È qualche tempo che ho iniziato a rispondere ad annunci di lavoro e a fare colloqui, perché voglio provare a dare una raddrizzata alla mia vita, allontanarmi dal mio passato e correre a braccia aperte verso il mio futuro con Luca. Ho bisogno di un lavoro, anche poco retribuito, per mantenermi e vivere serenamente insieme a lui.
Fino a poco fa fantasticavo di ville lussuose nelle quali sarei andato a vivere, facendo il toy-boy di qualche miliardario, ricoperto di soldi e gioielli. Oggi sogno un lavoro dal lunedì al venerdì, per poter avere il week-end da dedicare al mio uomo, io e lui soli, a dormire abbracciati in un letto da qualche parte in giro per l’Italia o all’estero, o anche solo a casa nostra, col mondo fuori che dorme insieme a noi.
Nel frattempo, però, ho bisogno di guadagnare qualche soldo per continuare a far credere a Luca di avere un lavoro e pagargli il subaffitto.
Potrei dirgli di essere stato licenziato, ma poi comincerebbero tutte le preoccupazioni sul come andare avanti, sui soldi che non bastano per arrivare a fine mese e, sinceramente, vorrei risparmiare a me e a lui tutto questo.
È così che ho iniziato a selezionare i clienti più generosi, ma per questo anche più esigenti, per riuscire a guadagnare tanto in poco tempo e avere la possibilità di continuare a fare colloqui di lavoro.
La proposta del poker è arrivata nel modo più classico. Uno dei commensali che aveva mangiato su di me al banchetto dei maialoni, rimasto ben impressionato dalla mia performance, si è fatto dare il mio numero e mi ha contattato. Ha parlato solo di venire a fare un po’ di compagnia e a far stare bene i giocatori, senza specificare di più.
Sono arrivato all’appuntamento con un bel po’ di anticipo e una certa tremarella. Fino a qualche tempo fa mi sentivo invincibile e affrontavo tutte le situazioni, anche le più estreme, con la filosofia del fanculo. Fanculo tutto e tutti, comando io e niente potrà succedermi. Mi accorgo di stare cominciando a rammollirmi.
Sono arrivato davanti a quel bel palazzone moderno con mille piani, in un quartiere benestante. All’ingresso il portiere, un uomo grassoccio e dai modi spicci, mi ha chiesto dove dovessi andare e gli ho spiegato che mi attendeva tal de tali. Ha fatto un’espressione un po’ scocciata, come a dire di aver capito l’antifona, alzando gli occhi al cielo e sbuffando sotto i baffi cisposi. “Ottavo piano, scala B”, si è limitato a dire, voltandomi subito le spalle.
L’appartamento era luminoso, con un salone open space, come vanno adesso, tutto nei toni del bianco. Un cameriere di colore mi ha offerto da bere, e, senza che nessuno mi mostrasse particolari attenzioni, mi sono andato a sedere sul divano in mezzo agli uomini. Alcuni ricordavo di averli visti alla cena, altri mi erano completamente estranei. C’era anche una trans, che non faceva altro che ridere sguaiatamente e mi lanciava occhiatacce insofferenti di sfida.
Hanno continuato a chiacchierare beatamente dei cavoli loro, come se io non ci fossi, a bere Whisky o quello che era, ridendo come degli scemi di ogni battutaccia che a turno facevano, spizzicando le tipiche schifezze da aperitivo che si mangiano in queste occasioni. E più ridevano, e più restavo perplesso di cosa ci trovassero di così divertente in quello che dicevano.
La serata è proseguita più o meno così, io mi sentivo sempre più un pesce fuor d’acqua, fino a che, tutto d’un botto, hanno annunciato che era arrivata l’ora della partita.
Quasi all’unisono hanno tutti girato lo sguardo verso di me, come un gruppo di lupi affamati che si accorgono all’improvviso che un agnello si è intrufolato tra di loro. Si sono alzati dai divani per dirigersi in un’altra stanza, con il padrone di casa che con il viso mi ha fatto cenno di seguirli.
C’era un lungo tavolo verde da gioco al centro di una stanza tutta sui toni cupi del nero, interrotto qua e là da elementi rossi che si stagliavano conferendo al tutto un che di eccentrico e vagamente peccaminoso.
Si sono seduti, ma tutti continuavano a fissarmi, come aspettandosi qualcosa, fino a che il padrone di casa mi si è avvicinato e, conducendomi per un braccio un po’ in disparte, mi ha spiegato le regole del gioco, e, soprattutto, il motivo del mio essere lì.
“Funziona in questo modo. Noi giochiamo a carte, a un gioco che somiglia vagamente al poker, ma che non c’è alcun bisogno che tu conosca. Alla fine della manche, uno dei giocatori perderà e a quel punto tu dovrai entrare in azione. Ti andrai a inginocchiare ai piedi dello sconfitto, che si slaccerà i pantaloni e t’infilerà l’uccello in bocca. A quel punto tu gli farai un pompino colossale, fatto come solo tu sai fare. Chi ti verrà in bocca sarà salvo e rientrerà nel gioco. Chi non dovesse riuscirci, perché non gli si rizza il cazzo, o magari perché è spompato per avere perso troppe volte, sarà eliminato.”
Ne avevo sentite tante in vita mia, ma questa ancora mi mancava.
Sono rimasto di sasso, con la bocca aperta, la stessa bocca che avrei aperto per il resto della serata. In automatico, senza neanche pensarci, ho iniziato a fare ginnastica con le mandibole, immaginando già il dolore.
D’un tratto mi è venuto di chiedergli se avessero intenzione di usare il preservativo, ma so bene come finisce con quella gente. Se gli dai noia, ti ritrovi in un attimo fuori dalla porta con un calcio nel culo, e allora non ho detto niente, confidando nel loro buon senso. Avevano quasi tutti la fede al dito, saranno stati anche padri di famiglia.
La partita è cominciata in sordina, senza particolari entusiasmi, in una strana atmosfera di silenzio.
Man mano che il primo giro di carte andava avanti, la tensione era palpabile, ma non mi era chiaro se sperassero di vincere o di perdere, visto il trattamento che toccava allo sconfitto di turno.
Io me ne stavo seduto su uno sgabello a un angolo del tavolo, come un pappagallo muto sul trespolo.
Il padrone di casa, prima di farmi accomodare, mi aveva sbottonato un po’ la camicia, lasciandomi parzialmente a torso nudo.
Non succedeva niente, mi stavo quasi auto-ipnotizzando a guardare quello stano gioco silenzioso, quando ecco che un brusio generale ha accompagnato una gettata di carte di uno dei giocatori. Tutti hanno ridacchiato e si sono all’improvviso ravvivati.
“Hai perso, Giovanni!”
Aveva perso Giovanni, un bell’uomo alto e slanciato, giovanile nonostante i capelli brizzolati. Giacca, camicia, jeans e scarpe da tennis, il classico imprenditore rampante milanese. Uno da cui avrei volentieri accettato la corte, ma in quel momento non riuscivo minimamente a soffermarmi su quanto fosse attraente.
Giovanni si è guardato intorno, come a cercare conforto e complicità dagli altri, ma quelli non erano proprio intenzionati a dargliene.
“Dai Giovanni”, è intervenuto il padrone di casa, indicandogli alle mie spalle, “sul trono.”
Mi sono girato e ho visto che, senza che me ne rendessi conto, era stata portata una poltrona alle mie spalle, addossata al muro. Kitschissima, con i braccioli e tutto il contorno della spalliera dorati. Sembravano i mobili che fanno vedere al telegiornale, quando fanno una retata a casa di qualche boss della mafia, o in casa di quei Rom all’apparenza nullatenenti, ma che in realtà hanno i lavandini del bagno d’oro e cristalli Swarovski.
Ai piedi del trono c’era un cuscinetto di velluto rosso, come il tessuto della poltrona, evidentemente riservato a me.
Giovanni si è seduto e, in quella posizione, era ancora più bello.
D’un tratto mi sono sentito come sospingere verso il trono dagli sguardi impazienti di tutti e, senza che qualcuno me lo dicesse, sono andato a inginocchiarmi. Lui si è rialzato in piedi, ha slacciato la cintura e si è abbassato calzoni e boxer, per poi risedersi.
Con mia sorpresa, e non solo mia a giudicare dalle risatine, ho visto un affare moscio che pareva un pesce morto sul banco di un pescivendolo. Mi è venuto spontaneo girarmi verso gli altri, che a quel punto hanno preso proprio a ridere di gusto.
Non so chi lo abbia provocato, “Che fai Giovanni, ti autoelimini così, senza neanche provarci?”
Lui allora, sentendosi ferire nell’orgoglio, mi ha rigirato la faccia verso di lui, intimandomi, con voce autoritaria ma anche agitata, “Lecca!”
Con una mano mi ha abbassato la testa verso il suo pacco, comandando di nuovo “Lecca!”
Niente preservativo. A questo punto era chiaro.
A ritmo prima lento, e poi sempre più rapido, la mia lingua ha cominciato a passare e ripassare sul suo arnese scarico, fino ad arrivare all’attaccatura del cazzo, tanto che in breve ho iniziato a sentire dei peli in bocca che mi davano fastidio, ma non ho provato neanche a toglierli, per non contrariarlo.
Le dita in testa mi stringevano forte, iniziando anche a farmi un po’ male.
Quando pensavo che avrebbe gettato la spugna, ho cominciato a sentire che qualcosa si inturgidiva ed ecco che, di lì a poco, il suo cazzo svettava come una bandiera all’adunata. Non era tanto largo, ma piuttosto lungo e duro. Gli altri ridevano ancora più forte.
Senza che me lo dicesse, me lo sono infilato in bocca, prendendo a pomparlo come solo io so fare. Per un attimo ho temuto che se non fosse venuto se la sarebbero presa con me. È così che ho deciso di passare subito alle maniere forti. Ho una tecnica infallibile per far venire subito anche i più tenaci, ed è quella di esercitare una particolare pressione sulla cappella, schiacciandola tra la lingua e il palato in una morsa del piacere. Vado morbido con l’asta, che tanto è poco sensibile, e poi ecco che stringo sulla cappella con la mia morsa morbida ma implacabile, attento a stringere quel tanto e non più, per evitare di fare male.
È stato così che, pompa che ti ripompa, in breve mi è esploso in bocca nel modo più teatrale, con un urlo di dolore che pareva che gli avessero dato una coltellata.
“Non hai fatto finta, vero Giova’?” qualcuno ha provato a buttarla lì.
Lui allora, a riprova del suo eroismo, senza tanti complimenti, facendomi anche un po’ male, mi ha girato la faccia verso di loro, a far vedere la sborra che ancora mi colava dalla bocca. Con un ultimo gesto di prepotenza, come se gli avessi fatto un affronto, mi ha passato l’indice sul mento, raccogliendo i resti di quello che rischiava di sprecarsi, e me lo ha rinfilato in bocca, alzandosi poi risoluto per tornarsene a posto, tra l’applauso generale che gli altri a quel punto gli hanno tributato, continuando a ridere di gusto, ma ormai al mio indirizzo.
So che sembra assurdo, ma di tutta quella serata allucinante, quello è stato il momento in cui mi sono sentito peggio. Non che mi aspettassi un ringraziamento o una carezza sulla testa, ma quel dito in bocca mi ha umiliato come poche volte in vita mia.
Il padrone di casa, evidentemente soddisfatto di me, mi ha detto “Vai a vomitare, se vuoi, perché ne berrai tanta stasera.” Io stavo per piangere, ma mi sono fatto forza e sono rimasto lì impietrito, senza dire una parola.
“Torna sullo sgabello, allora”, è stato l’ultimo comando che mi hanno impartito, prima di rimettersi a giocare.
È in quella serata interminabile che ho deciso che era l’ultima volta. In passato li avrei sfidati, io da solo contro tutti, divertendomi anche a farli fallire uno dopo l’altro, tanto so bene come far o non far venire un uomo a mio piacimento. Ma adesso tutta la mia stronzaggine era sparita. Pensavo a Luca e mi veniva da piangere. Guardavo quei porconi libidinosi e mi parevano di una razza diversa dal mio dolce angelo nerd, chino sul suo computer a lavorare, con una tazza di thè a portata di mano, che alza la testa ogni volta che mi sente entrare in camera, per stendermi coi suoi sorrisi pieni di tenerezza che spesso mi fanno stare male, perché sento di non meritarmeli.
E io chi sono? Che cosa sarò? Sono meglio di loro? Solo perché mi faccio pagare, perché ho la scusa che sia un “lavoro”, sono diverso da loro?
La serata è andata avanti così per ore, con quelli sempre più scalmanati, che per fortuna, sborrata dopo sborrata, hanno cominciato a cadere come le mosche. Chi esausto, chi impotente per la vergogna, sono stati via via eliminati.
Cazzi enormi, piccoli, slabbrati, ne ho visti e assaggiati di tutti i tipi quella sera. Era come se i cazzi di tutto il mondo si ribellassero del fatto che avevo deciso, di lì in avanti, di occuparmi solo di quello del mio uomo, e si fossero coalizzati per farmela pagare, affogandomi di sborra, tanto da strozzarmi e farmi soffocare. Un armageddon, un’apocalisse di cazzi.
Eppure non ho vomitato neanche una volta. Era come se dovessi espiare per un’ultima, colossale volta. Io contro i cazzi di tutti il mondo e avrei vinto io. E poi, a lungo andare, non gli usciva quasi più niente, se non qualche goccia di acquetta innocua.
Io ero come anestetizzato, non m’importava più. Aspettavo solo la fine. E quando finalmente si sono fronteggiati i due finalisti, come due pistoleri in un duello all’ultimo cazzo, è stata questione di minuti. L’ultimo sconfitto ha provato in tutti i modi a venire, prendendo la mia faccia e sbattendosela contro l’uccello con forza, neanche stesse tentando di evirarsi, facendomi leccare a lungo. È arrivato persino a chiedermi di leccargli il buco del culo, se non fosse che l’altro si è opposto, dicendo che era contro le regole. Perché le sfide tra cazzi hanno una loro morale. Esiste un codice d’onore a cui tutti i cazzi gentiluomini si devono attenere. E poi, ha aggiunto un altro, non era giusto dargli troppo tempo per ricaricarsi. Se l’arma era scarica, c’era solo da accettare la sconfitta.
Penso di non avere mai guadagnato tanto nella mia pur breve carriera. Quasi non sapevo come fare a cacciarmi tutte quelle banconote in tasca.
Il padrone di casa, evidentemente soddisfatto, è arrivato ad abbracciarmi, schioccandomi persino un bacio sulla guancia. La mia bocca avrà puzzato del fetore dei cessi degli Autogrill. In un impeto di premura mi ha addirittura aiutato a infilarmi il cappotto, non fosse mai che prendessi freddo. La salute, prima di tutto.
“Allora ci sentiamo presto”, mi ha detto con fare rassicurante, come a informarmi che avevo superato la prova. Ero ormai il succhiacazzi di fiducia. Quello ufficiale. “Alla prossima.”
Tornando a casa, finalmente, ai bordi della strada ho vomitato su un’aiuola.
Lacrime, rabbia e tanta, tanta sborra.
(Estratto dal romanzo “Finché non mi vedrai volare”, di Sylar Gilmore, edito da Eroscultura, bestseller Amazon)
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Aggiunto: 5 anni fa
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«direi triste»