Non erano passati molti mesi e già ero già decisamente pentita di avere accettato di sposare Ubaldo: in parte, avevo ceduto alle pressioni della mia famiglia che spingeva perché, alla mia età per i loro costumi già avanzata, accettassi un ‘partito’ che mi garantisse un futuro; in parte, mi ero arresa proprio perché, nonostante il curriculum e la laurea e dopo i mille tentativi fatti in tutte le direzioni, pareva che non ci fosse spazio per me nel mondo del lavoro; ma soprattutto perché, col suo carattere debole e rassegnato, ero certa che mi avrebbe consentito di dominarlo come mi pareva.
L’aspetto peggiore di quel matrimonio era la sua scarsa dotazione che, per una donna calda come me, era insopportabile, quasi; ma, cercando i giusti rapporti e scegliendo gli amanti migliori, a seconda dei momenti e delle situazioni, fin dai primi giorni del matrimonio riuscii a garantirmi amplessi assai soddisfacenti, alla faccia del mio fedelissimo marito che, indefesso lavoratore, si preoccupava solo e sempre di portare a casa il guadagno più alto possibile per non farmi mancare niente
All’inizio, fui costretta ad agire in piena clandestinità; ma i garzoni delle botteghe dove facevo la spesa erano sempre giovani molto gagliardi, ben dotati, discreti e disposti a fare qualunque cosa per sdraiarmi sul letto e prendermi in tutti i modi; addirittura, mi ero organizzata per benino, distribuendo le prestazioni nella settimana: il martedì veniva a portarmi il necessario per la settimana il ragazzo dell’ortolano che quel giorno sapeva di potere intrattenersi fin quasi all’ora di pranzo.
Dopo avergli fatto scaricare in cucina frutta e verdura per tutta la settimana, lo portavo per mano in camera da letto e, seduta sulla sponda, lo spogliavo in fretta dei pochi abiti che indossava, mi fiondavo vogliosa sul suo membro rigido di voglia e me lo ficcavo immediatamente in gola, fino a soffocarmi; lo leccavo a lungo e con gusto, ruotando la lingua intorno alla cappella fino a sentirlo lamentarsi dal piacere; poi lo succhiavo profondamente e mi facevo montare in gola con un movimento di vai e vieni che mi stimolava le papille fino alla vulva; strizzandogli i testicoli con violenza, gli impedivo di arrivare all’orgasmo e me lo infilavo immediatamente nella vagina, facendomi possedere con violenza fino a quando lo spedivo via, poco dopo mezzogiorno per farmi trovare pronta e affettuosa dal maritino che tornava per pranzo.
Il giovedì spettava al figlio del panettiere, un ragazzo di venti anni con una verga spettacolare, che fu il primo a sfondarmi il retto quando decise di penetrarmi analmente e, nonostante le mie proteste, mi spaccò lo sfintere impedendomi per giorni anche di sedermi correttamente; forse fu allora che Ubaldo ebbe i primi sospetti e mi parlò apertamente per dirmi, però, che capiva le mie esigenze e che se mi fossi tenuta nei limiti di una sopportabile ragionevolezza, poteva anche accettare che avessi rapporti con altri.
Ma a me piaceva troppo copulare e mi interessava poco della sua compiacenza; gli dissi chiaro che doveva accettarmi con tutto quello che ero, se non voleva trovarsi in difficoltà, con la denuncia aperta della sua semi-impotenza e, dall’altro lato, con le corna che comunque gli avrei fatto; credetti seriamente che l’avessi, se non convinto, almeno obbligato a starsene zitto, perché smise di farmi problemi, accettò di trovare spesso tracce evidenti delle copule che mi ero fatta in sua assenza con tutti quelli che passavano per casa; e sopportò anche di accompagnarmi qualche volta che decisi di andare in locali pubblici, dove puntualmente cercavo qualche toro che mi montasse con gioia, nello stesso locale, nelle adiacenze, in macchina o a casa nostra.
Lo costrinsi, in qualche modo, a diventare il ‘mio cornuto contento’ al quale imposi presto anche le umiliazioni di alcuni bull più scatenati che si divertivano a chiamarlo cornuto e ad imporgli la loro superiorità di individui alfa: uno di loro gli impose perfino di leccare la mia vulva piena della sua sborra e di succhiare il suo membro sporco degli umori di noi due; piegò la testa ed eseguì, umiliato, sofferente e quasi in lacrime: non mi resi conto, in quel momento, che la corda si stava rompendo e che si stava per scatenare su di me ‘l’ira dei buoni’ di cui parla anche il vangelo.
Tra le altre cose, avevo preso l’abitudine, in certi casi, di andare in un motel a realizzare le mie personali perversioni; e mi facevo addirittura accompagnare da Ubaldo che, paziente e rassegnato, eseguiva timidamente le mie volontà e si piegava anche a trattare con ossequio i miei amanti: onestamente, non avevo mai pensato di arrivare a quel grado di umiliazione; ma la faccenda mi aveva preso la mano e il gusto del dominio ormai mi impediva di controllare il limite tra il mio piacere e la violenza brutale e gratuita; continuai così a cercarmi amanti in tutti i modi e in tutti i luoghi e non feci caso alle violenze che perpetravano su mio marito, ormai solo un pupazzetto nelle mie mani.
Quello che ‘caricai’ quel pomeriggio aveva tutta l’aria di un camionista o di uno scaricatore: comunque era decisamente ben messo, in tutte le parti; e prometteva di farmi passare una serata di sesso straordinario, di quelle da segnare nel diario; mi attaccai a lui, lasciando mio marito da solo tra gli scaffali del supermercato, e lo accompagnai baciandolo e accarezzando il suo corpo muscoloso fino all’automobile che aveva parcheggiato nello spazio antistante l’edificio; arrivati alla macchina, mi afferrò il sedere, quasi completamente, con una sola mano che faceva pensare a una pala; sollevando la minigonna inguinale e spostando il filo del perizoma, mi infilò nella vagina, da dietro, un dito così grosso da sembrare un fallo di piccola dimensione; mi baciò con la violenza del dominatore e mi slinguazzò in tutti i modi; mi piantò sul ventre un’asta da record (almeno 25 centimetri, come valutavo da sopra i vestiti) e mi fece avere un orgasmo meraviglioso.
Mi lanciai ad afferrare quella sua verga, ma mi fermò e mi spinse in macchina; mi chiese dove volevo andare e gli diedi l’indirizzo del solito motel; appoggiò il telefonino sul ripiano del cruscotto ed io ebbi la sensazione che fosse acceso e in funzione; ma, interessata com’ero solo alla sua mazza che non vedevo l’ora di assaggiare, non me ne diedi per inteso; non impiegò molto a raggiungere il luogo che gli avevo indicato; come sempre, mi feci registrare alla reception come singola, presi la chiave e andammo al bungalow che mi avevano assegnato.
Appena fummo dentro, il mio camionista mi sbatté letteralmente contro la parete e mi afferrò dolorosamente i seni che schiacciò e manipolò in tutte le direzioni; lo pregai di essere meno brutale ma mi sentii rispondere solo.
“Troia, sta’ zitta e fa’ quel che ti dico!”
Per la prima volta, da quando facevo le corna a mio marito, ebbi paura: purtroppo, ero stata anche messa sull’avviso contro possibili conseguenze da quegli incontri occasionali con individui assolutamente sconosciuti e forse imprevedibili, dall’Aids da cui potevano essere infetti alle possibili aggressioni per i motivi più strani e disparati; ma avevo sempre riso ed avevo attribuito ad invidia di chi faceva poco sesso gli avvertimenti che, secondo me, miravano solo a spaventarmi per dissuadermi dal copulare liberamente, visto anche che gli avvertimenti maggiori venivano da amici di mio marito che giudicavano con molta severità i miei comportamenti; adesso, però la paura era concreta e vicina: se quell’uomo avesse cercato di farmi del male, io non avevo da opporgli nient’altro che la mia disponibilità a fargli fare il sesso che voleva, ma con un minimo di giudizio.
Per questo anche, cominciai a carezzarlo e baciarlo sensualmente, portandolo verso il letto; slacciai la cintura, feci scorrere la zip e tirai fuori il suo fallo: finalmente, mi trovavo faccia a faccia con quella bestia che avevo intuito e che mi aveva sollecitato e stuzzicato da dentro i pantaloni; con qualche difficoltà, presi in bocca la cappella: sapeva di piscio e certamente non era pulita; ma, per timore di violenze, lasciai correre e cercai di essere il più abile e tecnica possibile per portarlo rapidamente all’orgasmo; ma non era evidentemente disposto ad affrettare i tempi perché, dopo un paio di movimenti avanti e indietro nella gola, si staccò.
Mi spinse sul letto, mi si stese addosso e mi infilò la mazza, in un sol colpo, in fondo alla gola minacciando quasi di soffocarmi e provocandomi violenti conati di vomito: avevo succhiato un’infinità di mazze, nella mia lunga esperienza, ma questa mi risultava incontrollabile perché il camionista non partecipava alla fellatio ma cercava solo di affogarmi col membro in gola; per mia buona sorte, si sfilò dalla bocca, mi sovrastò con la sua mole e infilò di colpo l’asta nella vagina, fino alla cervice dell’utero, provocandomi un dolore mai provato prima; inutilmente cercai di invitarlo a fare con più garbo.
Sembrava che non gli interessasse niente di quello che gli dicevo; per di più, improvvisamente, la porta del bungalow, che non era stata chiusa, lasciò passare altri due individui della stessa razza e della stessa struttura, che mi instillarono una paura che ormai potevo solo chiamare terrore per come le cose mi si prospettavano; mi bloccarono in due, mi legarono e mi imbavagliarono; in pochi secondi fui alla loro totale mercé.
Cominciarono la serata e la nottata più allucinanti e terrificanti della mia vita; per ore, tre randelli spaventosamente grossi si alternarono dentro di me, martoriandomi in tutti i buchi, facendomi tutto il male possibile e immaginabile: mi fecero sanguinare dall’ano, dalla vagina e perfino dalla bocca: più e più volte mi presero in triplice, uno in vagina, uno nel retto ed uno in bocca minacciandomi di soffocarmi se non cedevo alla loro voglia; mi fecero succhiare i loro falli in contemporanea e provarono più volte a ficcarne due contemporaneamente in bocca, provocandomi lacerazioni alle labbra straziate e slogature alle mascelle di cui non si curavano insistendo ad obbligarmi ad aperture della bocca fuori da qualunque possibilità; mi infilarono nell’ano due membri insieme, senza che potessi rendermi conto neppure di come facessero; lo stesso avvenne per la vagina; non c’era sessualità nel loro comportamento, solo una feroce e cinica volontà di farmi male, di demolirmi fisicamente, di straziarmi le carni.
Per mia fortuna, forse, persi i sensi ad un certo punto; mi risvegliai legata nel letto senza riuscire a liberarmi; tentai di urlare per attirare l’attenzione della reception, lontana un centinaio di metri dal bungalow; ma il bavaglio permetteva solo vaghi gemiti che, in quell’ambiente, se anche fossero stati sentiti, sarebbero apparsi suoni da orgasmo; piansi tutte le lacrime che avevo; soffrii le pene dell’inferno al pensiero di quello che poteva ancora accadermi se qualcuno non interveniva a liberarmi; credo di essermi pentita, in quel momento, di tutte le mie colpe e di averle confessate a me stessa, senza poterle urlare, come avrei voluto; cercai di divincolarmi per liberarmi dai legacci ma ottenni solo di cadere dal letto sbattendo un gomito: forse mi spaccai un osso ma ormai il dolore non mi toccava più, visto che ero tutta una sofferenza, specialmente il basso ventre sanguinante e dolorante.
Mi ero fatta la pipì addosso ed ero bagnata dalla testa ai piedi, ero ridotta un cencio sporco e appallottolato, ai piedi del letto e non avevo nessuna speranza di essere aiutata; la mia unica speranza era che mio marito in qualche modo si insospettisse, dopo una notte senza rientro; ma anche quello, purtroppo, era giustificabile con la troiaggine che gli avevo manifestato; e non mi sarei meravigliata se mi avessero lasciata lì a morire dissanguata senza assistenza.
Arrivò invece la polizia, ad un tratto, non so neppure io come o perché: solo molto più tardi avrei saputo che mio marito era andato a denunciare la mia assenza ed aveva indicato il motel come luogo dove potevo essere; le forze dell’ordine mi avevano rintracciato ed erano intervenute, per mia fortuna.
Dopo avere esultato vedendo i miei salvatori, immediatamente mi assalì la vergogna infinita delle spiegazioni.
Per fortuna mi portarono direttamente in ospedale per curare il mio gomito spezzato e per tentare in qualche modo di rimediare alle profonde lacerazione all’ano, alla vulva e al ventre che avevano provocato i miei aguzzini; la parte peggiore fu tentare di recuperare la bocca completamente deformata: la sola ‘fortuna’ era che non potevo parlare, in quelle condizioni, e ci volle molto tempo prima che raccontassi la verità.
Di Ubaldo non ebbi nessuna notizia per tutto il mese che passai in ospedale, nelle emergenze per intervenire sul gomito, danneggiato in maniera irreparabile, al punto che non potei più usare correttamente il braccio, e sulla bocca che ormai non sembrava neppure chiaramente riconoscibile, tanto era deformata; i danni all’apparato riproduttivo furono gravi, con la conseguente perdita di molte funzioni, da quella riproduttiva alla continenza fecale messa in grave difficoltà.
Non mi ero mai sentita sola nella mia vita, specialmente dopo il matrimonio, che era stato una comunione ininterrotta con mio marito, che mi era rimasto vicino come un cagnolino anche quando veniva da me sanguinosamente umiliato; dopo il ricovero, i miei evitarono di venirmi a trovare, soffocati dalla vergogna per quello che emerse dal mio ritrovamento in un motel fuori mano, seviziata dai miei stessi amanti occasionali; gli amici tutti si defilarono, anche quelli (pochi, in verità) che erano più vicini a me che a mio marito; l’assenza di lui creava a quel punto un vuoto insanabile.
Uno dei medici che si occupavano di me, quando glielo chiesi, mi confidò che mio marito si era fatto carico anche delle spese ospedaliere che non erano poca cosa, visto che le più significative riguardavano la plastica di ricostruzione specialmente della bocca e dell’ano; ma aggiunse anche che aveva avvertito che non sarebbe mai venuto ad informarsi e che aveva avviato le pratiche per il divorzio; il cielo sembrò piombarmi addosso per la seconda volta; e stavolta era anche più vivo, intenso, irrimediabile, insanabile, il dolore che avvertii in tutto il corpo come se la ferita nell’anima si materializzasse in tutte le fibre del mio essere.
Dovetti aspettare un bel poco, prima di poter usare un telefono e la prima telefonata la feci a Ubaldo, per chiedergli piangendo di non abbandonarmi anche lui, di parlarmi, per offendermi se voleva, per farmi del male, ma per rompere quel disinteresse che mi uccideva più del male che mi avevano fatto o che, come mi corresse lui, ‘mi ero cercata col lanternino’; mi rispose che per il momento non se la sentiva e che voleva prima parlarne col suo nuovo amore: per la terza volta in pochi giorni il cielo mi piombò sulla testa; piansi come una fontana rotta e mi sentii ancora veramente perduta; a quel punto, morire sembrava la soluzione meno brutta: bastava cercare il modo per uccidersi.
Per fortuna, Ubaldo non mi aveva abbandonato come diceva; me lo trovai davanti all’improvviso, con mia enorme sorpresa, quando mi stavano per togliere le bende dopo avermi ricostruito la bocca; riuscì perfino a scherzare.
“Forse te l’hanno fatta più bella!”
Tentai di sorridergli con uno slancio di quell’amore che non gli avevo mai dato; ma capii da sola che era uscita una smorfia involontaria: si mise a ridere; aveva capito, perché, per mia fortuna, lui riusciva a cogliere sempre il meglio dalle cose; vicino a lui comparve una ragazza, assai più giovane di noi, molto bella, che non feci fatica ad individuare come la nuova compagna di cui mi aveva detto il medico; mi concentrai e trovai la forza di parlare con chiarezza.
“E’ il tuo nuovo amore? Si vede che siete innamorati!”
Non potevo aggiungere molto, perché stavo piangendo; toccò a mio marito (lo era ancora, per mia fortuna!) asciugarmi le gote e consolarmi.
“Non te la prendere: neanche io sono stato fortunato, con te; e stavolta spero di essermi meritato un po’ di fortuna. Forse anche tu troverai la tua strada.”
“Sei troppo leale; neanche a fin di bene ti riesce di mentire. La verità è che forse dovresti risparmiare anche i soldi per ridarmi un viso accettabile: col mio gomito, non c’è speranza che possa lavorare e mantenermi: dovrò vivere di elemosina; con i danni subiti, neppure prostituirmi potrei!”
Stranamente, fu la ragazza ad intervenire: e la sua voce completò il senso di bellezza e di dolcezza che già avevo.
“Tu hai una casa e una famiglia: il divorzio è solo un certificato formale. Se vuoi rimanere nella nostra casa, quella che era e resta comunque tua, io non mi oppongo: tutt’al più, puoi essere la mia dama di compagnia, o la colf, o l’amica di famiglia o la tata dei figli che avremo; io non ho accettato che il mio amore si disinteressasse di te quando sei stata ricoverata; non accetterei che ti abbandonasse adesso. Se vuoi, saremo amiche e non è detto che tu non trovi un lavoro compatibile e ti ricostruisca una vita.”
Riuscii a frenare il pianto che mi riprendeva e le tesi le braccia; mi venne vicino e mi strinse a se.
Forse aveva trovato davvero un’amica.
Neanche per un momento mi venne il sospetto che la vicenda fosse stata voluta e organizzata da mio marito, per punirmi severamente: il fatto che gli aguzzini non avessero preso in nessuna considerazione la copula con me mi sfuggiva ancora; invece, le conseguenze della loro violenza cieca e, in qualche modo, di chiara intenzione punitiva, mi obbligavano adesso ad elemosinare quello che poteva essere un mio diritto; ma se avessi cercato di avanzare una simile ipotesi, rischiavo di farmi internare in una clinica psichiatrica, vista la ‘bontà’ di Ubaldo e della sua donna.
Meglio sperare, forse, in un lavoro compatibile con la mia condizione e con la mia laurea.
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