Non mi capitava spesso di trattenermi in fabbrica: in parte perché l’Università mi impegnava molto più di quanto mi piacesse; in parte, perché mio padre cercava di tenermi lontano dall’attività lavorativa: sognava per me una professione più qualificante che il dirigente di una piccola azienda, per cui avrei sempre e comunque dovuto avere a che fare col lavoro manuale; lui mi vedeva piuttosto, che so, chirurgo, avvocato, giornalista; e con il suo lavoro e i risultati ottenuti poteva consentirmi di procedere serenamente negli studi e sognare in grande.
Ai suoi dipendenti, specialmente a quelli della cerchia più vicina a lui, la mia presenza risultava gradita e opportuna: non mi chiedevano un vero impegno, perché erano in grado di mandare avanti l’azienda anche senza direttive, tanto erano esperti; ma gli faceva piacere pensare che l’azienda poteva contare su una continuità e, con essa, anche sulla certezza del lavoro e sulla sicurezza per le famiglie; in pratica, la mia presenza rappresentava per loro la garanzia della continuità, all’opposto esatto della ambizioni di mio padre.
Quella volta che lui e mamma decisero, finalmente!, di prendersi una vacanza di una settimana da trascorrere sui monti, di cui mia madre era una grande appassionata, fu quasi unanime la gioia di sapere che per quella settimana, il ‘boss’ sarei stato io, in perfetta armonia con lo staff dei dirigenti; anche i miei partirono con la convinzione che niente sarebbe cambiato nella conduzione del lavoro, nonostante la mia scarsa esperienza.
La notizia del terribile incidente che in autostrada aveva coinvolto decine di autoveicoli in una terribile carambola nella quale non si sapeva quante persone avessero perso la vita, arrivò con i telegiornali del mezzogiorno, mentre sedevano a mensa tutte le maestranze: il timore che nell’incidente fossero coinvolti i miei diventava sempre più vivo, a mano a mano che si precisavano le notizie: l’autostrada era quella, l’ora dell’incidente faceva pensare che la macchina dovesse essere proprio in quel punto a quell’ora: un terribile sospetto cominciò a serpeggiare nella mensa e mi passò come un brivido lungo la schiena.
Poi uno dei ’ragazzi’ riconobbe la macchina, nel groviglio di rottami, quando un’inquadratura particolare sorprese l’immagine con in primo piano la targa: la costernazione cadde sulla sala e un brivido di gelo mortale attraversò l’aria.
Il più anziano dello staff non ebbe esitazioni: mi prese per un braccio e mi sollecitò.
“Devi andare là a vedere: Dio voglia che siano salvi!”
Ma piangeva mentre lo diceva.
Ero inebetito e non riuscivo ad articolare suono o fare un movimento.
Il dirigente dei rapporti esterni, Antonio, un uomo dai nervi d’acciaio abituato ad affrontare emergenze, si attaccò al telefono, contattò la cellula per le emergenze costituita dal Ministero e in pochi minuti seppe che i miei erano tra le vittime; si fece dare i dati per accorrere senza problemi sul posto dell’incidente; mi fece preparare una valigia, non sapendo quanto tempo dovevo restare fuori; telefonò alla moglie, che già aveva saputo, e l’avvertì che sarebbe partito con me e non sapeva quando poteva tornare; lei gli preparò una borsa e gliela portò in tempo per la nostra partenza.
Attraversai trasognato tutte le fasi terribili del ‘dopo’, dall’impatto con le salme ed il conseguente riconoscimento, al trasporto a casa, dai funerali alla tumulazione: la vicinanza di Antonio mi fu di aiuto inestimabile perché mi consentì di attraversare l’inferno del dolore con una certa calma, nonostante il crollo che avevo registrato di colpo di tutta la mia vitalità; quando i processi civili e burocratici furono esauriti, mi chiesero di fare un ultimo sforzo per decidere se assumevo la direzione dell’azienda o preferivo vendere ad una delle multinazionali che da anni facevano pressione su mio padre.
In un’assemblea generale delle maestranze dominata dal lutto che emergeva dai nastri alle pareti, ma soprattutto si leggeva nei volti di quegli uomini abituati a lottare per il lavoro, mi trovai all’improvviso di fronte ad una scelta enorme: ricordai a tutti che non ero figlio naturale dei miei che mi avevano adottato in fasce e mi avevano allevato e coccolato nella bambagia fino a vent’anni; tutti sapevano e potevano testimoniare che la situazione particolare dell’anagrafe non aveva inciso sui rapporti con mio padre e che forse serenamente potevo decidere di prenderne il posto; ma dovevo anche tenere conto di eventuali altri parenti aventi diritto, per cui la richiesta di successione poteva essere prematura; accettai di dirigere al posto di mio padre finché si faceva chiarezza ma invitai anche a riflettere su eventuali diverse decisioni del tribunale.
Il solito Antonio comunicò che mio padre lo aveva ufficialmente incaricato di avvertire, in caso di una simile evenienza, che era depositato presso il notaio un testamento che faceva chiarezza: mi chiese quindi di assumere l’impegno fino alla lettura del testamento; tutti concordarono con un caloroso applauso e la decisione la presero loro, le maestranze; io, in privato, fui consigliato dallo staff di pensare ad ‘imparare il mestiere’ e di fidarmi di loro: in qualche mese sarei diventato il più abile dirigente d’azienda che esistesse al mondo.
“Se non mi ritrovo ad essere orfano senza una casa … “
Commentai scherzosamente; Antonio mi picchiò su una spalla.
“Tuo padre era assai più previdente di quello che tu pensi: era un grande dirigente.”
Difatti, la lettura del testamento rivelò che i miei non avevano lasciato molti dati che si riferivano alle mie origini e alla mia madre naturale; ribadì il grande amore che ci aveva legati e la volontà che si trasformasse anche in una saggia continuità e chiudeva assegnandomi in eredità tutti i beni mobili e immobili dei due e, soprattutto, la proprietà indivisibile dell’azienda con la raccomandazione di non farla morire, ma di farla crescere con l’aiuto e l’assistenza di chi, insieme a mio padre, l’aveva fatta nascere; i dubbi erano fugati e in pochi mesi effettivamente, riuscii ad imparare a dirigere l’azienda, con la fida collaborazione del vecchio staff di mio padre.
Per quello che mi riguardava personalmente, però, il testamento aveva aperto una ferita profonda, indicando alcuni elementi che, teoricamente almeno, avrebbero potuto consentirmi di rintracciare la mia madre naturale: poiché ero il frutto di un abuso su una minore ad opera di sconosciuti, era impossibile tentare di ritrovare un padre; ma mia madre, che mi aveva affidata ad un Centro di assistenza per donne in difficoltà, poteva essere rintracciata per quel percorso; in me maturò, lentamente ma decisamente, la determinazione ad indagare fino a ritrovarla.
Gli unici dati su cui potevo concretamente contare era il documento di affidamento da parte del Centro di aiuto alle ragazze in difficoltà, da cui risultava l’assistenza offerta ad una anonima vittima di stupro che aveva partorito, aveva svezzato il bambino, restando però anonima, ed era sparita appena i genitori adottivi avevano assunto la funzione paterna e materna; un altro oggetto poteva risultare importante ed era un cuoricino, forse d’oro, dal quale si poteva fare uscire uno spinotto; l’altro, simile, con spinotto contrapposto e parallelo, avrebbe dovuto essere in possesso della ragazza sconosciuta; l’unico altro elemento di riconoscimento, solo per la mia madre naturale e per le suore che mi avevano raccolto, era una voglia a forma di iris che portavo netta sul coccige.
Assunsi delle informazioni e seppi che il Centro era ancora attivo ed operava in una città non molto lontana dalla cittadina dove vivevo e dove era fiorita l’azienda di mio padre: l’unica cosa da fare era, probabilmente, andare in quella città e cominciare da lì ad indagare tra le carte e , se ancora erano vive, intervistare le suore.
Dovetti attendere quasi un anno, prima che la situazione del lavoro in azienda mi consentisse di prendermi una vacanza lunga per dedicarmi alla mia ricerca; Antonio, come sempre, mi rassicurò sulla tenuta del lavoro, affidato al mio vice che era un antico collaboratore di mio padre ed esperto almeno quanto lui, col quale aveva dato il via all’iniziativa; mi consigliò anche di vivere la vicenda proprio come una vacanza, senza caricarla di troppi significati altri; mi augurò buona fortuna e mi spinse quasi a forza nell’auto che in un paio d’ore mi portò a destinazione.
Il Centro era situato, come da sempre, nella piazza centrale di un rione popolare; proprio di fronte, apriva l’insegna un alberghetto con annesso bar e ristorante che mi sembrò assai opportuno per le mie ricerche; parcheggiai davanti all’ingresso, entrai e fui accolto da una bellissima ragazza che immediatamente mi colpì non so per quale motivo, forse perché ritrovavo in lei tratti di me stesso, quasi fossi di fronte ad una sorella mai conosciuta; le chiesi se potevo alloggiare qualche tempo, se avevano un garage e se, nel caso, potevo anche pranzare e cenare.
Una strana sensazione di attrazione reciproca mi colpì immediatamente: mi prese per un braccio, con affetto impensabile in un rapporto così formale e si rivolse a me dandomi immediatamente del tu.
“Io sono Norma; abbiamo un’ottima camera, c’è il garage e puoi senz’altro pranzare e cenare: la cucina è buona, anche se di albergo. Sei qui per qualche motivo preciso?”
Lo sguardo limpido, i modi familiari e qualcosa di indefinito mi spinsero ad aprirmi con la sconosciuta quasi fosse una vecchia amica; le dissi quindi della mia ricerca e della necessità di cominciare dal Centro di fronte.
“Se vuoi, posso darti una mano: conosco il Centro e sono amica di molte delle suore che lo conducono; se ti va, possiamo anche andarci insieme.”
La ringraziai e le chiesi di indicarmi la camera; si offrì di accompagnarmi e, naturalmente, accettai.
“Perdona la franchezza, ma è da quando ti ho vista che sento come se ti conoscessi da sempre: è possibile?”
“Piuttosto originale, per attaccare con una sconosciuta!”
“Non so dirti perché, ma sento che non mi sei sconosciuta; sento una pulsione per te che chiamerei anche amore.”
“Amore?!?! Per me!?!? Francesco, ma ti rendi conto che potrei essere tua madre?”
“Adesso sei tu che dici stupidaggini; ho ventidue anni e dirigo una fabbrica nel milanese; tu al massimo puoi avere cinque o sei anni più di me.”
“Sei molto bravo ad adulare: io ne ho trentotto di anni, vale a dire quasi quaranta, sono vedova da tre anni e potrei benissimo essere tua madre, se ti avessi avuto a sedici anni.”
“Guarda caso, sedici anni è l’età che aveva mia madre quando nacqui io!”
“Cosa vorresti dire, che vorresti fare l’amore con me come se lo facessi con tua madre?”
“No; però, visto che hai aperto la questione, si, sento tanta voglia di fare l’amore con te, di amarti come se fossi la mia predestinata. Ti pare tanto strano?”
“No; e sai perché? Perché appena ti ho visto ho avuto le stesse sensazioni e non riesco a capire perché mi sento tanto attratta da te. Credi che dobbiamo fare davvero l’amore?”
“Tu sei vedova, io sono praticamente vergine; tu sai se si ‘deve’ fare l’amore; io so solo che vorrei amarti, anche fisicamente, perché ti sento in parte mia.”
Non parlò più; arrivati alla camera, aprì, mi spinse dentro, chiuse la porta e mi serrò in un bacio voluttuoso che mi lasciò senza fiato, con le farfalle nello stomaco e il cervello in tilt; mi guardò come fossi un oggetto strano.
“E’ il tuo primo bacio?”
“Di questa intensità, si; non ho mai sentito tanto amore, tanta passione, tanta voglia come in questo bacio: ecco, ora potrei giurare che ci amiamo da sempre; non mi chiedere il perché; so che sento per te un trasporto indefinibile.”
“Stupido! Basta parlare? Vuoi fare l’amore con me?”
“Io lo voglio da una vita; e tu?”
“Da due delle tue vite, perché ho qualche anno in più e ti voglio da sempre, senza chiedermi perché.”
Intanto si stava spogliando ed io facevo altrettanto; quando si liberò di tutti gli indumenti, rimasi impalato a bocca aperta; quasi si spaventò a vedermi così incantato.
“Francesco?! Che ti succede?”
“Dio, quanto sei bella: tu non puoi essere solo una donna; tu sei un’apparizione, sei una dea, sei la dea della bellezza e dell’amore!”
“E smettila di fare il lumacone! Cosa dovrei dire io di te, che sei straordinario, bellissimo, meraviglioso, che sento di amarti alla follia e mi dispiace di non averti conosciuto tanto tempo fa. Sai che mi stai portando ad amarti come vuoi tu?”
Mentre parlavamo, eravamo precipitati sul letto e mi tenevo stretto a lei con tutto il corpo, volevo sentirla tutta, dalla bocca ai piedi, e sentivo il mio sesso che si gonfiava a dismisura; anche lei lo avvertì e, quasi per interrompere l’emozione, mormorò.
“Però … guarda che ben di dio hai qui sotto!”
Con gesti sicuri, quasi bruschi, accostò la punta alla vulva e si lasciò penetrare: sentivo l’asta che forzava la vagina, la riempiva e si spingeva fino in fondo, a urtare contro la cervice dell’utero; un leggero lamento indicò piacere, più che dolore; strinse le cosce e mi catturò dentro, impedendomi qualunque movimento, quasi per stabilire che era lei a prendermi non io a possederla; e mi lasciai prendere con grande dolcezza, con tutto l’amore che sentivo gonfiarsi in me: ancora non sapevo darmi una spiegazione, ma entrare nel suo corpo era come rientrare in una dimensione prenatale, sentirmi suo completamente e sentire che anche lei mi apparteneva.
Se pensavo che ero venuto per cercare una madre naturale e rischiavo di trovare un’amante improbabile, avrei dovuto sentire qualche senso di colpa; ma ero felice di perdermi dentro Norma, dentro il suo sesso, dentro il suo amore, forse dentro la sua vita; e sentivo che anche lei mi viveva come qualcosa di suo, di provvisorio, che poteva scomparire come era apparso e di cui si trovava ad essere innamorata senza volerlo, anzi combattendo il sentimento crescente.
Come se avesse deciso di concludere al più presto, prese a possedermi da sotto, manovrando i muscoli interni della vagina con strette che mi mandavano al cielo, che mi facevano saltare la realtà e perdermi in una passione inesauribile: l’orgasmo mi aggredì a tradimento, quando meno me lo aspettavo e forse quando ancora non lo volevo; il suo fu conseguente al mio e seguì a ruota, con un’esplosione difficile da controllare anche nel suono violento dell’urlo che le scaturì dalla vagina, prima che dalla gola; si rilassò sotto di me e mi strinse forte, quasi a prolungare la durata dell’orgasmo, a coglierne tutte le infinitesimali emozioni.
Poi, quasi di colpo, mi scaricò a fianco a lei e scappò in bagno, per sistemarsi; quando uscì, ancora nuda con un solo telo con cui si asciugava il ventre, non potei fare a meno di ammirare di nuovo il suo corpo meraviglioso, sensuale, caldo, invitante, amato insomma.
“Non prendermi ancora in giro; sei bellissima, ti adoro; non ho mai visto niente più bello di te, nemmeno nei musei; sei veramente la bellezza fatta persona.”
“Io non voglio prenderti in giro; sei tu che esageri e non so perché: forse posso anche apparirti sublime, ma è il tuo sguardo (o forse il tuo cuore, o la tua passione) che mi ti fa vedere tanto bella; anche tu mi appari meraviglioso, unico, immenso; ma non è un dato oggettivo: sono io che ti vedo così, forse per amore, forse per passione, forse per qualcosa di atavico. Adesso siamo seri: cosa vuoi fare? Vai a fare un giro in città, poi vieni a cena? Stanotte io dormo con te … quel poco che riusciamo a dormire.”
“Io non vado da nessuna parte. Io vengo giù, mi siedo vicino a te che lavori e ti racconto tutto di me, anche i sogni più assurdi; e non chiedermi perché. Ne ho voglia e questo mi basta.”
“Va bene; vuol dire che, per pareggiare, anche io ti racconto tutto di me mentre lavoro; così stasera non saremo più due sconosciuti che copulano ma due persone che si conoscono e si amano. Ti va?”
Le mandai un bacio per non alzarmi; si vestì, mi mandò un bacio sulla punta delle dita e sparì.
Come promesso, passai l’intero pomeriggio accoccolato su una sedia accanto alla sua postazione alla reception, da dove ogni tanto lei si muoveva per il disbrigo di obblighi legati alla gestione; le raccontai tutto della mia vita, senza nascondere niente, dalla nascita da una sconosciuta nel Centro, attraverso l’adozione dei miei genitori adottivi e tutto il percorso che avevano fatto per acquisire il mio affetto e creare la famiglia che sognavano, agli studi intensi a cui mio padre mi aveva avviato e che si erano interrotti.
Mi chiese se avevo smesso con l’Università; le dissi che avevo sospeso gli studi per un annetto, ma che avevo intenzione di utilizzare al meglio quelli fatti per conseguire una laurea in legge che forse non avrei mai usato ma che rappresentava il coronamento di un sogno del mio defunto padre; mi interruppe per dirmi che ora anche lei, che era l’ultima arrivata nella mia vita, voleva che completassi la mia laurea, ma che anche la madre che lei sperava che io ritrovassi sarebbe certamente stata felice di sapermi laureato; non potevo baciarla, in pubblico; ma un bacio leggero sulla punta delle dita potevo mandarglielo; mi venne vicino e cercò di accostarsi perché potessi almeno sfiorarle i fianchi in una sensuale carezza.
Mi chiese cosa pensavo di fare in futuro: le spiegai che non potevo decidere finché non avessi saputo di mia madre: avrebbe potuto essersi rifatta una vita ed io avrei potuto risultarle di peso; avrebbe potuto avere bisogno di me e non mi sarei tirato certo indietro; avrebbe potuto decidere di riformare con me la famiglia che non eravamo mai stati; mi obiettò che, comunque, una mia vita la dovevo prevedere, al di là di mia madre: non potevo dedicarmi per sempre a lei esclusivamente.
“E se ti sposassi?”
“Saresti matto e imbecille. Da quel che hai detto, ho esattamente l’età di tua madre: come potrei conviverci? Tu sei giovane ed hai diritto a farti una famiglia tua, con una moglie e con dei figli: perché dovresti legarti a una vecchia che, tempo dieci anni, sarà da rottamare? Il tuo dovere è rendere felice una bella ragazza e mettere su insieme una famiglia vera, bella, fresca, nuova.”
“E dovrei rinunciare a fare l’amore con te?”
“Tempo al tempo, e questa passione ti passerà; fino ad allora, niente ti impedisce di venirmi a trovare, anche di tradire tua moglie se proprio vuoi, e fare ogni tanto l’amore anche con me; ma solo ogni tanto. Io resto padrona di me, del mio albergo e del mio passato, per brutto o difficile che sia stato!”
“A proposito, tu non mi hai detto niente di te.”
“Che vuoi che ti dica: niente di avventuroso, almeno da un certo momento in poi. Lascio stare l’adolescenza perché non merita; a poco più di vent’anni mi sposai con un bravo ragazzo, grande lavoratore, che si era messo in testa di fare il cuoco in un grande ristorante e, con la tenacia, con il lavoro, forse anche con il mio aiuto, riuscì a costruire questo piccolo regno che vedi ; per tredici anni siamo stati una coppia meravigliosa, finché un maledetto incidente non me lo portò via; non eravamo neanche riusciti ad avere un figlio perché lui aveva dei problemi ed ora mi trovo da sola a gestire albergo e ristorante; ma non sono né triste né scontenta: ho fatto quello che ritenevo giusto ed ho avuto quel che potevo avere,compreso un marito meraviglioso che la sorte mi ha strappato. Per tua notizia, ti informo che in tutti questi anni non l’ho mai tradito, nemmeno col pensiero. Oggi non so cosa mi sia successo. Mi hai sconvolto, non so se gli ormoni. Il cervello o il cuore. Comunque, sei l’unico uomo che mi ha posseduto, dopo Flavio.
“Questo lo sospettavo; e continuo a chiedermi perché. Anche io, nel mio piccolo, è la prima volta che ho fatto l’amore; neanche all’università mi sono mai occupato molto di donne: qualcuno sospettava addirittura che fossi gay; tu mi hai spazzato ogni dubbio e ti ho amata da subito; e ti amo ancora, con tutto me stesso, contro tutte le tue logiche e certezze; finora io amo solo un fantasma senza nome, mia madre, e Norma, la mia donna per adesso. E non ti lascerò, neanche dopo che avrò costruito un harem di mogli e una squadra di figli: correrò sempre a raccontarti tutto, come faccio ora.”
Tra ameni conversari, qualche toccatina clandestina e piccole moine da innamorati, venne l’ora di cena: la cucina si rivelò veramente ottima, come Norma mi aveva anticipato; lei venne a sedersi a tavola con me, anche se spesso era costretta a correre ad ottemperare ad obblighi d’ufficio; ma complessivamente cenammo con gusto e con amore, soprattutto, e non feci altro che sentirla sempre più vicina, sempre più familiare, sempre più mia.
Dopo la cena, mi toccò attendere ancora un poco che chiudesse le pratiche diurne e si facesse sostituire dal portiere di notte; solo allora potemmo andare nella mia camera, dove arrivai col sesso che già soffriva nello slip, costretto com’era con tutta l’erezione scatenata dai baci che ci eravamo scambiati sul percorso; piombammo letteralmente sul letto e avemmo difficoltà anche a spogliarci, avvinghiati come eravamo; riuscimmo comunque a liberarci degli abiti e le fui sopra prima di averlo pensato, tanto irruenta era la mia voglia di possesso; Norma non cercò nemmeno di frenarmi e si trovò penetrata e inchiodata supina al letto; si limitò a carezzarmi il viso e a suggerirmi un po’ di calma; mi fermai e restai ancora piantato dentro di lei, come nel pomeriggio, non sapevo più se possedendola io oppure se catturato da lei.
Mi abbracciò con foga e mi coprì di baci fin dove le era possibile; cominciai a baciarla anche io, dalla fronte fino alla gola seguendo tutte le linee del viso; mi sollevai sui gomiti e cercai di scendere dalla gola verso il seno per baciare le tette, leccare e succhiare i capezzoli: sentivo che le provocavo brividi di lussuria ed insistevo a succhiare, mentre avvertivo che la vagina cominciava a manovrare i muscoli per titillarmi il sesso immerso fino all’utero: dopo una lunga manovra riuscì a strapparmi un’eiaculazione enorme che sembrò farla godere tantissimo, visto che l’orgasmo si scatenò anche in lei con la stessa intensità.
Scivolai via dal suo corpo e mi adagiai al suo fianco; poco dopo, mi sollevai a sedere e cominciai a leccarle il corpo, dalla fronte, attraverso il viso e la gola, fino sui seni che percorsi quasi totalmente: la costrinsi con dolce fermezza a starsene supina mentre mi cibavo, addirittura, del suo corpo meraviglioso ed amato; scesi sul ventre teso e piatto e mi dedicai al tortellino dell’ombelico con passione fanciullesca; scesi ancora più giù, sul pube ricoperto di pelo naturale, incolto, lungo, eccitante, e con la lingua scavai alla ricerca della vulva e, soprattutto, del clitoride che volevo assaggiare e pascermene a sazietà: lo trovai e lo afferrai tra le labbra, prima, e tra i denti, dopo; lo succhiai e lo mordicchiai a lungo, strappandole gemiti da orgasmo non violenti ma continui e incalzanti fino a quello dell’esplosione definitiva.
Non appena si fu placata la violenza dell’amplesso, mi prese per i fianchi e mi fece ruotare fino a che il mio sesso fu sulla sua bocca, restando io incollato alla vulva ed al clitoride: sentivo che ammirava tutto il perineo fino al coccige: ebbe un attimo di esitazione, poi prese a succhiarmi la verga con grande amore: sentivo il cuore scoppiarmi mentre l’asta si gonfiava nella sua bocca che succhiava, leccava, spingeva in gola fino a soffocarsi ed alla fine mi strappò un orgasmo che non avrei voluto, perché eiaculare due volte in meno di mezz’ora, dopo la prova pomeridiana, rischiava di mettermi a terra.
Scivolai via dal suo corpo, ne approfittò per andare in bagno a scaricare scorie e a lavarsi; subito dopo, anch’io andai in bagno per orinare e lavarmi i genitali; quando tornai verso il letto, mi fermò e mi fa girare.
“Ma questa voglia è un iris?”
“Credo di si; nessuno mi ha mai spiegato niente; ce l’ho da sempre.”
“Però … è bella grossa.”
Commentò; poi ce ne dimenticammo e pensammo al nostro amore, che andò avanti per molte ore fino a notte avanzata.
Mi svegliai che l’orologio segnava le nove; Norma non era più nel letto: nonostante la notte di grande fatica sessuale, era in piedi da poco più dell’alba per fare fronte ai suoi doveri; la trovai alla reception quando scesi per la colazione.
“Perché non mi hai svegliato?”
“Perché dormivi come un angioletto e non avevi impegni; tra un’oretta, se vuoi, andiamo al Centro; mi è parso di vedere suor Quintilia: è la più vecchia del Centro e certamente sa qualcosa di te e di tua madre; o almeno lo spero.”
Suor Quintilia era davvero anziana, sicuramente oltre gli ottanta e forse vicino ai novant’anni; ma era vispa e vivace come una giovanetta, conosceva bene Norma e l’abbracciò con affetto; le chiese chi fosse il bel giovanotto che l’accompagnava e lei le accennò la mia storia; la suora prese il foglio che avevo portato, lanciò una strana occhiata a tutti e due, poi andò verso una libreria dove erano sistemati in bell’ordine faldoni polverosi; ne prese uno, chiamò a sé Norma, le consegnò una cartella e sparì silenziosamente; restai basito e a bocca aperta; Norma mi venne vicino e vidi che letteralmente tremava: non capivo e mi preoccupai.
“Suor Quintilia sa e mi ha detto quello che ti serve; ma forse è meglio che ne parliamo io e te, addirittura non in albergo ma nella tua camera.”
Continuavo a navigare nella nebbia e la seguivo come un automa; ad un tratto trasse, dalla cartella che la suora le aveva consegnato, un oggetto e me lo mostrò: era un cuoricino in similoro come quello che io portavo come pendente della catenina al collo; mi chiese infatti se ne avevo uno simile e glielo mostrai; lo prese e lo mise insieme all’altro.
Quando fummo nella mia camera, prese i due cuoricini, fece scattare il meccanismo che espelleva i pistoncini, li inserì nei buchi paralleli e i due cuori si aprirono mostrando due nomi: Norma e Francesco; per un attimo sentii che la terra mi mancava sotto i piedi; lei mi prese per un braccio e mi fece sedere sul letto dove poche ore prima avevamo fatto l’amore come antichi amanti.
“Vuol dire che tu sei mia madre?”
“Prima, quando ti parlavo della mia vita, ho saltato la parte che si riferiva all’adolescenza, perché da sempre cerco di dimenticare che, quando avevo sedici anni, fui violentata da un gruppo di balordi che mi lasciarono a terra mezza morta, ma soprattutto gravida; mi rifugiai al Centro, da suor Quintilia, che mi assistette con amore, parlò con i miei per spiegare i fatti e, quando ormai non potevo più nascondere la pancia, mi ‘ricoverò’ nel Centro dove tu nascesti: ti ho allattato al seno fino allo svezzamento, ma non potevo neppure tenerti in braccio; ti portavano da me per la poppata e ti riportavano via subito dopo; era deciso che, appena svezzato, saresti stato adottato e ti era garantita un’esistenza serena, come è stato. Io mi ero impegnata a non cercarti mai più: infatti, il cuoricino coi nostri nomi l’avevano suor Quintilia e i tuoi genitori adottivi; sapevo solo vagamente di una voglia a forma di iris sul coccige, ma l’avevo solo intravista mentre ti allattavo. Poi mi sono sposata e il resto te l’ho detto. Ora sono al tuo giudizio. Oltretutto, abbiamo appena commesso incesto: forse dovevamo capirlo che tanta attrazione poteva solo nascere da qualcosa di immenso. Tutto avrei immaginato, tranne di avere davanti a me il figlio avuto e mai goduto da madre. Cosa pensi di fare?”
“Cosa vuoi che pensi? Cercavo mia madre e l’ho trovata; l’amavo da sempre, forse non sessualmente, ma tant’è: ti ho amata e ti amo anche fisicamente; me ne frego delle convenzioni: quelle ti hanno fatto più male della violenza subita, perché è per le convenzioni che hai dovuto rinunciare a tenermi con te; e forse anche questo, come dice il proverbio cinese, non è stato un male; noi due da soli avremmo avuto una vita impossibile di stenti; separati, abbiamo avuto fortuna, tu con tuo marito e io coi genitori adottivi. Io ti ho ritrovato, me ne frego del resto, anche dell’incesto. Sei la mia mamma! Felicissimo di avere una mamma così bella, così meravigliosa. Oggi ho parlato col cuore in mano, come a una madre, anche se non sapevo che lo eri davvero: tu stai bene col tuo albergo e non hai bisogno di me; io non voglio disturbare il tuo benessere con il desiderio di stare con te; quando voglio, ci vuole poco a venire a trovarti, a passare un fine settimana come ospite del tuo albergo e andare a pranzo o a cena con te; posso e voglio amarti come mia madre in tutti i modi possibili. Comunque, come qualunque figlio, avrei dovuto staccarmi da te, ad un certo punto; l’hai detto tu stessa: mi cercherò una bella ragazza e avrò dei figli e tu avrai dei nipotini e sarai sempre la mia mamma e la loro nonna. Una ipotesi: se incontri un brav’uomo, uno che sia proprio giusto, prova a risposarti; se dovessi farlo dalle mie parti mi piacerebbe se potessi venire a stare più vicino a tuo figlio: sei troppo bella per sprecarti nel ricordo e l’albergo puoi sempre farlo gestire ad altri, anche senza venderlo. Insomma, fai quello che ti sembra meglio per te, ma liberati del ricordo del marito che non può più tornare, e dell’incubo del figlio perduto che adesso hai ritrovato. Forse, dietro l’angolo, c’è ancora uno sprazzo di felicità anche per te. Un’ultima cosa: ti prometto che mi laureo, anche perché tu possa essere contenta di me, mamma.”
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