La vita in paese scorreva monotona e noiosa anche in agosto, quando la presenza degli emigrati qualche iniziativa la produceva; specialmente per noi donne, atavicamente ridotte ad occuparci solo della casa (solo in certi periodi, a piccoli lavori nei campi o alla raccolta nei boschi), la giornata era difficile da riempire. La parrocchia era un ottimo diversivo e si trasformava spesso in salotto per pettegolezzi, luogo privilegiato di incontro e di conoscenze. In agosto, poi, in prossimità della festa patronale, l’attività si faceva notevole: tagliare e cucile, incollare e intrecciare, colorare, aggiustare, insomma i piccoli lavori per allestire le decorazioni della festa erano una solida attrattiva per uscire dal chiuso della casa. Tra donne, si parlava di tutto ma specialmente dei piccoli eventi che animavano il paese; un soggetto privilegiato era il mercato paesano che ogni quindici giorni si teneva sulla piazza e nelle strade intorno. A realizzarlo erano venditori ambulanti provenienti da tutta la regione che nel corso dei decenni si erano attrezzati a raggiungere quel posto sperduto e a portarvi tutta la chincaglieria che era di moda oltre ai materiali utili e necessari per la vita in campagna e su per la montagna.
Per le signore (ma anche, e forse più, per le ragazze) il tema preferito era ovviamente l’abbigliamento e, in particolare, l’intimo che, a san Rocco, era legato ancora a tradizioni contadine. Le donne anziane non lo conoscevano e non si spiegavano la necessità di usarlo: le urgenze fisiologiche si espletavano nei campi dove lavoravano e in piedi, protette dalla gonna lunga fino alle caviglie; le mutande allora diventavano solo un fastidio inutile e costoso. Le donne giovanili (o anche giovani) si erano convertite alle mutande di tela grezza, spesso fatte in casa con procedimenti e mezzi artigianali; ma tutte si sarebbero vergognate di esibirle, anche in privato, per l’evidente indecenza dell’indumento. Le giovanissime, abituate anche a sfogliare riviste di attualità, sognavano gli slip di raso con decorazioni varie o almeno mutandine molto mini con disegni ammiccanti. La più informata disse che quelle cose, a san Rocco, non arrivavano neppure, perché i venditori ambulanti (gli unici che avrebbero potuto farne mercato) erano stati diffidati minacciosamente, dai maschi del paese, dal farne comparire sui loro banchi. Qualche raro esemplare pare che circolasse in paese, conquistato da qualcuna più disinvolta, pare in cambio di prestazioni sessuali.
A quel punto il chiacchiericcio si faceva più interessante e scivolava sul tema dei “forestieri” vale a dire gli ambulanti che da decenni venivano a fare mercato. L’ultimo arrivo era della volta precedente, un nero immigrato che aveva sollevato la curiosità e il dibattito del paese, poco disponibile a cambiamenti così radicali. Tra le altre cose, tra donne il tema principale diventò quanta verità ci fosse nella diceria che i neri erano superdotati. Naturalmente, la solita super informata era pronta a giurare che Nella, una vecchia prostituta da tempo ormai morta (l’unica di cui si fosse avuta notizia nel circondario) avrebbe spergiurato che aveva sperimentato personalmente la diversità di dotazione, quando - dopo la guerra - gli Alleati erano transitati da lì e molti di loro erano passati dal suo letto. Naturalmente nessuno aveva elementi per obiettare e la conversazione finì per languire. A me però erano rimasti molti dubbi, sia sui minislip che non avevo neppure visto nei cataloghi che, si diceva, circolavano in giro; sia soprattutto sulla consistenza del cazzo dei neri che, a parere delle anziane, doveva avvicinarsi a quello degli asini; ma il riferimento mi pareva per lo meno esagerato.
Poiché con il cazzo avevo cominciato a prendere una certa dimestichezza, mi chiedevo come potevo cercare di approfondire il tema e, nel caso, verificare. Il sabato successivo si sarebbe tenuto per l’appunto il mercato quindicinale e probabilmente ci sarebbe stato anche Mustafà, il nero che il paese non vedeva di buon occhio ma che non ancora era stato formalmente cacciato. Uscii presto per andare al mercato e cercai subito il banco di Mustafà: ovviamente, era stato relegato nel punto più lontano e disagevole, proprio davanti alla mia amata casa degli spiriti. Cominciai a rovistare tra grembiuli e gonne, camicette e bluse, poi passai all’intimo e sfiorai svogliatamente alcune mutande. Chiesi al nero se avesse degli slip moderni; come era prevedibile, rispose che a San Rocco quel materiale non si poteva portare; di fronte alla mia espressione ironica, ammise che qualcuno se ne portava ma solo per clienti speciali e si rifiutò di precisare la natura della “specialità”. Decisi di passare direttamente all’attacco: fingendo di guardare ancora la merce esposta, gli chiesi se era vero che i neri ce l’hanno molto grosso; non potei distinguere se arrossiva, ma l’aria era molto imbarazzata “Me lo fai vedere?” chiesi facendo finta di guardare controluce una mutanda di tela.
“Tu vuoi farmi ammazzare.” Gli indicai il portone alle sue spalle “Se ti metti lì io ti vedo ma non ti può vedere nessun altro.” Si lasciò convincere, arretrò nel portone e, quando fu abbastanza al coperto, aprì il pantalone e tirò fuori una bestia incredibile, un cazzo di almeno venticinque centimetri, largo come una lattina, con una cappella rosea ancora più larga dell’asta. Mi leccai le labbra vogliosa e Mustafà rimise dentro la bestia e tornò fuori. “Come fanno le donne a prendersi dentro una mazza così?” “Sei tu che esageri: da una figa esce un bambino che è assai più grosso di questa mazza!” La risposta mi convinse ma acuì anche in me la voglia di assaggiarlo, quel mostro, e di farmelo infilare nella figa. “A che ora smonti il banco?” “Tra le due e mezza e le tre; poi vado via,” “Nel palazzo alle tue spalle c’è una stanza ancora in ordine; io alle tre sarò lì; se vuoi, mi piacerebbe assaggiarti.” Non trovò la forza di rispondermi e non gliene diedi il tempo, perché scappai via volteggiando e canticchiando. Per mia fortuna, Antonio non perse tempo nel pranzo, come faceva comunque abitualmente; e subito dopo scappò via per la solita urgenza di non perdere una partita avviata. Non erano ancora le due e mezza ed anche io era per strada, diretta alla casa degli spiriti.
Come al solito, ci arrivai dalla facciata posteriore con la certezza che nessuno poteva avermi visto; entrata nel cortile, mi accostai al portone e spiai Mustafà che riponeva la sua merce e la caricava sul camioncino; mentre si muoveva, mi fermai a guardare il suo pacco e capii che, anche in riposo, la sua mazza era veramente enorme: per un momento fui presa dal timore di non sopportare una penetrazione così violenta; poi riflettei su quello che mi aveva detto il nero, ricordai le dimensioni del cazzo del forestale, ripensai a quello di Mario e mi resi conto che anche Nicola e Genny, in fondo, non scherzavano. Alla fine, riflettei, potevo comunque cavarmela con una sega o un grande pompino o una spagnola che sarebbe stata anche più agevole; solo se avessi avuto la certezza di riceverlo bene, mi sarei fatta chiavare in figa e, perché no, anche nel culo. Mustafà intanto, completato il carico, si guardava intorno con aria di sospetto, di timore o di incertezza: se fosse tutta una trappola, per lui potevano essere guai. Avanzai un poco verso l’uscita e sibilai un leggero fischio, si girò, mi vide e, quasi rasserenato, chiuse il camioncino e si avviò verso di me.
Lo precedetti nella camera attrezzata; quando entrò, mi prese tra le braccia e stampò sulla mia bocca un bacio a ventosa che mi aspirava perfino l’anima; risposi con gusto e gli infilai la lingua in bocca; cominciammo e giostrare con le lingue mentre tra le cosce sentivo crescere il suo cazzo ancora più imponente ed aggressivo di quando l’avevo solo visto. La libidine dell’abbraccio doveva eccitarlo al di sopra di ogni previsione, perché sentivo il cazzo crescere a dismisura e, col movimento del suo bacino avanti e indietro, solleticarmi tutto l’interno coscia, le grandi labbra e il perineo; ero certa che, se avessi allungato la mano dietro, l’avrei sentito sbucare dalle cosce sotto le natiche; e, per constatarlo, allungai la mano e sentii l’enorme cappella. Sollevai la falda posteriore della gonna finché le mie dita incontrarono il calore del cazzo; spinsi sotto la cappella per farla aderire al culo e la sfregai sull’ano; Mustafà sollevò la falda anteriore della gonna e il cazzo si trovò ad immeditato contatto con la folta peluria della mia figa: naturalmente, non avevo messo mutande. Quando ebbi il cazzo completamente piantato fra le cosce e strettamente accostato alla figa, lui riprese il movimento di scopata.
Le grandi labbra, sollecitate, cominciarono a produrre umori da orgasmo; il clitoride, gonfiandosi, si trovò strusciato continuamente dal cazzo che si muoveva e mi provocò ancora altre sensazioni di orgasmo; aspettavo da un momento all’altro la grande sborrata conclusiva. Ma lui non era disposto a concludere in fretta. Per tutto il tempo non aveva smesso di baciarmi, ricambiato con la stessa intensità; a quel punto, però, si staccò dalla mia bocca e portò le sue labbra a ventosa su un capezzolo, appena spostando un lembo della camicetta; mi succhiava il capezzolo come se davvero dovesse estrarre il latte per la sopravvivenza; e qualcosa mi scorreva, ma dalla figa sul suo cazzo e poi giù lungo le gambe, tanto era abbondante. Vide alla mie spalle il letto e mi ci portò sollevandomi di peso: mi adagiò sulla coperta, mi divaricò le gambe facendomi appoggiare i piedi sulla stessa coperta, si inginocchiò ai piedi del letto e le sue labbra si posarono direttamente sulle grandi labbra della figa: fu un bacio aspirante difficile da raccontare; leccava, succhiava, mordeva e poi tornava a leccare, succhiare mordere; prese tra le labbra il clitoride e lo aspirò profondamente nella bocca: il clitoride lo seguì accompagnato dal mio urlo che segnalava il primo grande orgasmo.
Ma io volevo il cazzo in figa: per questo lo avevo sedotto; “Mettimelo dentro.” Non so neppure io stessa se fu un’implorazione o un ordine. Si alzò, allentò la cintura e fece cadere a terra i pantaloni portando in luce il suo monumento a Priapo, un’asta immensa, lucida, tesa, dritta; accostatosi al letto, mi spennellò la figa con la cappella, a lungo, finché non sborrai di nuovo e bagnai il suo cazzo e le mie cosce. Sollevandomi di peso, mi spostò verso la testata, salì in ginocchio sul letto, si collocò fra le mie gambe, appoggiò la cappella alla figa e cominciò a penetrarmi. Le fibre della mia vagina reagivano bagnandosi a mano a mano che quel mostro le invadeva obbligando il canale ad allargarsi al limite della capienza per riceverlo; quelle che non erano già state coinvolte esplodevano in orgasmi nuovi; e il cazzo scivolava così lentamente dentro di me finché raggiunse l’utero. Temetti che potesse farmi male; ma forse era ben allenato: quando la cappella urtò la cervice, io ebbi una reazione col ventre che lo spinse indietro, lui arretrò e cominciò a pomparmi lentamente, gustandosi tutto il percorso vaginale intorno al cazzo; io misi in moto i miei muscoli vaginali e lo carezzai sensualmente.
Ma Mustafà ancora non volve sborrare; ed io non volevo che sborrasse, non volevo che finisse il piacere. Lui si sdraiò su di me facendo aderire ventre a ventre, tette a tette, cosce a cosce: attimi di intensa libidine che si accentuava ad ogni piccolo movimento di uno dei due. “Vuoi provare qualcosa di più?” mi chiese, accennai di si con la testa. Si sollevò e scese dal letto; si collocò ai piedi e mi tirò verso il bordo; mi prese per le caviglie e si portò i miei piedi all’altezza del collo; prese in mano il cazzo e lo diresse fra le mie cosce; non capivo cosa stesse per fare ma ero curiosa ed eccitata anche dall’incertezza; quando la cappella sfiorò l’inguine, la diresse decisamente all’ano: capii che voleva incularmi da quella posizione e, ancora una volta, provai un certo timore. “Non preoccuparti. Farò piano.” Mi rassicurò. Sentii la cappella premere con forza e continuità sullo sfintere che reagì serrandosi con forza; mi ricordai i suggerimenti e spinsi come per defecare, lo sfintere si allentò e la cappella entrò quasi del tutto, “Attenzione!” suggerì lui e, con una spinta, fece passare la cappella oltre lo sfintere; soffocai un grido di dolore; un attimo dopo il culo mi mandava segnali di goduria mai provata e la violazione delle sfere più intatte delle mie viscere diventò in breve una scopata dalle enormi valenze di godimento.
Lentamente, il mio intestino veniva invaso da un mostro assolutamente imprevisto, portatore di tanto piacere quanto non avrei saputo immaginare. Con mia somma meraviglia, tutto il canale rettale sembrava quasi predisposto a ricevere quel cazzo; ed io cominciai a giocare coi muscoli interni per godermelo; manovrandoli sapientemente, sembrava quasi che gli facessi un pompino dal culo. E intanto sentivo caricarsi quell’orgasmo anale che non sempre è consentito di provare ma che io avevo già conosciuto e potevo quindi individuare anche adesso. “Sto per sborrare col culo.” Mi sentii in dovere di avvertirlo. “Anch’io sto per sborrare … nel tuo culo.” Per quello che potevo, lo abbracciai con le gambe per indicare la mia solidarietà. Esplodemmo insieme, in un orgasmo violento, quasi animalesco, nel quale lui mi inondò completamente le viscere di sborra ed io squirtai bagnandolo tutto non so più se di umori o di orina. “Adesso stai calma perché, quando lo tirerò fuori, potresti sentire dolore.” Mi avvertì, strinsi i denti preparandomi al colpo; ed effettivamente mi sentii squarciare le budella quando la cappella uscì dall’ano; subito dopo un vento freddo mi entrò nel corpo, quasi che fossi stata privata di qualcosa. E in verità mi sentivo quasi vuota, senza quel cazzo nel culo.
Mustafà prese dei fazzolettini e si pulì sommariamente il cazzo e il ventre; me ne diede un pacchetto perché mi pulissi anch’io. “Come è stata l’esperienza?” mi chiese sornione “Meravigliosa!” gli dissi sinceramente. “Peccato che non potrà avere nessun seguito!” sentii un che di rammarico nella voce e guardai con aria interrogativa. “A parte che comunque sarebbe troppo pericoloso continuare a fare sesso con te, mi hanno avvisato che non devo più tornare, se non voglio rischiare di brutto.” “Mi dispiace!” potei solo commentare. Con un delicato bacio sulla guancia, mi lasciò ed uscì dalla stanza. Impiegai un po’ di tempo, a ricompormi, con lo sfacelo che avevo fatto degli abiti rimasti sotto per tutto il tempo e, soprattutto, con il mio culo che adesso cominciava a dolermi sul serio; la figa, invece, sembrava aver assorbito benissimo la violenza scopereccia. Tornai canterellando a casa.
Quando ero costretta a trascorrere in casa intere mattinate o tutto un pomeriggio, l’unica attività che mi desse piacere era andare sul terrazzo in cima all’edificio con le più banali incombenze (stendere il bucato, conservare nel nostro sgabuzzini oggetti disusati, mettere a posto qualcosa, insomma qualunque piccolo lavoro utile per la casa), anche perché ne approfittavo per prendere un po’ di sole (quando l’occasione era favorevole anche con nudo integrale) e, soprattutto, spaziare con lo sguardo intorno e curiosare sulla vita del paese. Quel mattino, dopo aver sistemato degli utensili, mi soffermai alla balconata e girai lo sguardo intorno: mi colpì un luccichio che veniva dalla parrocchiale; aguzzando lo sguardo, mi resi conto che da un balcone della zona interdetta (era quasi cadente) una persona che stentavo a riconoscere stava spiando col binocolo verso il basso: seguendo la linea di visuale ideale, capii che stava spiando i bagni dell’oratorio, che avevano i tetti scoperti (per lavori ancora da decidere) e in cui era possibile osservare le signore che espletavano le loro funzioni corporali esponendo le intimità. Mi sforzai ancora di individuare l’autore della trovata, e scoprii con somma sorpresa che si trattava del nipote del parroco, un ragazzo di sedici/diciassette anni venuto da poco a passare qualche settimana con lo zio perché i suoi erano in viaggio, non si sapeva bene se di lavoro o di piacere. Il diavoletto che in me non si fermava mai mi suggerì che la scoperta poteva prestarsi per lo meno a uno scherzo feroce nei confronti del “forestiero” un po’ sulle sue che tutti speravano di veder umiliato anche se, in verità, suscitava intorno a sé molta simpatia.
Detto fatto, mi precipitai in strada diretta all’oratorio e al nuovo divertimento. Appena giunta, mi guardai attentamente intorno, ma non vidi nessuna traccia del nipote del parroco; intuii che forse era ancora a godersi lo spettacolo. Mi diressi allora ai bagni e scelsi il gabinetto che, a occhio e croce, era il più direttamente esposto alla vista dello spione; entrata, mi tolsi la gonna apparendo nuda dalla vita in giù; e mi sfilai anche la camicetta apparendo in tutta la mia prorompente nudità; sapevo di avere un corpo da urlo e cominciai a sottolinearlo carezzandomi le tette e insistendo sui capezzoli duri come chiodi; mi lisciai le natiche rotonde e piene come una scultura antica, girai anche il culo verso il suo punto di osservazione e indugiai a lungo per farlo godere della vista: sicuramente si stava sparando una delle seghe più belle della sua vita. Completai l’esibizione titillandomi a lungo le grandi labbra e masturbandomi il clitoride come fosse un cazzo; e in ogni gesto facevo in modo che la parte interessante fosse esposta alla sua vista; contemporaneamente con gli occhi e con la bocca lanciavo sguardi e smorfie ammiccanti, che sicuramente vedeva e interpretava.
Di colpo, smisi, mi rivestii e tornai nella sala comune; ma del ragazzo nemmeno l’ombra. Ritenendo che fosse ancora impegnato a masturbarsi con calma, forse anche con la visione di un’altra figa in bagno, mi diressi alla scala che portava ai piani interdetti per lavori. Con mille precauzioni salii le due rampe di scale ed entrai in una sala ben conservata: ad uno dei balconi vidi il ragazzo alle prese con il suo cazzo che manipolava con intensità quasi rabbiosa. Mi colpì molto la conformazione dell’organo, lungo e sottile con un’ampia cappella in cima: niente di eccezionale e nemmeno paragonabile ai cazzi che nell’ultimo mese avevo frequentato; ma la freschezza giovanile che emergeva già solo alla vista e l’esilità complessiva del corpo (compreso il cazzo, naturalmente) mi scatenarono un moto di piacere che si trasformò subito dopo in voglia di sesso. Gli arrivai alle spalle in silenzio e lo feci sobbalzare “Non credi che sia sprecato farlo da solo?” Mi guardò quasi impaurito, temendo forse una mia denuncia allo zio prete con le imprevedibili conseguenze. “Stai calmo!” suggerii “Non voglio fare niente di male; solo, mi piacerebbe partecipare al divertimento.” “Ma … tu … sei quella … “ balbettò “
Si sono quella che poco fa si masturbava per te nel cesso. L’ho fatto apposta per continuare con te qui.” Sembrava incapace di connettere e mi guardava stralunato. Afferrai decisa il suo giovane cazzo e presi a masturbarlo: mi inteneriva la dimensione limitata della circonferenza, che stringevo agevolmente con la mano, e la consistenza serica della carne che mi trasmetteva alle mani uno strano calore che passava direttamente dalla figa al cervello e tornava alla figa che si bagnava senza che neppure la toccassi. Mandai la mano avanti e indietro per un po’ godendo dell’asta che si gonfiava nella mia mano “Non restare impalato!” lo rimproverai “fai qualcosa anche tu!” “E … cosa posso fare?” Lo guardai feroce, presi la sua mano e me la infilai sotto la gonna, direttamente nella figa. Sembrò risvegliarsi dal sogno e prese a masturbarmi con maggiore sapienza di quanto mi aspettassi: in breve, colavo umori dalla figa come un rubinetto spanato. “Cavolo, sei proprio bravo: chi ti ha insegnato?” “Mia mamma” disse in un soffio e, di fronte alla mia faccia decisamente sbalordita, proseguì “mio padre non è mai con noi e mamma dice che, piuttosto che far entrare un estraneo nella sua vita, preferisce fare con me le cose che le servono.”
“Ma allora le fai tutto?” accenno di si con la testa “la lecchi, la masturbi, te la scopi?” ogni volta accennava di si con la testa “Te la inculi?” Stavolta la testa segnò un no deciso “E lei te lo succhia?” Altro no “Come mai” “Ha sempre detto che ha bisogno di scopare in figa continuamente ma che nel culo ci ha provato una volta, ha sentito molto male e ha deciso di non farlo più,” “E per i pompini?” “Qualche volta li ha fatti, ma le fanno schifo e preferisce non farli.” “Ottima scuola” commentai. “Scommetto che anche spiare nel bagno lo hai imparato da lei.” Annuì ancora una volta. ”I tuoi hanno problemi grossi adesso” Fece spallucce per indicare che non era certo. “Il parroco di chi è fratello?” “Di mio padre.” “Quindi ti hanno spedito dallo zio prete per discutere del loro matrimonio?” “Non so.” E forse davvero non sapeva. Comunque non ero curiosa e passai al concreto. “Bene; evviva tua madre che ti ha educato. Tu allora datti da fare, fammi vedere come mi fai godere.” Per tutta risposta, mi abbracciò stretta, mi infilò la lingua in gola e prese a intrecciarla alla mia; premette il ventre contro il mio; io non avevo lasciato il suo cazzo che palpitava duro nella mia mano; presi a strofinarmelo sulla figa da sopra alla gonna; lui spostò lo mani sulle natiche e le strinse con voluttà.
Con la mano libera sbottonai la camicetta facendo mille acrobazie per agire nella stretta delle sue braccia; il mio seno esplose all’aperto; lui lasciò la presa sulle natiche e agguantò una tetta che prese a leccare succhiando avidamente il capezzolo ormai duro come il suo cazzo. Cominciò la sua fase orale sulle mie tette che percorse in lungo e in largo con la lingua succhiandomi a più riprese le aureole appena pronunciate e i capezzoli ben ritti. Lo lasciai fare ma intanto, sempre con mille acrobazie, sollevavo la falda anteriore della gonna e, quando la figa fu all’aperto, ci appoggiai contro il suo cazzo giovane e sottile, infilandolo tra le grandi labbra e strusciandolo sul clitoride con continue sborratine consecutive. Sentirsi colare i miei umori sull’asta accentuava la sua libidine; lasciò la presa sulle tette, mi fece girare e mi obbligò a piegarmi a pecorina; sollevò la falda posteriore della gonna e, inginocchiato dietro di me, cominciò a leccarmi culo e figa con amore e con foga quasi violenta; sentivo la sua lingua calda lambire l’ano e penetrarci per un attimo per poi uscire e continuare a leccare il perineo e le grandi labbra; sapientemente, prese in bocca il clitoride e lo succhiò come una tettarella: sborrai anche l’anima e lui bevve devotamente tutti i miei umori.
Qualche rumore giù dalle scale ci diede la sensazione che fossimo a rischio di un grosso scandalo; ma il ragazzo pareva abbastanza sicuro di se. Resami conto che in quell’ambiente non era possibile stendersi a terra senza riempirsi di sporco e di polvere, lo feci alzare in piedi, mi strinsi col culo al suo ventre, mi piegai di nuovo a pecorina, infilai la mani tra le cosce, catturai il cazzo dietro di me e diressi la cappella verso la grandi labbra: capita la mia intenzione, mi afferrò sulle anche e spinse col ventre il cazzo fino in fondo alla mia vagina. Non raggiunse l’utero e la sua piccola verga nel canale vaginale un po’ ci ballava; ma i miei muscoli vaginali erano in grado di sopperire e di fargli sentire la stretta della vagina e il calore della mia sensualità. Cominciò a pompare con passione e quasi con metodo: colpi rapidi e ravvicinati alternati ad altri lenti e distanziati; lunghe soste col cazzo ritto in figa, per godere fino in fondo il piacere del culo sul ventre; poi di nuovo, e all’improvviso, assalti violenti e rapidi. Questa alternanza imprevedibile mi scatenava violenti fiotti di umori e orgasmi più o meno intensi. Lu sembrava non fermarsi mai. “Duri parecchio!” commentai “Mia mamma mi ha fatto esercitare a non sborrare fino a che lei non mi autorizza a farlo; e mi autorizza solo quando lei ha sborrato in maniera soddisfacente.”
“E chiamala scema!” fu il mio commento; ma, soprattutto, ero felice della resistenza del ragazzo, che compensava largamente la minore consistenza del suo cazzo, peraltro ancora giovane. Decisi di portare il gioco un poco più avanti; spingendolo indietro con le mani, lo obbligai a sfilarsi dalla figa; mi staccai dalla sua presa, mi girai e mi accovacciai sui calcagni; presi in bocca il cazzo che era ora all’altezza giusta e lo succhiai verso la gola fino all’ugola; mi fermai per non avere conati; presi a masturbare il cazzo con le labbra facendolo andare avanti e indietro nella bocca e spingendolo, per precauzione, contro la guancia: sentivo il suo corpo irrigidirsi e temetti che potesse sborrare all’improvviso, senza neanche avvisarmi. Decisi di interrompere il pompino; mi alzai e mi chinai di nuovo a pecorina; infilai di nuovo la mano tra le cosce, presi il cazzo che ora grondava di umori e di saliva e spostai la cappella verso l’ano; lo sentii irrigidirsi per un attimo, poi si rilassò e diede una piccola spinta col bacino; mi allargai con le mani le natiche e portai l’ano in piena evidenza; spinsi anche io col culo cercando di dilatare lo sfintere dall’interno; la cappella delicata e non immensa sembrò valicare agevolmente la strettoia dello sfintere e sentii l’asta scivolarmi nel retto; la accompagnai con le contrazioni dei muscoli, quasi una carezza masturbatoria dall’interno; lo sentii gemere dolcemente e capii che l’esperienza nuova lo inebriava.
“Da questo momento, puoi sborrare dentro in qualunque momento; basta solo che un attimo prima mi avverti e sborriamo insieme”. Dalla mia posizione non potevo guardarlo in viso; ma ero certa che avesse gli occhi spiritati di chi ha toccato un cielo sempre sperato, spesso intravisto ma mai ottenuto: senza contare, poi, che il mio culo era particolarmente bello, sodo, ben disegnato e assai accogliente. Non passò molto tempo che lo sentii ansimare “Sborro … sborro … oh, mio Dio, sbooooooorrooooooo!!!!!!!” Picchiai con violenza sul clitoride e lo tormentai con foga finché l’orgasmo mi esplose da dentro il ventre e si dilatò fino al cuore e al cervello “Vengo … vengo … venngoooooooooo!!!!!!” urlai a mia volta quasi all’unisono. Non ebbe bisogno di attendere molto, prima di sfilarsi dal culo: appena si furono rilassati i muscoli del retto, l’asta scivolò via libera; io invece dovetti sollevare la gonna e accosciarmi per scaricare a terra il volume di sborra che mi aveva caricato nel retto; insieme, svuotai anche la vescica di un po’ di urina; e forse anche un po’ di cacca, stimolata dall’inculata, scappò fuori insieme. Il ragazzo, intanto, si era rapidamente defilato ed era sceso nella sala comune.
Non avendo di che darmi almeno una rapida pulita superficiale, fui costretta a tenermi sporco il basso ventre finché non raggiunsi i bagni ed usai la carta igienica per darmi una veloce rassettata. Quando feci la mia comparsa nella sala dove si preparavano i festoni, una delle fresche spose mi diede di gomito e sussurrò “Hai visto Fernando?” “Fernando chi?!?!” ero veramente basita. “Il nipote del parroco!” sembrava scandalizzata che non conoscessi il nipote del parroco. Ed io scoprii invece che solo adesso, dopo una enorme scopata, conoscevo finalmente il suo nome: lui, peraltro, forse non conosceva il mio o forse l’avrebbe appreso allo stesso modo, per un intreccio di pettegolezzi.
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