Quando ci ripenso quasi non ci credo. Ma è tutto successo, per davvero. Ne avevo ancora le prove sul corpo. E quella non era casa mia. E poi quell'uomo nel letto...
Aveva avuto tutto inizio in quel centro commerciale là. Io ero seduto su una panchina a fumare e sfogliare l'ennesima edizione, appena acquisatata, di un (per me) carissimo libro. Lo sapevo a memoria ma non potevo resistere, non ci ero mai riuscito. La prima volta che lo lessi mi era capitato in mano per caso spulciando nella libreria di mia madre più di una decina di anni fa. Per me, in quel libro, c'era tutto. C'era tutto quello che mi sarebbe piaciuto essere o, almeno, provare.
Lui arrivò ed io non me ne accorsi. Ero preso dai miei pensieri. Fu solo perché mi chiese di accendere che mi resi conto della sua presenza. Era in controluce, in piedi, alla mia destra. Gli porsi l'accendino distrattamente e solo nel momento in cui si sedette a fianco a me e iniziò a parlare che mi feci un' idea. Non era giovane, era un uomo maturo. Aveva quell'aspetto da signore, quell'aurea di indefinibilità che non sono capace a spiegare ma che, sono certo, tutti sappiamo riconoscere. Quell'uomo non aveva, era. Mentre parlavamo i nostri occhi erano sempre in contatto. E i discorsi, da futili, ben presto, iniziarono a prendere tutto un altro colore. Sono una persona curiosa e attenta e le parole di quell'uomo mi stavano dicendo davvero qualcosa. Poi, iniziammo a parlare del libro che tenevo in mano, con l'indice buttato dentro, in un punto a caso. Iniziò a parlarmene facendo finta di notare, solo a conversazione avviata, di che libro si trattasse. Oggi, tuttavia, sono convinto che fu ciò che lo spinse a chiedere a me di accendere. Di quel libro, lui, ne aveva una conoscenza minuzionsa. Da lì, ci inerpicammo vero riflessioni che, a causa del mio passato accademico, mi era care. Era un piacere discutere con quell'uomo, un piacere raro. Così accettai di buon grado, dopo esserci presentati come si deve, il suo invito a pranzo. Mi disse di aspettarlo lì fuori che doveva comprare una cosa e così feci. Tornò dopo una mezz'oretta con un sacchetto avvolto sotto al braccio. Mi spiegò dove abitava e che conosceva un posto lì vicino dove avremmo potuto pranzare e continuare il nostro discorso. Mi disse anche che saremo potuti andare in là con la sua macchina. Accettai considerando che non mi sarebbe stato difficile tornare indietro con un treno. Ci incamminammo verso la sua macchina, un grosso suv nero. Mise in moto e partimmo.
In macchina il discorso prese una piega inaspettata. Gli esempi prendevano sempre più colore, passando dalla carta stampata a qualcosa di più caldo e umano. Senza accorgermente mi ritrovai a parlare di cose che avevo detto a pochissime persone. Parlavamo di letteratura, di filosofia, di psicologia e di educazione ma ora tutto aveva un peso molto diverso. Piano piano, quegli argomenti, si stavano nutrendo delle nostre fantasie, dei nostri segreti, del nostro io celato ai più. Tutto ciò avvenne perché era facile parlare con quell'uomo. Senza menzogne mi stava dicendo che era tutto normale. Qualcosa iniziava a smuovermisi nelle viscere. Quando arrivammo, nell'abitacolo, c'era una strana elettricità. Poi lui, indicandomi il sacchetto piegato sul cruscotto, disse: "Se vuoi...". Qualcosa in me aveva capito ma razionalmente non ci ero ancora arrivato. Ci su un istante di silenzio. "Apri, se vuoi...", continuò lui, pacato, fissandomi negli occhi. Allora presi il sacchetto e aprii. Guardai ma non vidi. I pensieri correvano e il cupore mi martellava nelle tempie. Le mani sudate, e non solo. Tirai fuori il contenuto del sacchetto. Una brasigliana di pizzo, un paio di collant neri e una canottierina. Non capii fino a che lui non disse: "Sono per te. Indossali, spero non ti stringano troppo". Ero sbigottito, non sapevo cosa fare ma ero anche eccitato. In fondo, lo avevo sempre voluto. "Qui?", dissi con la voce rotta da qualcosa di bello che mi stava nascendo dentro. "Sì. Spogliati... non mordo", disse sorridendo, facendo calare la tensione che si stava accumulando. Feci un respiro profondo e iniziai levandomi le scarpe, poi i calzini, il maglione e la maglietta e infine i pantaloni. L'abitacolo era grande ma la situazione mi faceva goffo. Mi fermai un attimo prima di sfilarmi le mutande. Chiusi gli occhi, alzai il culo e tirai giù. Ora ero nudo. Davanti a un uomo, una cosa nuova per me. Guardavo in basso, il mio cazzo ammosciato dall'ansia. "Non c'è niente di male. Possiamo fare quello che vogliamo", disse lui allungandomi la biancheria femminile. Per prima cosa infilai le mutandine. Erano strette e la sensazione completamente diversa da quella dei miei boxer. Non era piacevolissima ma mi faceva impazzire. Continuai con la canottiera, che mi copriva amalapena l'ombelico. E poi provai a infilarmi, maldestramente, i collant. "Aspetta, ti aiuto io. Girati di qua con le gambe", mi disse lui, sempre sorridendo. L'abitacolo era davvero enorme. Gli porsi le gambe e lui mi infilò i collant fino alle ginocchia. "Ora vai avanti tu", mi disse. Era la prima volta che avevamo un contatto. Le sue mani sulle mie gambe, l'esterno dei sui pollici sui miei piedi, sui miei polpacci. Sentii nascere un' erezione. Tirai su i collant e lo guardai. "Sono grottesco", gli dissi. "Non lasciare che quello che vedi influenzi quello che sei", mi rispose prontamente lui. "Cosa vuoi essere?", continuò lui. La risposta mi rimbombò forte in testa ma taqui. "Intanto che ci pensi, andiamo a mangiare qualcosa?", mi disse lui poggiandomi una mano sulla coscia. Il cazzo mi si inturgidì mentre il culo si contrasse. "Rimettiti i pantaloni e il maglione e usciamo", disse lui. Lo feci e scesi dalla macchina. Il sole era caldo e l'aria fresca. Da lì, in lontananza, si poteva vedere il mare. Lui mi si avvicinò. "Vieni", mi disse. Lo seguii.
Le mutandine mi si erano infilate in mezzo al culo. La sensazione era piacevolmente strana. Ero attento a quelle nuove sensazioni. "Tutto bene", mi disse lui accorgendosi che qualcosa mi straniva. "Sì, è che...", non feci in tempo a finire che: "Hai le mutandine nel culo", mi disse. "Sì", risposi un po' imbarazzato. "Non devi sentirti imbarazzato, lasciati andare. Cosa ti senti? Dimmelo". "Mi sento le mutandine...", esitai."Dove?", disse serio. "Nel culo", risposi. "Bravo! Parla, dimmi quello che senti, fammelo vedere! Sì quello che vuoi", mi disse con fervore. "Va bene", risposi sentendomi un po' più leggero.
Camminammo per cinque minuti attraverso alcune stradine per arrivare, in fine, a un piccolo ristorantino contrassegnato da un insegna semplice. "Prego", mi disse aprendo la porta. Un uomo corpulento, dall'aria gioviale, ci venne in contro. "Buongiorno Professore! Oggi è una bella giornata, apparecchio fuori?", disse rivolgendosi a noi. "Sì, Grazie!", rispose lui.
Non avevo molta fame, avevo lo stomaco chiuso. Ordinai solo un piatto di pasta. A tavola riprendemmo i nostri discorsi senza però l'ardore che era venuto fuori in macchina. Quasi mi dimenticai di quello che indossavo e fu solo quando lui mi toccò la mano per invitarmi ad alzarmi che la realtà si palesò. Sentii il peso di tutto quello che stava accadendo e mi feci taciturno. Tornammo alla macchina senza dirci una parola. Salimmo in silenzio. "Voglio un tuo dito nel culo", dissi tutto di un fiato, guardando lui negli occhi. Lui mi sorrise. Si avvicinò e mi baciò. Fu un bacio voluttuoso. Un bacio duro, grezzo. Quando ci separammo mi tolsi di dosso i vestiti rimanendo in biancheria. Poi buttai tutto il mio peso a destra facendoli vedere il culo. "Dimmi di nuovo quello che vuoi", mi disse. "Voglio sentire un tuo dito dentro al mio culo", gli risposi. Lui allungò una mano e mi abbassò le collant. Mi accarezzò la natica e poi, facendo da parte le mutandine, iniziò a toccarmi l'ano. Avevo il culo sudato. Il dito avanzava con facilità. Sentii la prima falange avanzare. "No, aspetta... fermo, potrei essere sporco", gli dissi. "Ci si pulisce", mi rispose lui. "Come sei stretto. Spingi e rilassati", aggiunse. Poi ritrasse la mano, si sputò sopra e torno al mio culo. "Bravo, così", mi disse spingendo il dito sempre più su. "Ahhh, sì", iniziai a godere. Il cazzo mi tirava da morire ma non osavo toccarmi, volevo godere solo con il culo. "E' tutto dentro", mi disse. Sentivo quel dito muoversi dentro di me in tutte le direzioni. Poi, lentamente, lo sfilò. Lo guardai ferito. "Ti prego ancora", gli dissi. "Dopo", mi rispose, "ora ti porto a casa mia. Però ora dimmi: cosa vuoi essere? Dimmelo". "Voglio essere il tuo schiavo, la tua schiava, la tua puttana, quello che vuoi. Voglio godere!", gli risposi. "Allora apri la bocca", mi disse, "vedi? Mi hai sporcato il dito e io voglio che tu me lo pulisca con la bocca. Vuoi farlo?". "Sì", gli risposi. "Sicuro? Da qui non si torna in dietro", mi disse. Feci di sì con la testa ed aprii la bocca. Lui mi portò il dito sotto agli occhi, me lo fece vedere e annusare e poi me lo mise in bocca. Io chiusi e leccai. Faceva schifo, era amaro ma, al contempo, era il gusto migliore ceh avessi mai sentito. Stavo diventando quello che avrei sempre voluto essere.
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