Mi chiese allora di fare un giro in macchina e ci recammo nella vicina città, all’albergo che mi aveva indicato; si limitò a parlare con il direttore, al quale mi presentò come socia; il direttore mi ammirò a lungo dalla testa ai piedi (avevo indossato uno egli abiti regalatomi da Hans ed ero un vero spettacolo), si complimentò e chiese se facevo parte integrante dello staff: Anna gli rispose di si, ma che per strane idee bisognava aspettare tempi opportuni. Mi suggerirono, ogni volta che andava in quel’hotel, di limitarmi a dire. “Sono Lara”; il portiere di turno mi avrebbe indicato il numero di una stanza e lì avrei trovato il cliente. Anna chiese della prenotazione per la serata e, avutane conferma, mi riportò a casa, dove mi lasciò a riposare qualche ora, avvertendomi che prima di uscire passassi a prendere il vestito d adolescente che avrebbe preparato. Riposai saporitamente per oltre tre ore, fino a sera, poi mi infilai nella doccia per uscirne fresca e profumata; con addosso la sola vestaglia, saii al sesto piano, bussai ed entrai in casa di Anna che mi aveva già preparato, sul lettone, la gonna scozzese a quadroni rossi, la camicetta bianca coi bottoncini di madreperla, i calzettoni bianchi e i sandali “con gli occhi” come li ricordavo; a fianco, una mutandina a culotte e un reggiseno, tutti e due in trina elegantemente traforata. Mi fece indossare il tutto e vidi nello specchio il riflesso adulto di me piccola e lentigginosa. Mi emozionai un poco, a rivedermi in quella veste.
Anna mi accarezzò con affetto, mi fece sedere al mobile da toilette con pochi colpi di spazzola mi creò due ciocche separate di capelli e le organizzò in due treccine che fermò ai lati del viso; con pochi tratti di maquillage mi diede un viso angelico dallo sguardo demoniaco, la classica ragazzina ingenua e attizza cazzi, figliola adorabile e puttanella da sbattere. Alle fine del lavoro, Anna sembrò molto soddisfatta di quanto fatto ed io sculettai allegra per tutta la stanza facendo boccacce e mugolii di fanciulla candida e arrapata. Anna mi chiese se preferivo muovermi con la mia auto o cercarmi soluzioni alternative. Scelsi la mia auto, per essere libera di ritornare di corsa a casa, prima del rientro del cornuto. Solo in quel momento mi resi conto che, per una volta, non aveva telefonato, mi aveva risparmiato una nuova incazzatura e si era risparmiato altre invettive che stavolta non sarebbero state neutre né tiepide. Impiegai più di mezz’ora per raggiungere la città vicina e trovare l’hotel, dove entri tra gli sguardi di meraviglia dei pochi avventori: alla reception, mi limitai a dire il nome; “506; quinto piano.” Mi sussurrò il portiere e mi indicò l’ascensore. Salii al piano e trovai la camera; bussai delicatamente e mi rispose “avanti” una voce cavernosa; aprii discretamente uno spicchio di porta e con voce bambinesca e canterina, cinguettai. “Posso, paparino?” “Vieni avanti, ragazzina indisciplinata!” mi ordinò la stessa voce imperiosa. Cominciava così la mia nuova recita.
Tutto il dialogo della serata fu una sceneggiata tra una bambina seducente e maliziosa che provocava il paparino severo, al punto da rifilare qualche volta anche un delicato scapaccione, una carezza sul culo più che altro, m anche superarrapato che non mancava di appoggiare il suo cazzo duro (ma non eccessivamente grosso) su qualunque parte raggiungesse del corpo della sua “bambina”; qualche volta mi stendeva sulle ginocchia per sollevare la gonnellina e carezzare il culo da sopra le mutande, mentre il cazzo si ingrossava sulla fighetta costretta sul suo inguine dalla posizione; altre volte mi obbligava a lasciarmi stringere in maniera da sentire il cazzo in mezzo alle cosce, oltre la gonna e le mutande; oppure mi faceva appoggiare sulla patta il viso e la bocca con l’evidente desiderio di farsi spampinare. Per mia fortuna, colsi che desiderava che prendessi arbitrariamente l’iniziativa (proprio come la ragazzina che sognava), mi aggrappai al cazzo, lo liberai dal pantalone e lo strinsi nelle mani segandolo in maniera impacciata. Mi rimproverò la sfrontatezza; poi, quasi per favorire la mia perversione, mi insegnò a manipolarlo per una buona masturbazione. Lo lasciai fare e così fu anche per i passaggi successivi finché me lo infilo in bocca e mi chiese di fargli un pompino spingendo la cappella fino all’ugola. Lo accontentai e ci misi tanta buona volontà che sborrò quasi immediatamente.
Si distese sulla poltrona, mentre o mi andavo a sdraiare sul letto, togliendomi le scarpe ma lasciandomi tutto addosso. Dopo che si fu ripreso, venne sul letto accanto a me e cominciò a giocherellare con le mie tette ancora coperte la mia figa ancora sommersa da gonna e mutande. Per un tempo quasi lunghissimo giocò a chiedermi, con voce querula e lacrimosa, di fargli toccare per favore sempre di più, srotolandomi i calzettoni e sfilandomeli per leccarmi i piedi dalle dita su vero le ginocchia e, attraverso le cosce, fino alla figa. Ammetto che il gioco mi coinvolgeva e mi affascinava: non contai neppure il numero di piccoli orgasmi che la sua lingua stimolò lungo il percorso dai piedi alla culotte; a quel punto, fui io che presi l’iniziativa e, proponendomi con fanciullesca arroganza, mi sfilai la gonna per non farla gualcire e la poggia delicatamente sulla poltrona; sull’onda dell’entusiasmo della mia iniziativa, mi sfilò delicatamente la camicetta, aprendo i bottoncini uno d uno con il solo uso della bocca e dei denti. Quando fu tutta aperta, la sfilò via e la poggiò sulla poltrona mentre mi accarezzava la schiena e il seno da sopra al reggiseno. Poi mi pose a sedere, ancora coi denti sganciò il reggiseno, raccolse le coppe tra le mani e depositò l’indumento sulla poltrona.
Da quel momento sembrò infoiarsi in maniera irresistibile e l limite quasi della violenza, ma senza mai eccedere. Mi leccò tutta. dalla punta dei capelli al bordo superiore delle culotte; mi succhiò le aureole e i capezzoli fino a scatenarmi piccoli orgasmi; mordicchiò, assaporò, palpò, maltrattò e divorò tutte le mie tette; poi si scatenò sulla culotte che in un attimo finì sulla poltrona col resto. Da quando la figa gli apparve in piena evidenza, si trasformò in un amante instancabile: senza mai smetterla di chiamarmi piccola mia, amore mio, bambina mia, figlia mia, mi fece sentire il cazzo in tutti i punti della pelle, in lungo e in largo finché arrivò alla vulva e , di colpo, mi penetrò. Per conto mio, dovevo continuare a chiamarlo ad ogni piè sospinto ed elogiare il suo pisellone che mi dava tanto piacere sulla farfallina, sulle tettine, dovevo descrivere con il linguaggio della bambina alla prima scopata tute le mie emozioni ad ogni tocco nuovo del suo cazzo sul mio corpo e dentro il mio corpo. Arrivai persino a dargli la sensazione che stava sverginandomi, quando la cappella urtò il collo dell’utero e mi provocò una piccola fitta. Insomma, per tre ore e più non smise di percorrere il mio corpo con delicata violenza, accarezzandomi dappertutto e penetrandomi in diverse occasioni.
Erano passate le due quando sborrò per la terza volta, stavolta sulle tette dopo un lungo pompino, e crollò esausto quasi addormentato. Squillò il telefono; era Anna. “Alle cinque, puoi anche andare via; non ti preoccupare di niente; pagherà all’albergo che farà i conti con me. Ti fidi?” “E tu, ti fidi di me?” “Com’è stato?” “Sono la bambina più viziosa, più carina, più amabile che potesse desiderare!” “Beh, fallo godere ancora un po’ poi vai d attendere il tuo maritino, Lo merita!!!!” “Vaffa!” e riattaccai. Per mia fortuna, riposò per circa due ore e si riprese solo verso le quattro; nell’intervallo, anch’io chiuso un po’ gli occhi e mi rilassai, anche se non potei dire di aver dormito. Naturalmente, non aveva neanche aperto ambedue gli occhi che già il suo cazzo era nella mia figa: mi scopò a lungo, quella volta, e tenne quasi una conferenza colta sull’incesto come necessità naturale e storica a cui si dava poco valore. Celebrò a lungo la bellezza di scopare una ragazzina come me, appena pubere ma tanto desiderosa di assaggiare il cazzo paterno e di saziarsene a vita; e intanto pompava con passione. Ogni tanto partecipavo ai suoi deliri e mi divertivo ad immedesimarmi nel ruolo della figlia spudorata di fronte al padre amato e fortemente desiderato: erano i momenti in cui si eccitava di più e avrebbe sborrato, se non fosse stato quasi completamente scarico.
Era ormai l’alba ed io fremevo dalla voglia di tornare a casa. Gli chiesi se non fosse stato troppo per lui, avere quattro orgasmi in una notte; mi disse che ancora una volta voleva riempirmi del suo seme per cementare il suo amore di padre; mi chiese di succhiargli il cazzo per rafforzarlo e lo feci; quando fu veramente duro, si stese tra le mie cosce e lo infilò delicatamente in figa; Gli strinsi le cosce intorno ai fianchi e lo feci entrare tutto, fino in fondo. Prese a montarmi e impiegò qualche tempo, ma alla fine sentii che si irrigidiva tutto, si tendeva e alla fine sborrava rilassandosi di colpo: per evitare di vedermelo piombare addosso, scartai di lato e lo feci crollare sul letto a fianco a me. Dopo pochi minuti, lo sentii che ronfava addormentato, scesi dal letto e andai in bagno; mi ficcai sotto la doccia e mi rinfrescai, lavandomi di dosso anche il sudore mio e suo, gli umori miei e la sborra che mi aveva sparso dentro e sopra tutto il corpo; mi insaponai per bene e cercai di riportare la figa ad una visibilità normale; usai anche crema emolliente per attenuare l’arrossamento che la lunga seduta di sesso aveva provocato. Mi asciugai accuratamente con un accappatoio molto soffice; raccolsi i miei indumenti dalla poltrona e, fortunatamente, riuscii a rivestirmi esattamente come ero, perché niente era stato rovinato. Uscii silenziosamente e chiusi la porta dietro di me.
Il portiere mi avvertì che tutto era in ordine e che la mia macchina era sul piazzale con le chiavi dentro; appena uscita, respirai a pieni polmoni e raggiunsi l’auto. Mi sentivo soddisfatta, in fondo; ma solo per avere fatto bene il mio nuovo vero lavoro. Andai direttamente a casa e mi fiondai a letto. Ma era destino che dormissi solo poco e male. Mi svegliò la telefonata di Anna. “Che diavolo vuoi? Che ora è?” “E’ quasi mezzogiorno e devi mangiare qualcosa. Vieni su, pranzi con noi, ti rimetti in forma con la Jacuzzi e così sarai fresca e pimpante quando arriverà il tuo luigi con l’autostoppista che avrà raccolto a qualche chilometro da qui.” “Stronza! Adesso ci vengo lì, ma anche per mangiarti a morsi la figa e non fartela usare mai più!!!!” “No, socia! Le gighe vanno trattate con la massima accuratezza, specialmente quando sono come la tua, autentiche minieri d’oro. Ma mi spieghi poi, come fai a farli innamorati con una scopata mercenaria?” “Che dici?” “Ha telefonato il tuo paparino: non solo ha pagato profumatamente e pienamente felice, ma vuole che la sua bambina lo vada ancora a consolare della sua vita infelice con il suo tocco gentile e generoso, di mano, di bocca, di figa e, spera, anche di culo, la prossima volta.” “Andate al diavolo tu e lui. Vengo perché muoio di fame ed ho bisogno di un massaggio della tua Jacuzzi.”
Erano ormai circa le sei del pomeriggio e, dopo pranzo e massaggio, ci eravamo crogiolati nel piacere di un liquorino leggero e di tanto caffè ristoratore, quando arrivò la telefonata del cornuto. ”Ciao, sono in sede; tra mezz’ora ci vediamo a casa e ti porto tanto amore.” “Va bene, lo aggiungerò a quello di cui sono piena da distribuirlo in giro!” Scesi al mio appartamento e avvertii Anna che non progettasse niente finché non avessi dati certi sulle prossime destinazioni di viaggio di Luigi. Dopo mezz’ora, mio marito bussò alla porta e, timidamente, entrò quasi nascondendosi. “Che ti succede? Perché ti nascondi?” Non riusciva a spiaccicar verbo. In quel momento si affacciò Anna. “Scusa, avevi lasciato qui la borsetta.” “Puoi portarmela giù? Ho bisogno di un testimone.” Scese con aria preoccupata. “Allora, maritino bello? Che mi devi dire?” “Qui? Davanti ad estranei?” “Anna non è un’estranea. Parla!” “Beh, la danese che sai … non mi aveva detto … che aveva …” “Che cazzo aveva questa danese?” “… lo scolo!” “Perfetto. Quando riparti?” “Martedì, sempre sulla rotta del nord e sempre fino a domenica.” “Bravo; così ti fermi solo due giorni. Anna, per lavare indumenti infettati dallo scolo, si può fare qualcosa?”
“Per sicurezza, quegli abiti e tutti quelli che aveva in viaggio vanno bruciati; la cabina e la cuccetta vanno disinfettati, ma lo deve fare la ditta per non infettare altri autisti. A lui puoi far fare una doccia e fornirgli abiti nuovi. Poi deve andare a dormire fuori della tua casa e non ripresentarsi fino a quando non avrà un certificato che ha superato la malattia. Così com’è è un pericolo e se ti fai infettare lo diventi anche tu.” “Bene, ragazzino, spogliati nudo e metti tutti i tuoi abiti in questo sacco nero; vai diretto alla doccia senza toccare altro. Quando avrai finito userai il tuo accappatoio che poi metterai nello stesso sacco nero e di vestirai con tutto nuovo; poi sparisci, passa questi due giorni in azienda, dove ci sono posti letto o, meglio, passali in ospedale dove ti fai anche curare; poi parti e spera in dio che un giorno, guarito, tu possa tornare qui e trovarmi ad aspettarti … da sola!” “Perché da sola?” “Perché potrei cercare anche una nuova compagnia, in tua assenza.” “… Ma …” “Stronzo! Ti muovi allora o chiamo il pronto soccorso e ti faccio ricoverare?” “Vado, vado.” E comincia a spogliarsi.
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