Assorta nella meticolosa analisi, ascoltavo vigile il paziente steso sulla poltrona in pelle dinanzi a me. Scrivevo delicata, facendo scivolare la sfera della penna sui bianchi fogli; catalogavo le bizzarre nevrosi di Jean, metabolizzando un ipotetico movente della loro comparsa.
Jean-Didier Nguyen, nevrotico e ipocondriaco, era presenza fissa nel mio studio. Seppur il mio metodo psicoanalitico vigeva verso il termine, egli era deciso a non troncare le sedute.
Seduta immobile ad ascoltare meccanicamente il fiume di parole che egli era diventato, giochicchiavo con la penna tenendola tra le dita. Attratta dalle sue carnose labbra, le sillabe pronunciate venivano da me percepite solo in forma di flebili e insignificanti suoni. La sua scura pelle, avvolta in un'elegante e attillato dolcevita di colore nero, risaltava la sua bianca dentatura. Alle possenti e lunghe gambe, portava dei pantaloni di colore nero gessati di fantastica manifattura. Strusciava nervosamente i palmi delle mani sulle sue cosce, osservando il vuoto con i grandi smeraldi muniti d'iride e pupilla.
I suoi capelli rasati, conferivano all'elegante ragazzo un tocco selvaggio nella norma. Due bellissimi brillanti adattati a orecchini, posavano sulle sue piccole ma proporzionate orecchie:
«Mi sta ascoltando?»
Chiese terminando il prolisso soliloquio
«Come scusi?»
Risposi distratta tra i lussuriosi pensieri
«Chiedevo se mi stesse ascoltando?»
Ribatté l'accusa
«Ovvio che la sto ascoltando!»
Risposi rea, scoperta nel mio poco professionale menefreghismo
«Mi dispiace averla innervosita, sembrava assopita nei suoi pensieri»
Imputò il belloccio
«Passiamo al consueto Test di Rorschach! Ormai è una prassi, vero?»
Borbottai levandomi dalla sedia.
Avvicinata alla libreria, dando le spalle al bruno paziente, carezzavo le copertine dei volumi scrupolosamente catalogati in ordine cronologico. Afferrai la gialla cartellina posta tra due libri sulla psicoanalisi:
«Allora, Sig. Nguyen, il processo è sempre il medesimo. Io le mostrerò le ormai a lei famose macchie di Rorschach ,lei deve dirmi precisamente cosa vede. La prego, questa volta non pensi alle risposte giuste o sbagliate. Deve solo dirmi ciò che vede, senza paranoie»
Spiegai al nervoso paziente
«Sì, dottoressa»
Rassicurò.
Aperta la cartellina, afferrai i primi fogli tra le dita della mano sinistra voltandoli verso il volto del paziente:
«Allora, in questa cosa vede?»
Proposi al ebano ragazzo
«U-una falena?»
Rispose insicuro
«No, no, no. Forse non mi sono ben spiegata, Sig. Nguyen, io le ho detto di rispondere ciò che realmente vede, non di chiedere il consenso di ciò che lei crede di vedere. Le ripeto, non v'è risposta giusta o sbagliata! Quindi, la invito a rispondere in modo sicuro. Altrimenti, sarò costretta a dichiarare nuovamente nullo il test»
Decretai infastidita
«Sì, è proprio una falena. Una falena con delle zampe da gallina! Una falena con delle zampe da gallina e degli artigli da pterodattilo alla base delle ali»
Ribatté.
Porsi la seconda macchia al paranoico Jean, sottraendola dalla cartellina:
«Un albero?»
Replicò nuovamente indeciso
«È una domanda?»
Dissi sospirando nervosa.
Levai i leggeri occhiali dalla bianca montatura, posandoli sul tavolino in legno massello accanto alla poltrona sulla quale ero posata spazientita. Egli, strofinando ancora i palmi delle sue grosse e possenti mani sulle sue cosce, scrutava la mia espressione aspettandosi la classica e banale ramanzina che ormai ero sovente proporgli. Il rapporto con i miei pazienti, puramente professionale, non era mai impostato sulle corde che seguiva il distratto e fissato Jean. Non ero solita rimproverare coloro che si sottoponevano all'analisi, tuttavia Jean-Didier non dimostrava alcun sintomo psicopatologico. Paranoico e ansioso oltre misura, il bellissimo moro appagava la sua fobica ossessione stando perennemente in analisi:
«La prego, Sig. Nguyen, non mi faccia ripetere. Le ho già detto più volte che lei non è pazzo, quindi non deve preoccuparsi di un semplice Test dalla pleonastica attendibilità. Deve solo dirmi ciò che vedere»
Ripetei odiosa.
Sollevai nuovamente il foglio sulla quale era stampata la macchia numero cinque, e la posai all'altezza degli occhi del paziente. Egli, afferrando tra le mani la stoffa dei suoi eleganti
pantaloni, disse:
«Cosa vedo?! Vedo una gran fica! Sì, proprio così! Una bella e perfetta fica nera, con le gambe spalancate che puttana si mostra a me!»
In rapida sequenza, mostrai all'agitato Jean la macchia numero tre e la numero sei:
«Due troie poste a pecorina! Anzi no, la stessa troia posta a pecorina davanti al rosso specchio. Quella è palesemente una fica, sì! Anche quella è una fica»
Chiusi la cartellina riponendo le cicalate macchie. Indossai nuovamente gli occhiali notando il volto dell'amabile bruno madido di sudore, sorrisi graziosa dinanzi al belloccio sconvolto dalla sincerità:
«È contenta?!»
Imputò il fragile Jean
«Ah, no. Mi chiedo se lei è contento»
Risposi accavallando le gambe sorridente
«Puttana! Maledetta puttana!»
Adontò il nervoso paziente.
Sollevandosi sulle gambe, l'austero ragazzaccio, strinse il mio collo in uno dei suo grossi palmi. Sorridente, seppur dolorante, dissi schernendo il paziente:
«Mostrami la natura della tua nevrosi»
Corrotto dalla mia derisione, sollevo la grossa mano colpendomi in volto con uno schiaffo che fece volare i miei occhiali dall'altra parte della stanza. Nervoso, stringendo il mio sottile collo, armeggiava con la cerniera dei gessati. Aperte goffamente le brache, tirò fuori il grosso arnese eccitato dal tono scuro, strofinandolo sulle mie carnose labbra color pesca. Schiuse le labbra sotto depravato invito, lasciai entrare l'ebano sesso all'interno della mia bocca che ghermì istantaneamente le mie goti. Guardai il suo volto sulla quale v'era impressa la fantastica congiunzione tra rabbia e perversione; godei del suo sguardo porno. Puttana succhiavo il grosso e largo pene del nevrotico Jean; schiava lambivo la sua lunghezza assaporando la lussuriosa sapidità.
Spinsi il mio corpo stesa contro lo schienale della poltrona, sollevai le piante dei piedi sulla pelle della seduta allargando le gambe. Egli, con l'eretto pene, posò le sue mani sulla mia lunga camicia biancha che copriva il mio corpo. Strappando completamente il mio vestito, facendo volare via i bottoni, scoprì la mia alabastra carnagione.
Persa nei piaceri della posizione a ostrica viennese, carezzavo le forti braccia del bruno e sudato ragazzo mentre il suo viso giaceva contorto in una mole di piacere tra i miei polpacci. Accusavo l'iraconda sessualità del giovane ragazzo, contenta della mia poca professionalità:
«Dottoressa, mi sta ascoltando?»
Ripeté Jean.
Scossi il capo liberandomi dagli astrusi pensieri che mi avevano condotta sulla perversa immaginazione. Stanca ed eccitata dal tragitto immaginato, dichiarai chiusa la seduta.
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Categorie: Etero