Raymond Oire
“La fidanzatina universitaria del mio amico”

Vivevo e studiavo a Firenze. Avevamo fatto serata tra Santo Spirito e Santa Croce e a una certa, per colpa di alcune americane suonate, avevo perso tutti.
All’alba trovai Samu. Lo accompagnai a casa; dormii da lui.
Era un pomeriggio nuvoloso e piovigginava, quando mi svegliai. Samu e Matteo parlottavano dai divani del salotto. Mi vestii ascoltando quelle radio umane; li raggiunsi; m’afflosciai su una poltrona, esausto.
«Buongiorno!» esclamò Matteo. Uscimmo tutti e tre tirandoci dietro la cagna di Matteo, perché una volta rincasata ci aveva raggiunto. Matteo e Samu sognavano un pompino da lei; io la sognavo per intero.
Aveva un corpicino minuto, di media altezza, una chioma di capelli biondi, a volte arruffati con una matita in mezzo, a volte lisci e cascanti ben oltre le spalle.
Ho detto cagna, perché alle Oblate si mormorava ne avesse presi parecchi, prima di Matteo s’intende. Da un anno stavano sempre assieme, legati come da un laccio, il che era per ovvie ragioni fastidioso, soprattutto per Samu, che conosceva Matteo dalla prima elementare e proprio per questo lo invidiava.
Sì, la ragazza di Matteo era proprio caruccia, e a parer mio aveva solo due difetti: se la tirava come una regina e non aveva mai fatto pompini, il che, con un visetto così, era proprio un colossale peccato.
Camminavamo appaiati per le viuzze del centro, Io e Samu davanti, e i due piccioncini dietro, ad abbracciarsi e raccontarsi cose. A dirla tutta, a parlare era lei, con la sua terribile vocina, e Matteo assentiva, come avesse davanti un gelato alla crema. Quando fu troppo ci separammo. Io e Samu ci prendemmo una birra.
Samu faceva progetti. Io continuavo a pensare a come fosse possibile che una ragazza di vent’ anni non avesse ancora fatto pompini. Nel pub c’era musica rock e nessuno; buttava male. Bevemmo ancora. Si fece sera. Camminai con Samu sotto la pioggia sottile; la fidanzata di Matteo ci incrociò davanti al ciabattino; mi fece un sacco di complimenti.
«Quella ti vuole scopare.» disse Samu dopo che ci fummo congedati.
«È la morosa di Matteo.» dissi io.
«E allora?» disse lui.
E allora niente. Due sere dopo me la ingroppavo in quella squallida camera di hotel e che fosse la morosa di qualcuno, era proprio l’ultimo dei miei pensieri.
La prendevo da dietro, mentre urlava a pieni polmoni contro il materasso.
Me la facevo da in piedi, aprendole con le mani il suo culetto pallido e ficcandoglielo a ripetizione; ma mica stavamo a lungo fermi, scopavamo per tutta la stanza. Ribaltavamo le sedie, le lampade; lei cambiava sempre posizione, io accettavo, ma poi tornavo puntualmente a metterla a pecora. Il suo culetto era così piccolo, che mi dava troppo gusto vedere il mio uccellone uscirvi e entrarvi. Ad un tratto la pigiai sul tavolino. Da quella posizione non poteva più scappare. Come una pressa la premevo, come un chiodo, la martellavo senza sosta. Lei dimenava la testa, si contorceva tutta, i capelli raccolti in un grazioso cipollotto, svolazzavano in ogni direzione. Le grida trapassavano le pareti. Poi mi fermai. Accaldato, mi discostai, palpandomelo. Lei non si mosse. Era tramortita; completamente sfibrata. Una giovenca abbandonata nella stalla.
«Ehi, vieni qui.» le dissi dolcemente, facendola voltare.
Aveva il respiro affannoso, quasi lacrimava.
La feci inginocchiare.
«No no.» fece lei capendo dove si andava a parare.
«Prendimelo un po’ in bocca, e dai.»
«No no, mi fa schifo, dai!»
Si rialzò discostandosi; gli occhi di una iena; i denti tremanti.
«Mentre ti scopavo non ti faceva schifo però eh!»
Non disse niente.
«Ma guardalo!» e dicendolo mi incrociai le mani sulla nuca, facendomi sballottare il cazzo in tiro da coscia a coscia.
Lei rise.
Io risi.
«Lo vedi,» le dissi, «dai, prendimelo in bocca, solo un pochino…»
«No, dai, ti prego, mi fa schifo.»
«Ma perché ti fa schifo?»
«Ma perché è tutto molle…sembra un verme…»
«Molle? Un verme? Il mio ti sembra forse molle?» e nel dirlo lo buttai tutto in fuori, contrandolo, facendolo gonfiare ogni oltre ragione.
Lei lo guardava; ne aveva voglia; si accarezzò la figa.
«Allora com’è il mio?» chiesi.
«Il tuo è proprio bello.» disse bagnata d’eccitazione.
«E allora inginocchiati dai…proviamo…fallo per me…se ti fa schifo, giuro, smettiamo subito e riprendo a scoparti fino a mattina!»
Rise ancora. Era proprio una bella maialina quando rideva.
E risistemandosi i capelli sulla nuca, s’inginocchiò. Alleluia!
Io mi accostai, glielo misi davanti al naso, lasciandole prendersi il suo tempo.
Lei lo afferrò con una mano; pulsava. Lo tirò giù e su con aria inesperta. Quindi chiuse gli occhi e lo toccò con le labbra, poi provò a succhiare, accarezzandomi la punta con le labbra. Anch’io chiusi gli occhi, levando la testa al soffitto. Lo spinse un po’ più dentro, la lingua ci vorticò intorno. Aprii gli occhi. Lei si abbassò di più, prendendolo in bocca meglio. Di scatto lo succhiò forte. Più forte. Cominciò a fare su e giù, aiutandosi con la mano all’estremità. Slurp! Sluuurp! Sluuurp! Delicatamente gliela tolsi, prendendo anche l’altra, portandole entrambe alle mie chiappe, agganciandole lì, che lavorasse solo con la bocca. M’avvolse la lingua intorno alla punta e io sussultai, flettendo le anche. Se lo spinse ancora più dentro, stringendosi a me. Era il momento. Afferrandola per la testa iniziai a muovermi sul serio; non ci credevo, la stavo scopando in bocca! E lei succhiava, facendo guizzare la lingua sulla mia erezione colossale, prendendolo tutto, da sentirlo sul fondo della gola e poi di nuovo sul davanti. Succhiava forte, sempre più forte, spingendolo in fondo e facendolo piroettare con la lingua. E io provai a rallentare, ma lei non ne voleva sapere, ciucciando senza pietà, come fosse attaccata al rubinetto dell’acqua e ciucciava, oh, come lo ciucciava! Slurp! Glup! Gluup! Io le tenevo una mano sulla testa, accompagnavo il movimento. «Guardami, guardami!» dissi. Aprì gli occhi. Glup! Glup! Su e giù sul mio uccello, i suoi occhi azzurri. Alla fine non ressi più e le venni in bocca! Una copiosa svuotata! Lei disgustata fece come per discostarsi e sputare; stringendola con una mano sulla testa, e l’uccello sempre nella sua bocca, con l’altra mano le tirai uno schiaffetto sulla guancia: «Ingoia!» ordinai. «Ingoia, da brava su!» Lei cercava di scuotere la testa, spingendo con le sue mani sulle mie cosce. Le diedi un altro schiaffetto: «Ingoia!» Poi uno schiaffo più forte, spingendole l’uccello in gola. «Ingoia cazzo!» Lei ubbidì. La liberai. Inginocchiata boccheggiava, tossendo quasi soffocata, con le mani per terra. Le arrivò un conato di vomito, non vomitò. La afferrai per la testa, chinandomi su di lei, esplorandole la bocca con la lingua. «Brava bambina…com’era, buona?»
Lei alzò le spalle; con la faccia paonazza. Non sono sicuro le fosse piaciuta. Era proprio una bella biondina, inginocchiata lì, coi suoi occhioni innocenti, e a guardarla così, mi veniva già voglia di farmelo tornare duro e ricominciare a scoparla per bene.
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