessa nera.
La tua punta rosata era in fondo, a fin corsa. Credo all’imbocco dell’utero a lustrare la parte più autentica di Giuliana, un vaso di Pandora perfettamente vuoto. Nessun futuro, nessun miraggio, via anche l’ultima divinità, la speranza.
Contava solo l’adrenalina, la furia dell’amplesso, la giostra dell’emozione strana.
E alla fine dello spettacolo avanzava la fica molle di una quarantaquattrenne sconclusionata, floscia come un palloncino che perde aria. Ero bava densa che sporcava il cuscino e carne che fra un po’ si sarebbe raccolta attorno al vuoto. Una superficie cava estesa sopra al niente.
Un’immagine che era il presagio di come il peso della tua assenza m’avrebbe sconvolto i sentimenti infinitamente più di quanto la medesima presenza me li avrebbero rallegrati.
Sono certa te ne fossi accorta, con il tatto, come fa una donna, che qualcosa mi si era incrinato dentro. Che c’era una crepa che si stava ramificando come tela unta di un ragno. L’avevi fiutata l’atmosfera ed era palese non fosse stata di tuo gusto.
Il post sesso era stato freddo e sbrigativo. Bagno e vestizione in un baleno ed un bacio fugace sulla guancia mentre mi aiutavi con la cerniera della gonna.
E poi parole vaghe di arrivederci e buone feste.

Il 22 erano iniziate le vacanze di Natale e per un paio di settimane sarebbe stata castità piena. Ho creduto non fosse terribile ed invece i sintomi dell’astinenza sono venuti su in meno di 24 ore: insonnia, prolungate assenze a me stessa ed ai miei cari, unghie rosicchiate a sangue e robe del genere
SMS Inviati, 24-12, “Ho bisogno di vederti. Sto male”.
SMS Ricevuti, Cle, 25-12: “Toccati, funziona sempre”.
I giorni di fine 2013 sono stati così, una guerra ed io ero il tipo colla pistola che aveva incontrato quello col fucile.
Sono scorse, le ore con Frank Capra su Sky insieme a crisi di pianto in bagno e col cellulare mai a meno di 20 cm. I messaggini partivano a raffica, senza risposta alcuna. C’ho provato a mandarti all’inferno per poi un attimo dopo implorarti. Mi son trovata ad immaginare la bambolina di cera cogli spilloni per poi accarezzarla di nascosto da me stessa.
Ma niente, sei stata granito nero.
Il 7 mattina alla ripresa sono rientrati sguardi etruschi e traiettorie parallele, di due rette che non avevano alcun punto in comune. Te ne stavi con una Merit tra le labbra ed eri truccata con un rossetto color amianto, di quelli che resistono a tutto.
Alla sera non ce l’ho più fatta e sono corsa incontro al mio personale plotone d’esecuzione. Ho lasciato la copia delle chiavi di casa tua dentro la cassetta delle lettere. Le ho fatte cadere ed hanno fatto tintin ma era come avessi sentito bang bang. Precipitavano loro ed anch’io
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