Di solito quando mi masturbo tendo ad arrivare subito al dunque.
Sandro, un mio amico che studiava ingegneria, dopo quindici anni di sesso solitario, diceva che ormai per lui farsi le pippe gli sapeva di minestra riscaldata, che provava a condire di volta in volta nei modi più disparati: gli piaceva farlo in piedi, stimolarsi i capezzoli, o l’interno delle ginocchia. Ma restava pur sempre una minestra riscaldata. Una volta aveva intessuto per quasi un anno una relazione con un ragazzo, senza praticamente vedersi mai. Avevano cominciato lasciandosi messaggi sui muri dei cessi di giurisprudenza, e solo dopo lunghi carteggi amorosi, liti e rappacificazioni murarie, erano riusciti a lasciarsi finalmente il numero di cellulare. Il bello è che questo scambio simil-epistolario, che nemmeno Abelardo ed Eloisa, era stato intercettato da un terzo che, venuto per primo in possesso del numero di telefono, aveva chiamato Sandro spacciandosi per quell’altro e facendogli un sacco di proposte oscene. Dopo i messaggi sui muri, finalmente, i nostri eroi erano passati a sentirsi al cellulare, di nuovo per mesi, di nuovo tra tanti “ma non lo so, non mi sento ancora pronto; tanto ormai ci vogliamo bene”. Erano arrivati a progettare di scambiarsi le foto, nascondendole sotto il sasso di un parco che entrambi frequentavano, per rendere la cosa più romantica. Finché finalmente si erano visti e non si erano piaciuti. E io mi sorbivo le rotture di coglioni di questo bel ventiseienne, a cui non mancava niente per farsi una passeggiata in un locale gay e rimorchiare il primo che capitava. Avrebbe trovato la fila. Certa gente è nata per voler soffrire.
Tornando allo smanettamento, dicevo che spesso non mi preoccupo di prolungare il piacere. Vengo e basta. Altre volte, invece, lascio la presa non appena sento che l’orgasmo mi sale su per il corpo. Aspetto qualche secondo e ricomincio. E rilascio. Dopo un po’ che va avanti il giochetto, soprattutto se non lo faccio da qualche giorno, inizio a sentirmi una cagna. Sentirsi una cagna è quando il corpo ti diventa incandescente, i pensieri si deformano, saresti in grado di fare qualunque cosa. Arrivi al punto in cui basta sfiorarti la cappella per sentire la voglia di esplodere. Ti si chiude la gola, il respiro è affannoso e ti sembra di dover morire. Per lo più, però, è una sensazione che si ottiene da soli, perché è difficile che qualcuno sappia esattamente cosa fare. Nessuno conosce il tuo corpo come te stesso. In realtà è già un miracolo che riescano a farti sborrare. Sono passato sotto le gambe di tanti uomini e anche quelli che mi hanno fatto stragodere non ci sono riusciti.
Solo Frederique, non so come, riusciva a farmi sentire una cagna.
Lo incontrai anni fa in una vacanza studio in Inghilterra, quando ancora facevo il finto bravo figlio di famiglia e andavo d’accordo con i miei. Era francese, aveva i capelli biondissimi come il grano e morbidi. Da accarezzare. Era un po’ riservato e, soprattutto con me, abbassava gli occhi. Non stava nella mia classe, me lo presentò una mia amica francese, Sophie.
Ero meno sfacciato di adesso, ma già da allora, se il maschio mi intrigava e sentivo di avere una possibilità, quantomeno ci provavo.
Ci feci amicizia sul prato del college in un pomeriggio assolato. Mi raccontò di essersi appena diplomato e di essere un po’ in apprensione per l’università. Mi disse che, soprattutto il primo anno, le matricole venivano maltrattate dai più anziani. Nella giornata d’inaugurazione dell’anno accademico, addirittura, erano costretti a stare fermi al centro del prato dell’ateneo, mentre i senior, tutti intorno, li prendevano a pomodorate. A me pareva divertente e anche un po’ eccitante, ma lui era terrorizzato.
Ci provai nel più banale dei modi, come tante altre volte mi sarebbe capitato in futuro, fino a farne quasi un mestiere. Al cinema.
Eravamo andati in gruppo a vedere, in un cinema d’essai, un vecchio film con Hugh Grant. Sirens credo si chiamasse. Parlava di un pastore protestante che andava a convertire un artista un po’ lascivo; solo che era l’artista a convertire lui.
Ci eravamo seduti vicini con la scusa che, se il film fosse stato brutto, ci saremmo divertiti a fare commenti stupidi. I sedili erano stretti e così ci ritrovammo con le gambe attaccate. Nessuno dei due, però, faceva niente per scansarsi. Buon segno. E il bello è che si toccavano dalla suola delle scarpe fino alle ginocchia.
In un momento topico del film, quando esce un serpente a simboleggiare la sensualità, come se niente fosse, ma col cuore che mi batteva forte in gola, gli appoggiai una mano sulla coscia e ce la tenni per un bel po’. Lui non fece un fiato. Man mano che il film procedeva, iniziai ad accarezzarlo lievemente, per non farmi vedere dagli altri, fino ad arrivare a sfiorargli con il mignolo il pacco, che intanto si era fatto gonfio di gloria. Alla fine del film, quando la moglie del pastore gli infila un piede tra le cosce per provocarlo, gli diedi un pizzicotto sul pisello, come a dirgli “ormai sei mio”. E invece fui io a diventare suo.
Dopo qualche giorno, con la scusa di studiare insieme, dato che avevamo lezione il pomeriggio, lo invitai di mattina nella casa in cui ero ospite. Quel giorno mi svegliai molto prima del solito e, eccitato come una Principessina in attesa del Principe, mi incollai alla finestra per vederlo arrivare. Avevo il terrore che la mia landlady, per un qualche motivo, restasse a casa invece di andare al lavoro, o rincasasse prima, ma da quel punto di vista filò tutto liscio come l’olio.
Se chiudo gli occhi mi sembra ancora di vederlo arrivare sulla sua bici, bello e sportivo come un attore di The Vampire Diaries, con in mano la cartina per non perdersi, con su scritte tutte le indicazioni che gli avevo dato, tracciandogli il percorso con l’evidenziatore.
Portava una maglietta azzurra e dei bermuda beige, dai quali uscivano i polpacci con un po’ di peluria bianchissima, quella peluria che avrei imparato a conoscere così bene. Solo vederlo impugnare il manubrio, mi fece venire un brivido su tutta la schiena.
Quel giorno imparai per la prima volta che cosa vuol dire venir sottomesso da qualcuno. Ero già stato inculato, ma quasi con fastidio. Non ero mai riuscito a goderne per davvero.
Ero tentato di scaraventarmi alla porta per aprire, ma mi trattenni ed aspettai di sentire il suono del campanello.
Era bello come il sole. A rivedere le foto adesso, forse aveva il naso un po’ grosso e storto e poi era bassino. Ma per me, allora, era un angelo sceso dal cielo, il mio dolcissimo angelo biondo.
Lo feci accomodare in salotto e gli offrii un bicchiere di Cider, una schifezza che in Inghilterra amano quasi più della birra. Lui ne bevve un sorso, ma continuò a non parlare, era piuttosto teso.
Capii che nuovamente dovevo prendere l’iniziativa io e, sedutomi vicino a lui, accavallai la mia gamba sulla sua. Ci guardammo per un attimo e subito ci avvinghiammo per baciarci. Aveva le labbra fresche, morbide, e la lingua che accarezzava la mia con gentilezza. Sembravamo incapaci di separarci, restammo in quella posizione a succhiarci per non so quanto. Quando ci lasciammo, lui si slacciò i pantaloni e li tirò giù. Quella montagnola che si ergeva sotto ai boxer mi faceva avere le vertigini. Iniziò ad accarezzarsi guardandomi e io credetti che avesse voglia di masturbarsi, mentre penso che stesse semplicemente caricando l’arma. Mi chiese se avessi “some cream”, e io non capii bene se avesse voglia di fare giochetti con la panna, o cercasse un lubrificante. Optai per la seconda, e non sbagliai. Mi fiondai in bagno e scaraventai a terra tutte le boccette e cremine della landlady. Tanto non le servivano, era un cesso comunque.
Sceso di sotto lo trovai in piedi che mi aspettava. Mi si avvicinò e mi sfilò la maglietta. Mi slacciò i pantaloni e mi fece segno di sdraiarmi sul divano. Prima che mi coricassi, allungò la mano e mi cinse il pene e le palle, quasi strizzandoli, stampandomi un bacio con quella bocca adolescenziale. È da quell’istante che fui suo.
L’attesa che trascorse tra il vederlo lubrificarsi e il sentirmi il pene scivolare nelle natiche, mi parve interminabile. Prima di penetrarmi mi reclinò in parte su un lato e, facendo leva con le sue gambe, divaricò le mie. Non riuscii ad opporre la minima resistenza, mi scivolò dentro in un attimo, coprendomi da dietro. Feci appena in tempo a gemere dal dolore, a provare a divincolarmi, che mi cinse il polso della mano destra con la sua, mettendo ben in chiaro chi comandava.
Da quel momento iniziò una vera e propria opera di demolizione del mio corpo, della mia volontà, come nessun altro sarebbe stato più capace di fare. Non aveva bisogno di strumenti per sopperire alla fantasia, o di prodursi in posizioni improbabili. Gli bastava stantuffarmi a ritmo lento e regolare, tenendomi i polsi, per farmi scivolare pian piano in una sorta di delirio. Sembrava non doversi fermare mai, continuava senza sosta, senza incertezze, sbattendomi per tutto il tempo che voleva.
Il mio pene, vista la posizione, strusciava sul divano al ritmo dei suoi colpi, e si era fatto incandescente.
La cosa che più mi sconvolse è che riuscì a portarmi ad uno stato di eccitazione folle, di febbre, senza farmi venire, tenendomi sospeso in quella sensazione, sotto di lui, a suo piacimento. Era il ritmo, lento e cadenzato, a impedirmi di venire. Sarebbe bastata una piccola accelerata, o qualche colpo più forte dell’altro per farmi esplodere, ma lui andava avanti per la sua strada come gli pareva e piaceva. È in quel momento che iniziai a fissargli i polsi e l’avambraccio, restando incantato a guardare quella peluria biondissima, imperlata a volte da qualche piccola goccia di sudore. Portava al polso un braccialetto di cuoio con una scritta francese che, stranamente, non ricordo più. La vista di quella mano che cingeva la mia, che si imponeva sulla mia, sul mio braccio e il contatto di quella peluria, mi dava scosse di piacere per tutte le gambe.
È in quel modo, pian piano, minuto dopo minuto, colpo dopo colpo, che divenni la sua cagna. Il mio corpo capiva, comprendeva che era giusto così. Godevo nel sentire i miei arti, ogni parte di me, accettare il suo corpo come padrone, al di là della mia volontà. Era giusto così. Mi massacrava e non potevo che accettarlo.
Quando finalmente venni, credetti di morire. Ci sono tanti tipi di orgasmo, ma quello che ti sale su e ti vibra nel cervello, è raro quanto il più bello.
Da quel giorno mi sottomise in quel modo ogni volta che volle, senza neanche bisogno di preoccuparsi se ne avessi voglia o meno. E il mio corpo accettò ogni volta la lezione, la dura legge del suo, senza più sognarsi di ribellarsi. Godetti fissando quel braccialetto di cuoio dalla scritta misteriosa non so quante mattinate.
Fu la prima volta che sentii l’impellenza di sbattermi in ginocchio davanti a un uomo. Dopo che mi aveva demolito, spesso ci mettevamo a vedere la televisione, e mentre lui si sedeva in poltrona, io mi accovacciavo tra le sue gambe, abbracciandogli i fianchi e reclinando la testa su quello strumento di potere che aveva usato un’altra volta su di me. Ogni volta che lo vedevo mi sarei buttato a terra sulle ginocchia di fronte a lui per adorarlo davanti a tutti, affondandogli la bocca sul pacco. E ci mancava poco che lo facessi davvero anche in pubblico. Lui lo meritava, il mio signore, il mio tiranno spietato. Un dolcissimo tiranno. Il mio cucciolo tiranno.
Dopo la prima volta, però, visto l’acquitrino che avevamo fatto sul divano, coperto alla bell’e meglio con i cuscini, escogitammo un metodo che a noi parve geniale. Sfruttammo la terribile moquette che gli inglesi usano in ogni stanza della casa, perfino in bagno, ed in particolare quella della mia stanza da letto. In breve, spostavamo il mio letto, facevamo tutte le nostre cose per terra e poi le riseppellivamo sotto il letto, areando la stanza per togliere quell’odore pungente di sperma e sudore. Quando la landlady lo avrà finalmente spostato per pulire il pavimento, non voglio pensare alle incrostazioni che avrà trovato.
Trascorse così quella mia estate di qualche anno fa, sotto al corpo adolescenziale eppure instancabile di quel dolce ragazzino francese un po’ timido. Non vidi mai nel suo sguardo la soddisfazione che talora hanno gli uomini dopo averti posseduto, quel sorrisetto di vittoria. Lui, nonostante tutto, rimase sempre il mio piccolo Frederique dai capelli biondi e il braccialetto di cuoio.
Quando ci salutammo non ci dicemmo niente di particolare. Il Natale successivo provai a mandargli una cartolina di auguri, ma non mi rispose. Va bene così. Mi basta serbarne il ricordo. Il ricordo dell’unico uomo capace di farmi sentire una cagna.

Estratto dal romanzo "Finchè non mi vedrai volare" di Sylar Gilmore edito da Eroscultura Editore
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